“I luoghi sacri della democrazia sono inviolabili, ripeto, inviolabili”. Così il prefetto di Roma Pecoraro dichiarava venerdì 23 novembre ,  giorno prima del corteo studentesco che avrebbe attraversato le strade della Capitale, rispetto alla volontà di raggiungere e manifestare sotto i Palazzi del governo. Giornali e telegiornali da giorni alimentavano l’intenso e molto proficuo dibattito sulle violenze, probabili o sicure a seconda delle sfumature scelte dal cronista di turno. Bisognerebbe riflettere sull’utilizzo delle parole e sul fatto che, come sempre, a rispondere ai movimenti sia il prefetto o il ministero degli Interni. Il ministro Cancellieri, al termine del corteo ha annunciato radiosa “ha vinto la democrazia!”. Nessun incidente, finalmente tornano in piazza gli studenti buoni ed isolano la regia violenta di 10 giorni prima, tutto è tornato alla normalità.

In mezzo a queste due dichiarazioni però, c’è un fatto non trascurabile: ci sono circa 20mila studenti che tornano in piazza dopo la violenza e le aggressioni subite dalle forze dell’ordine. Questi 20mila studenti girano per ore nelle strade di Roma, con un corteo non autorizzato, segnalando banche e luoghi dello sfruttamento del lavoro precario e giovanile nei quartieri della movida, fermandosi davanti ai musei che rischiano di chiudere per difficoltà di bilancio e rivendicando l’accesso libero alla cultura. Proseguono per il Lungotevere, proprio in quelle strade dove la settimana prima era inaccettabile farli sfilare, decidono di  passare sotto al ministero di Grazia e Giustizia, li dove le traiettorie impossibili diventano realtà.

Arrivano in centro e proseguono fino a raggiungere la piazza antistante al Senato della Repubblica. Proprio lì, davanti a quel “luogo sacro inviolabile” ha sfilato un corteo tenace, deciso e gioioso: gioioso di riprendersi le strade che volevano essere negate, felice di aver vinto la propria partita.

Nessuno può imporre dall’esterno il terreno di confronto che sceglie il movimento, non si accettano diktat tuonati con parole minacciose, in piazza siamo scesi con i libri scudo e con i caschi, proprio come il 14 novembre. Perché non abbiamo nulla da nascondere, nessuna regia occulta né disegno criminoso. La verità è che eravamo gli stessi del 14 Novembre, con le stesse pratiche e la stessa voglia di mostrare che non ci arrendiamo e che abbiamo ragione.

Il giorno dopo è tutto un rincorrersi di ricostruzioni rassicuranti: “Gli studenti rifiutano le violenze e mettono in minoranza i professionisti dello scontro”. In fin dei conti siamo tutti abituati a queste mistificazioni, ma più passa il tempo più sono dannose.

Proprio come pensare che la democrazia sia custodita solo in quei Palazzi, che il loro essere sakros sancisca “alterità e diversità rispetto all’ordinario, al comune, al profano”, dove il profano sono gli studenti che cercano da anni di costruirsi un domani all’altezza, partendo dalla riscrittura del presente. E le piazze piene non sono strumenti democratici? Il dissenso ed il conflitto non fanno parte della democrazia? Evidentemente no, sono solo un corpo estraneo, un attentato alla vera democrazia, quella dei tecnici esperti e sobri e delle primarie .

Anche Bersani ieri sanciva il “bagno di democrazia” voluto da lui, quei circa 3milioni di votanti che hanno restituito linfa al centrosinistra e dato dignità al suo progetto di governo. Eppure nemmeno una parola su questi temi da parte degli sfidanti, di quei magnifici cinque che hanno monopolizzato il dibattito pubblico nelle ultime settimane. Per loro gli studenti hanno ragione? Credono che l’austerity sia la giusta via? Una volta arrivati al governo, che ne faranno del memorandum della Troika? Forse troppe domande, la democrazia non si esercita domandando, bisogna solo votare, metti una croce e torna a casa.

Noi però abbiamo tutta un’altra idea: la democrazia riempie le piazze, sa lottare, difendersi e parlare a tutti, non impone ma costruisce, strappa tenacemente diritti violati e sa violare le regole se queste stringono un cappio al collo di un’intera generazione e di una fetta sempre più alta della popolazione.

Il sacro e il profano li lasciamo a chi vuole coltivare un culto, noi invece vogliamo cambiare il mondo.

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