Quella notte avevo riposato poco, preda di anticipazioni, proiezioni, futuri ipotetici e immaginifici. Ali di carta per aquiloni d’inchiostro e allegrezza Direttore responsabile: Claudio Palazzi
I miei occhi erano ancora più arzilli e spalancati, come una coppia di saracinesche difettose che non volevano abbassarsi; dispettosi, inclini a riflettere le stranezze del mio cervello eccitato, si fissavano sui numeri della sveglia digitale, i quali parevano affetti da invalidante inerzia.

Il chiarore già filtrava, sezionato, dalle persiane, ma quelle pochissime ore che mi separavano dal debutto del giorno non passavano mai: si trascinavano indolenti tra gli angoli silenziosi della casa e dei pensieri, che trattenevo a stento, sperando di poter riposare ancora un poco.

Ogni minima deviazione da quell’atmosfera taciturna diventava un alibi per proseguire in quell’inutile veglia; le mie iridi resistevano stoicamente alla stanchezza, riproducendo l’orologio a pendolo che ticchettava al piano di sotto o il merlo che, ancora più insonne di me, cinguettava non lontano dal balcone, prima dell’alba: oggetti ed esseri viventi si materializzavano davanti alla mia vista, con la scusa di voler ingannare l’inettitudine del tempo e distogliere l’attenzione dal compito che mi attendeva in quel mattino ormai prossimo.

Aspettavo quel lunedì da un po’, con trepidazione, al pari di un avvenimento che meritasse il conto alla rovescia, di solito riservato alle grandi occasioni; in quel particolare periodo storico, avevo iniziato a dare importanza a sentimenti sopiti, a dettagli che, in passato, non avevano mai avuto la benché minima considerazione, a gesti forse ininfluenti, ordinari, ma che, in verità, potevano assumere un valore umano inedito, se osservati da una prospettiva differente.

Le piccolezze del quotidiano, le improvvise bizzarrie dell’interiorità si ergevano a personali panacee dall’incredibile potenza palingenetica: laddove il corpo non poteva arrivare, perché bloccato nei confini di una città di provincia, le parole, emozionate e sincere, ancor più caparbie e robuste per soppesare le anguste ristrettezze di un animo timoroso, sprovvisto di un nulla osta per un concreto espatrio, decollavano e superavano qualsiasi barriera, non solo fisica.

Era da una vita che non scrivevo una lettera.

Ma non mi riferisco a quelle inviate per posta elettronica, spesso così fredde, di fatto estranee alla consistenza materica, che attraversano l’etere mediante esoteriche formule algoritmiche: alludo a quelle parole la cui poeticità incontra la delicatezza antica dei fogli profumati di cellulosa, leggermente stropicciati da dita impazienti di valutare il risultato finale dello scritto o, in ottica opposta, di leggerne il misterioso messaggio; fogli inumiditi da qualche commossa lacrima, fogli che lasciano trapelare il tremore di una mano agitata, intenta a piegarli con previsione geometrica per poterli imbustare.

Una semplice busta di carta si tramuta in una solida cassaforte, alla quale viene aggiunto lo charme di un seducente e accattivante biglietto da visita: la debole striscia autoadesiva non basta assolutamente a garantire la segretezza e l’integrità del contenuto, cosicché essa viene rafforzata con del nastro adesivo, dalla trasparenza e dalla tenuta impeccabili; che la complessa traversata tra scatole e furgoni o la curiosità perversa di sconosciuti non permettano di manomettere quel sigillo inviolabile.

L’eleganza formale di cui si parlava poc’anzi, tesa ad una leale ma veemente captatio benevolentiae, che punta sull’ordine e sulla precisione fin dalla primissima impressione esteriore, consiste nella stesura dell’indirizzo del destinatario, per il quale i termini refuso o inesattezza non sono minimamente contemplati; lo standard calligrafico da lista della spesa si eclissa a favore di un’accuratezza da zelante amanuense: ogni carattere, rigorosamente in stampatello, viene tracciato con maniacale attenzione, spesso seguendo una suddivisione tra nome e cognome, via, numero civico, codice di avviamento postale, città e nazione, già eseguita su un foglio di prova.

Più che ad una banale spedizione con francobollo economico, sembra di assistere ad un vero e proprio rituale: perché non è importante l’azione in sé, meccanica, ordinaria, una missiva che, come tante altre, si immerge nel traffico ininterrotto di raccomandate, bollette, regolari abbonamenti a riviste.

In quell’esile manciata di fogli si nasconde un ben preciso intento, la chiara idea di voler comunicare qualcosa, senza necessariamente aspettarsi una risposta; è il proprio punto di vista che, oppresso da una disperata esigenza espressiva, sceglie di affidarsi alla presunta immortalità della carta e di migrare verso una meta di cui si ha ben cognizione ma che, paradossalmente, resta nell’ombra, come quel riscontro che si teme di non ricevere: una sequenza di frasi che vuole liberarsi dai giudizi e dalle indiscrezioni di una tecnologia ossessionata dal controllo.

In verità, a ben guardare il mio intimo e folle operato, esso non era scevro da compromessi: per dare forma visibile alle mie riflessioni, avevo deciso di optare per la scrittura al computer, ma ciò non era sintomo di rassegnazione, né di pigrizia; la compilazione manuale, forse ancor più caotica e incomprensibile della mia psiche intasata, avrebbe potuto interferire con una corretta comprensione del testo.

