Per il lettore, che basa il suo primo approccio con La campana d’Islanda su una frettolosa lettura della sinossi e su alcuni difettosi commenti pescati qua e là su internet, la sentenza narrativa sembrerebbe quasi scontata: La campana d’Islanda di Laxness, edito da Iperborea, è un romanzo, per la precisione un romanzo storico, nel quale le vicende di un povero contadino si intrecciano con la storia d’amore impossibile tra due amanti. Direttore responsabile: Claudio Palazzi. Case di torba, presenze elfiche ed altri chiaroscuri in terra islandica
Anche la copertina stilizzata del libro, raffigurante un paesaggio dai colori pastello, i cui delicati dettagli, a cominciare dal cavallo allo stato brado in primo piano, ispirano pace e benefica contemplazione, in realtà trae in inganno; il testo racchiude differenti sviluppi narratologici, che sostengono un curioso gioco di luci e ombre.

Fin dalle prime pagine, l’impatto con la nazione islandese è violento, intriso di dilagante oscurità: nonostante la prospettiva diegetica sia in terza persona, l’umidità di un territorio alquanto inospitale penetra nella pelle fino a suscitare i brividi, l’estrema povertà di un popolo schiavizzato da secoli spiazza e confonde colui che legge, colui che si scontra con fatti e descrizioni che, per quanto possano essere oggettivi, stimolano un insolito coinvolgimento sensoriale.

Siamo nei pressi del XVIII secolo ma, sullo sfondo di un’Islanda povera e rurale, rigidamente ancorata alle osservanze religiose e alla necessità delle pene corporali, è difficile poter parlare di “Secolo dei Lumi”: le atmosfere cupe, torbide, le sofferenze degli islandesi, costretti ad una vita di fame, di malattie, di stenti, per colpa delle angherie straniere, sono palpabili; nello specifico, la tirannia della monarchia danese, che ha imposto il suo monopolio commerciale sull’isola sperduta, ha trasformato quella piccola comunità in un manipolo di selvaggi, condannati alla sporcizia e all’arretratezza, segregati in fredde casupole di torba, dove l’esistenza, nonostante gli affetti familiari, scorre priva di amore e speranza.

Siano essi uomini o donne o bambini, tutti sono abbrutiti dall’apparente impossibilità di riscatto, pressoché sfregiati da un’incuria disumana molto più simile al contesto dell’Alto Medioevo che alle spinte progressiste dell’Era Moderna.

Ma è proprio in questo ambiente tetro, violento, dominato dalla staticità della brughiera, dove commerciare cordame da pesca con gli olandesi è un atto di altro tradimento, che emerge la figura picaresca di Jón Hreggviðsson: contadino emarginato ed alcolizzato, il quale condivide la baracca con la sua famiglia, allo stesso modo soffocata dal malessere sociale, Jón è un ladruncolo, un povero diavolo che, accusato della morte del boia reale, si trova a vivere una serie di incontri e a subire varie disavventure da una prigione all’altra.

In questa implicita evoluzione verso tonalità letterarie più movimentate e vivaci, senza, tuttavia, mai abbandonare il retroterra storico con riferimenti più o meno verisimili, in una notte ancora più buia e algida, il bifolco si imbatte in Snæfríður: soprannominata “Sole d’Islanda”, per la sua bellezza eterea, fiabesca, imperitura, questa ragazza possiede capelli biondi e occhi azzurri, è magra e flessuosa, intraprendente e spregiudicata, archetipo di un’Islanda gloriosa e splendente ma ormai lontana; sarà lei a fare di Jón un ramingo ambasciatore, liberandolo prima che venga eseguita la sentenza di morte per decapitazione, prevista per il giorno seguente.

La comparsa della giovane lungo l’incedere dei capitoli segna una svolta sotto diversi aspetti: dopo pagine invase di grigiore e di cruenti vessazioni ai danni dei più deboli, di prevaricazioni non solo fisiche ma anche psicologiche sulla reietta società islandica, considerata alla stregua di un’apolide massa umana, pronta per essere deportata per i lavori forzati e sfruttata a piacimento, finalmente una potente fonte luminosa rischiara il racconto e mostra nuove strade testuali; Jón e Snæfríður impongono le loro personalità, le loro aspirazioni, amplificando gli spazi stessi della storia narrata.

Mentre essa evolve in un arioso romanzo di viaggio, il bistrattato contadino, salvato in extremis dalla pena capitale, investito di un’inedita ed importante missione, rafforza la sua individualità di uomo d’Islanda, diffondendola lungo la traversata verso la Danimarca, fedele all’incarico, affidatogli dalla fanciulla, di far recapitare un suo messaggio all’amato, che si trova a Copenaghen.

