L’opinione divisa della critica sui giudizi per un film come quello di Adam Mckay, Don’t Look Up, è sintomo della reazione divisa che oggi la società avrebbe di fronte un evento catastrofico, come la fine del mondo, di cui l’uomo è sia causa sia possibile soluzione. Alla luce del successo planetario o meno che il film ha o avrebbe dovuto raggiungere, dopo più di due mesi dall’uscita al cinema e in streaming su Netflix, quello su cui dovremmo continuare a riflettere è quale comportamento umano riconosciamo come veritiero e quanto questa verità descrive il nostro modo di guardare alle problematiche sociali. Un film il cui filo conduttore è il denaro che crea altro denaro a discapito di una società che va a rotoli, perché troppo impegnata a schierarsi senza preoccuparsi di agire, non fa altro che descrivere la società del Terzo Millennio.

In linea col carattere satirico e denigratorio della filmografia firmata Mckay, Don’t look up non fallisce il suo intento, quello di smascherare l’incapacità dell’uomo moderno di occuparsi dei problemi che riguardano l’umanità. È come se la società moderna continuasse ad ansimare il raggiungimento di un disegno di globalizzazione più totale senza prendersene cura fino in fondo, come se cercasse di ottenere più potere possibile senza però dare testimonianza, con i fatti, della conquista meritata. Il problema è che questo stato di cose ci sta bene, perché se scegliamo di essere inattivi nel nostro presente, di conseguenza, saremo degli spettatori inermi nel futuro – come insegna il film. Ma potremo essere attori e spettatori di una catastrofe?

Il focus della pellicola è il parallelismo tra la società durante la pandemia, e nell’era del cambiamento climatico, e la distruzione della Terra da parte di una grande cometa. La linea che separa la realtà dalla finzione è netta perché attualmente non esiste nessuna cometa in rotta di collisione con la Terra, ma le modalità di narrazione sono più che attuali: scoperte scientifiche che anticipano scenari catastrofici, disinteresse della classe politica che coinvolge la comunità civile, isterismo dovuto ad una mancata presa di coscienza, inevitabile divisione della società.

Se pensiamo agli anni pre e post pandemia il film cade a pennello. I due astronomi Randall Mindy e Kate Dibiasky, protagonisti del film e interpretati da Leonardi di Caprio e Jennifer Lawrence, cercano di mettere in guardia il mondo dalla calamità futura e, avendo solo sei mesi a disposizione, diventano prima portavoci del sapere scientifico e poi martiri della narrazione mediatica con tanto di ridicolizzazione e sfruttamento del proprio ruolo. Mettendo in gioco i meccanismi di mercificazione del sapere, il film torna alla nostra attualità: negli ultimi due anni i virologi comparsi nei programmi televisivi hanno ottenuto una notevole fama che contrapposta al modus operandi di gennaio 2020 (quando il pericolo del Covid-19 sembrava potesse essere un problema lontano) ha ridimensionato il coinvolgimento della comunità scientifica nel dibattito pubblico.

Tuttavia, l’obiettivo non deve essere quello di creare delle eroiche figure della scienza piuttosto attirare la popolazione verso la comprensione delle problematiche che attraverso la ricerca inevitabilmente riguardano la società. Nel film questo tentativo sembra raggiungersi in due momenti che soltanto in seguito si riveleranno inutili. I due scienziati sono increduli all’idea che una nota emittente televisiva li possa accogliere perché testimonino la scoperta, così come poco dopo sono entusiasti della volontà della presidente degli Stati Uniti Jean Orlean (interpretata da Marilyn Streep) di intervenire politicamente sul problema, ma ben presto scoprono che in entrambi i casi si tratta di una soffiata mediatica volta a dare al primo una visione mediocre e sminuita del problema (la distruzione del mondo), al secondo l’ultima possibilità di riconquista degli elettori.  Il lavoro dei mass media e della classe politica è descritto in modo esasperato e grottesco e la società appare in balia delle correnti di pensiero che meglio si impossessano dell’opinione pubblica.

Ebbene una descrizione coincidente alla realtà pandemica dove, nonostante le migliaia di morti, le retoriche sul covid-19 hanno trasformato il problema da una questione sanitaria a una politica e ideologica, coinvolgendo le dinamiche della vaccinazione. Per questo nel film molti atteggiamenti sembrano ricalcare sia le figure politiche che prima sminuiscono il virus e poi lo strumentalizzano sia l’atteggiamento di chi alla negazione del contagio oppone disegni di insurrezione.

Sembra di assistere ad una triade tra politica, scienza e mass media: inevitabilmente la scienza sta in mezzo, è sfruttata e soccombe alle dinamiche politiche e non sembra essere destinata alla salvezza. La politica è il timone delle dinamiche sociali e mediatiche fino all’arrivo del colosso economico che sovverte il sistema in una tetrarchia apparente. Nel film Peter Isherwell, caricatura dei grandi business magnate del mondo, è il vero artefice delle scellerate scelte politiche volte a soddisfare personali principi di megalomania piuttosto che quelli di una filantropia ostentata.

Don’t look up è la metafora del modo in cui l’uomo è solito guardare alle questioni del mondo, ossia non guardarle proprio. È un urlo isterico di fronte all’urgente problema del cambiamento climatico. Secondo l’ultima relazione del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC), il riscaldamento globale sta provocando un aumento dei cambiamenti nell’andamento delle precipitazioni, negli oceani e nei venti in tutte le regioni del mondo. Ma secondo gli scienziati l’azione umana può cambiare il corso degli eventi: una riduzione immediata e su vasta scala delle emissioni di gas a effetto serra e il conseguimento di un saldo netto di emissioni di CO2 pari a zero possono limitare i cambiamenti climatici e i loro effetti. Adam Mckay ha mantenuto fede al modo di raccontare la realtà dietro i momenti di crisi, tipico dei suoi film degli ultimi anni, discostandosi dal fare commedie in senso puro e avvicinandosi al risultato destabilizzante delle commedie satiriche: nel 2015 con La grande scommessa – un mix di dramma e satira sulla crisi finanziaria del 2008 – e nel 2018 con Vice – L’uomo nell’ombra sul controverso vicepresidente degli Stati Uniti, Dick Cheney. Dalle interviste sul film in chiusura del 2021 Mckay parla di Don’t Look Up come del suo film più personale, senza nascondere la propria visione socialista democratica e, capace anche grazie l’esperienza pregressa, di accettare le critiche e i complimenti per un film costato 110 milioni di dollari. Ma forse per Mckay non è solo una questione di soldi.

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