Garantire la chiarezza di quest’ultimo era il mio chiodo fisso: avevo bisogno di internazionalismo, di poliprospettivismo geografico e culturale, di immediatezza e semplicità nel farmi capire ad ogni costo…

Mi lanciai nell’inglese con non pochi sacrifici: il mio modo di argomentare avrebbe perso una buona parte della sensualità dannunziana che mi contraddistingueva, mi ritrovai a consultare un manuale di grammatica vecchio di quindici anni, per paura di confondere i periodi ipotetici o di far indossare il plurale ad un sostantivo non numerabile; forse, questa scelta avrebbe reso le mie stesse dichiarazioni più appetibili, prive di una patina ridondante che rischiava di nascondere il limpido scopo di quelle parole avventurose.

Era da una vita che non scrivevo una lettera.

Anzi, forse non ne avevo mai scritte prima di allora, quando, in poco più di tre mesi, ne ultimai ben due: due composizioni non troppo lunghe né eccessive nei dettagli, ma inconfondibili, leggiadre, evocative, pronte ad esporsi in tutto il loro palese e nitido desiderio divulgativo.

Quella mattina il cielo era vestito d’inverno, appesantito da uno spesso strato di umidità che lo condannava ad una miscela biancastra, che impediva alle stesse nuvole di distinguersi e di cedere gentilmente il posto alle frizzanti azzurrità della primavera.

Ma non avevo alcuna intenzione di lasciarmi coinvolgere dalle influenze esterne: la mia anima era talmente euforica da trasformare l’aria circostante in un’esplosione improvvisa di scintille, capaci di surriscaldare quelle prime ore mattutine ancora diafane e intirizzite.

Come se temessi di ritardare rispetto ad un’inesistente tabella di marcia, la missiva era già pronta dalla sera precedente, perfettamente equipaggiata nella sua busta targata con mittente e destinatario, una sorta di marchio indelebile che non dava adito a dubbi, legati all’esattezza della meta da raggiungere.

Era una piccola parte di me, una preziosa e timida voce della mia interiorità, determinata ad andare lontano e connessa ad un gruppetto di parole, insignificante ai più.

Era una speranza aggrappata al potere della comunicazione, un sogno nascosto a cui volevo concedere il permesso di spostarsi, di viaggiare, di perdersi tra imbarchi, transiti e stazioni, sostituendosi alla mia persona, impossibilitata, almeno per il momento, a fare altrettanto.

Solcavo il marciapiede sporco e dissestato con quel pregiato documento tra le mani; in un eccesso di premura, avevo messo la busta in una foderina di plastica, affinché l’incartamento e i fogli all’interno fossero, all’atto della spedizione, privi di qualsiasi crepa o piega, oltre che protetti da un temporaneo e malevolo attentato della pioggia.

Che contrasto: l’asfalto bigio e fangoso, disseminato di foglie marcescenti e deiezioni, confliggeva con il candore di quella carta pressoché nuova, intonata alla missione che avrebbe dovuto svolgere nei giorni seguenti.

“Intonata”, “missione”… si tratta di una terminologia tutt’altro che impropria: continuavo a camminare e percepivo una melodia, che si propagava direttamente da quei personalissimi concetti stampati; un canto puro, armonioso, dalla spregiudicata franchezza, che aveva tutte le più propositive intenzioni di portare a termine il suo compito e diffondere tutto quanto avesse da svelare, senza reticenze, ma con garbo, entusiasmo, curiosità.

Sovente, immaginavo la destinazione: mi figuravo il luogo nel quale la lettera sarebbe stata accolta, le mani sconosciute che l’avrebbero toccata, forse con diffidenza, forse con inaspettato piacere, le ignote impressioni scaturite al termine della sua lettura…

Ma non volevo focalizzarmi troppo in errate aspettative: la parte migliore di tutta quella bizzarra quanto sentita vicenda erano le elucubrazioni sul “mentre”, su quel lasso di tempo che separava la partenza dall’arrivo.

Pensai alla canzone di Fiorella Mannoia Sorvolando Eliat: cominciai a girovagare in quel paesaggio che alternava sovraffollamento a desolazione, in un avvicendarsi di rilievi, campi coltivati, città al limite della saturazione urbana, culture e lingue divergenti e dissonanti, intanto che un dolce suono orizzontava il mio cuore verso oriente…

Mi sentivo profusa di una carica emozionale inconsueta, che stimolava e nobilitava la mia conoscenza; ero impaziente di sondare i mutevoli universi della mia interiorità, irretiti dai lumi estemporanei posti lungo il cammino, in un presente completamente velato solo in apparenza: aleggiava un sotteso credo a cogliere simbologie, metafore, stravolgenti visioni e intuizioni.

La penna aveva trovato il modo di dare vita ai miei sogni, facendosi libero verbo su ali di carta, fuggendo via dalla stasi di una scrivania e da notti troppo buie e soffocanti per favorire la circolazione della soave brezza portatrice di saggia, illuminante follia.

Conoscevo bene il destinatario del mio amoroso carteggio, perlomeno pensavo di saperlo, quel che basta per infervorare la mente e condurla fuori dalle quattro mura di un’astrazione reclusa; quest’ultima dischiuse le sue imposte e, superando la veridicità stessa dell’indirizzo trascritto nero su bianco, d’altronde uno tra milioni, si gettò tra le tumultuose correnti del viaggiatore, afferrando quell’aquilone vergato d’inchiostro e allegrezza: l’orizzonte lo scortò tra i gabbiani, le upupe e le altre maestose e fiabesche idealità alate.

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