Precedenti puntate: La mia casa è un castello (prima parte)

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Qualcosa mi salvò ancora, dalla mia reggia udii distintamente un altro rumore, pronto a lanciare il suo richiamo benedetto: mi girai verso l’ingresso della piccola chiesa ed uscii correndo, il marmo rialzato della soglia mi fece scivolare su un tappeto a righe bianche e verdi, con qualche antica macchia di pomodoro, sbattei la testa a un cestino pieno di scarti di verdure; ero per l’ennesima volta in cucina. Claudio Palazzi

Restai seduta a terra, un po’ dolorante, esausta per quei continui sbalzi, effettivi, virtuali, non ero più in grado di coglierne la differenza.

Ma il suono che mi aveva portato lì non era una mia invenzione: in cucina, una pentola piena d’acqua stava fischiando, il coperchio semovente annunciava che il suo contenuto era bollente; mi rialzai grazie ad una netta spinta delle mani e mi accorsi che sotto uno dei due palmi avevo un biglietto ferroviario.

L’utensile d’acciaio borbottava, un altro fischio, uno stridio fastidioso e fortissimo, poi un motore in sosta eruttò una nuvola di vapore, a segnare il traguardo raggiunto: un treno si era fermato a pochi metri da me, nella mia casa, nel mio bizzarro reame, il quale, a mia insaputa, si era dotato di una stazione con tanto di cartello identificativo, lettere bianche su sfondo blu.

Pallida di stupore, avanzai verso il mezzo con passi tremanti e occhi sgranati, finché la portiera, notando la mia presenza, si aprì; salii gli scalini con molta titubanza, ma con curiosità ancor maggiore.

Treno a vapore. (n.d.). [Photo]. Sassonia Turismo. https://sassoniaturismo-blog.it/media/treno-a-vapore-sassonia-germania_Foto-andreas-klipphahn.jpg

La carrozza non aveva nulla di convenzionale: non c’erano i sedili, lo stretto corridoio di collegamento, i vani portaoggetti, nemmeno i finestrini; alla mia vista si aprì il vuoto, uno stanzone vacante che ampliava il suo nulla ad ogni mio cauto movimento in avanti.

Uno scossone e il treno ripartì senza preavviso; in tacito accordo con il resto, il calendario, appeso ad una grigia, esile parete, non aveva né numeri particolari né crocette, soltanto una risma di pagine bianche, e nell’uno, come in queste ultime, era facile perdersi: un infinito indistinto, nel quale dissolversi per sempre, dimenticando anche se stessi.

Camminai velocemente di vagone in vagone, identici l’uno all’altro, una successione ininterrotta di lunghi tubi, uniti a formare una spirale psicotica.

Ormai condannata al fallimento, vedevo lo squallido percorso sempre più sfocato, finché non si palesò l’eccezione: una scatola di cartone malconcia, apparentemente in tono con l’ambiente, nascondeva un tripudio di tempere, penne, pennelli, pastelli, acquerelli, carboncini, e cominciai a disegnare, creare, progettare; si materializzarono nell’etere, con il solo tocco dello strumento artistico, guidato dalla mia mano febbrile, paesaggi, luoghi incantati, città, sogni sedati da mesi, forse anni.

Le pareti sparirono sotto i colpi di una fantasia disperata, assetata di dare vita alla vita stessa, con tutta la sua fondamentale sovrastruttura, ben al di là dell’essenziale, in una miriade di panorami colorati, di oggetti multiformi.

Ero immersa in ciò che producevo con la matita, con l’anima, non avevo più cognizione di cosa fosse reale o meno, probabilmente non volevo averne: in quell’istantanea spaziotemporale, era un’esigenza che aveva perso importanza; scorrevano le immagini di un’esistenza prossima a rifiorire, con tutti i suoi futuri propositi forieri di trionfanti vittorie.

Sfrecciò sopra la mia testa uno stormo di gabbiani urlanti, da un capo all’altro della piazza le persone passeggiavano e scherzavano, dimentiche di problemi e preoccupazioni, sostavano nei bar a mangiare generose coppe di gelato.

Mi figurai al centro del mondo: nel bel mezzo di quel vivace microcosmo, troppo emozionata per proferire qualsiasi tipo di commento, la chiesa di Sant’Agnese s’incendiò di tonalità vermiglie, in risposta al sole, a pochi minuti dal tramonto, i colori accecanti nella loro limpidezza.

Mi vennero in mente le parole che Kerouac citava all’inizio di un suo romanzo e che, proprio in quell’attimo, incarnavano il mio stato espressivo meglio di una fedelissima fotografia, il mondo dell’azione furibonda, della follia: ecco il motore incontenibile che mi spinse definitivamente in avanti, a dispetto dei cattivi presagi, contro le sentenze inaccettabili, le previsioni, contro gli stessi incontrovertibili dati di fatto.

Miscelavo tinte e dipingevo, spargendo campiture cromatiche in preda a una sconsiderata quanto sana evasione; il rosso vespertino dell’immensa Roma deviò su un più tenue arancio, i frutti estivi erano disposti ordinatamente sulla bancarella di un mercatino di montagna: sotto i miei piedi disegnai una strada lastricata.

Il centro brulicante di Füssen era animato dai turisti di metà pomeriggio, indaffarati a curiosare tra le vetrine dei negozi; il profumo dei dolci ancora caldi nei fornai causava espressioni inebriate, gli occhi si rivolgevano altrove senza una logica, tuffandosi nei pascoli ameni dell’alpe estiva: in un passaggio sensoriale di testimone, si udiva lo scampanio degli armenti, che viaggiava attraverso le valli fino agli inviolabili laghetti di natura glaciale.

Proseguivo lungo quell’eco polifonica di voci dalle innumerevoli manifestazioni, un universo che propagava la sua resurrezione: lo stavo delineando con il potere delle mie scelte interiori, finalmente estranee alle incertezze della provvisorietà.

All’ombra della Cima Grande, le campanule violacee rimiravano la loro tersa immagine nelle acque cerulee del lago, fondendosi in inedite screziature indaco; con l’approssimarsi del mezzogiorno, queste ultime digradarono nel rosa pastello, un getto delicato ma deciso, che mi guidò nel ventre di quel treno sempre più variopinto, in simultaneità con la sua andatura di crociera: il labile attrito sulle rotaie arroventate, prima simile ad un inquietante sibilo, si trasformò in un sottofondo remoto.

In fondo all’ultima carrozza, riconobbi i lineamenti di un castello fiabesco, il flusso rosato aveva ricoperto, per intero, le sue pareti: al di sopra della muratura, s’innalzavano numerosi pinnacoli dorati, sui quali svettavano i vessilli di un reame a me conosciuto.

Sulla punta della torre più alta si ergeva un fiocco di neve gigantesco, di inaudita luminescenza e, appena il sole incontrò ogni spigolo dei suoi cristalli, un’esplosione di luce mi avvolse: un giallo diafano investì lo spazio circostante, dissolvendone qualsiasi barriera.

Da quel contesto di pura e indefinita evanescenza, raggiunta la comunione di tutte le sfumature cromatiche, si dipartì un arcobaleno, che attraversò l’aria senza limiti direzionali; mentre ammiravo il suo flessuoso scorrere, come una fonte d’altura ritemprata dalle nevi stanche dell’incipiente estate, Alsvior mi raggiunse al galoppo, su quel tappeto che solcava il firmamento: il prezioso destriero ne assorbì tutte le cangianti tonalità, diventando parte di quell’incantevole gioco di iridescenze.

L’arcobaleno si attorcigliò su se stesso, formando una scala che puntava verso la cima, in corrispondenza della stanza più alta del castello, tramutatosi in un’incorporea struttura longilinea; io e Alsvior seguitammo a percorrerla, dotati di una rinnovata consapevolezza: nonostante l’etere abbagliante, il quale ci scortò e ci fece abbassare il capo in evidenti difficoltà visive, quel bagliore spalancò l’urgente bisogno di una sospensione, che coinvolgesse non solo il travagliato stare nel mondo, ma anche qualunque opinione preconcetta sui suoi strani accadimenti.

Castello fiabesco. (n.d.). [Photo]. Si Viaggia. https://siviaggia.it/wp-content/uploads/sites/2/2018/12/castello-Marienburg-germania.jpg

Si svuotarono di significato il trambusto del vociare umano, fuorviante, alla ricerca forsennata di una subitanea approvazione, la corsa tormentata al falso progresso, la fagocitante superiorità sull’altro, l’esplicita solidarietà a tutti i costi, seppur mendace; il caos dell’umanità ammutolì disarmato, subentrandovi la natura in tutto il suo splendore, da sempre immune alla parola dannosa, alla fretta controproducente, all’invidia corrosiva, all’ipocrisia dissimulata nel buonismo.

Alla fine della scala ritrovai la mia camera, anch’essa privata di muri e inferriate: tutt’intorno si estendeva un’area dove il creato lussureggiava nel ritmo non più distorto delle stagioni, nell’abbraccio liberatorio di un Pianeta intento a riprendere le redini del suo violato divenire; osservai il mondo, il tempo, l’esistenza da un’altra prospettiva, ascoltai il mio pensiero, finalmente lontano da altrui giudizi e dicerie, inondato soltanto da quella chiarificatrice luce perenne, mentre il mio compagno equino si nutriva dei riverberi fatati.

Venuto meno il soffitto, il mio piccolo rifugio mansardato, una sorta di roccaforte reale in miniatura, si era aperto ad un esterno avulso dal presente oggettivo, permettendomi di sorvolare e coordinare un regno di infinite visualizzazioni, di cui non mi interessava più saperne l’origine, né lo scopo pratico.

In un’immersiva nuvola luminosa, si distendevano manieri storici arricchiti da selve sontuose, boschi che proliferavano oltre qualsivoglia ostacolo, a pochi metri da svuotati paesini tutti da scoprire, partendo dalle singole case a graticcio fino alla suprema cattedrale con gli stucchi di ascendenza barocca; i migliori manufatti umani avevano siglato un armonico connubio con il resto dello scenario vivente, sigillandolo in quella rovente giornata di luglio.

Alsvior era al mio fianco: aveva convertito i cristalli del suo corpo in scintille infuocate, un reticolo sfavillante, custode dell’arcobaleno e del calore di una compagnia fedele.

Tenendo tra le mani lo scettro dell’atemporalità, ubriaca di misantropia, scappai in quell’impero immateriale; senza voltarmi indietro, mi inoltrai nell’eterea canicola, forse illusoria, forse alterata, ma autentica come il respiro stesso di una vita che ha l’unica certezza di una vastità da esplorare.

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