Grazie a questa occasione esplorativa, Jón si ritrova ad attraversare non sola la Danimarca e la sua terra d’origine, ma anche i Paesi Bassi, sbarcando nel porto di Rotterdam: egli si relaziona con gente ospitale, assapora il più mite clima olandese, solcando vaste ed assolate distese erbose, ma deve fare i conti anche con alcuni imprevisti, come la leva forzata ad opera dell’esercito tedesco; queste esperienze permettono non solo al personaggio, ma anche al lettore di rapportarsi con le altre popolazioni nordiche, tutt’altro che dotate di piena superiorità morale e storica.

Ed è in questo frangente che risalta il personalissimo patriottismo del contadino: Jón non fa che canticchiare le rímur, persino durante le più inadatte peripezie, non può fare a meno di esaltare il suo antenato Gunnar di Hlíðarendi, per la prestanza fisica, per le sue azioni eroiche…

Ecco che scatta un ulteriore crescendo nella poiesis costruttiva della vicenda: il romanzo errante, guardando al passato con orgoglio, si tramuta quasi in una saga leggendaria, focalizzandosi sulla riscoperta e, soprattutto, sull’urgenza di conservazione di fiabe e storie antiche; esse, nate nel cuore dell’Islanda, non sono soltanto la testimonianza concreta del patrimonio letterario di quest’ultima, ma assumono valore fondativo per l’umanità del Nord Europa.

I popoli del Nord non sono più uniti come un tempo, anzi, sono in costante conflitto tra di loro, eppure discendono da un unico modello culturale, paradossalmente minimizzato, lasciato a disperdersi tra gli incarti del pesce essiccato di quei disgraziati islandesi che non hanno i mezzi per elevarsi dalle loro infime inumane condizioni.

Disperato per l’inesorabile depauperamento di questa ricchezza libresca, l’erudito Arnas Arnæus, pur di mettere in salvo quei vecchi quanto preziosi documenti che sono l’unico nostalgico vanto della sua madrepatria, scende a patti con la corona danese: approfittando delle agiatezze e delle sicurezze derivanti dalla sua prestigiosa posizione di emissario del re, il colto studioso accumula, nel suo rispettabile studio, volumi, manoscritti, pagine ingiallite e consunte che, secondo la sua distorta prospettiva, sono l’unica traccia umana islandese degna di essere salvaguardata.

Arnas, nella sua spasmodica ricerca, si avvale dell’aiuto di un altro colto studioso, Grindvicensis, che diviene per lui una sorta di braccio destro: osservandoli insieme, durante le loro artificiose elucubrazioni culturali, è impossibile non associarli alla coppia disneyana Mago Merlino – Anacleto, dal lungometraggio d’animazione La spada nella roccia (1963); nella loro goffa, implicitamente comica, difficoltà nell’affrontare l’esistenza, entrambi rimandano ad un universo fiabesco, ad una temporalità che, troppo presa dall’emulazione del passato, teso ad immaginare un futuro ugualmente vittorioso, non intuisce le potenzialità del presente.

Il regio commissarius è tormentato da un’ossessione, la Skalda, definito il capolavoro librario di tutte le terre nordiche: essa non solo contiene la genesi dei popoli del Nord, ma individua nell’Islanda la capostipite di questi ultimi; da questo capolavoro esegetico, una mistura di fatti reali e leggende, ne emerge un’Islanda autentica, invincibile, che non conosce sottomissioni né debolezze.

L’erudito sperimenta di persona la discrepanza tra i remoti fasti e lo squallore contemporaneo: egli, infatti, trova alcune pagine della Skalda proprio nella casa di Jón Hreggviðsson, nella regione di Rein, per l’esattezza le rinviene sotto il lurido materasso della madre del contadino; all’occorrenza, gran parte delle famiglie islandesi, minate dall’indigenza, utilizzano, senza far differenza tra opere letterarie e carta straccia, i fogli per rattoppare i vestiti consumati.

Arnas è talmente ottenebrato dai rimpianti, confinato nella semioscurità della sua biblioteca ovattata a venerare una nazione scomparsa, da non capire che la stessa Snæfríður è una reale opportunità di rivincita per la sua madrepatria, capostipite di tutti i territori scandinavi ed eternamente contesa e sottomessa alle dipendenze altrui.

La fanciulla è la bellezza nordica per antonomasia, un fascino sempiterno di cui l’elegante studioso non si accorge, nonostante ella diffonda, mediante il suo temperamento estremamente anticonvenzionale per l’epoca (da ricordare la recente diffusione in Islanda del rigore luterano), un abbacinante desiderio di rivalsa.

In una terra popolata di leggende secolari ma ferita nel profondo dall’atavica ottusità del genere umano, smanioso di accumulare senza, in definitiva, saper gestire né migliorare ciò che già possiede, il leggiadro “Sole d’Islanda”, con la sua nobile indole elfica, ammantata di vesti azzurre, argentee, dorate, che rimandano ad un’ulteriorità che trascende la ricchezza materiale, potrebbe essere la soluzione ai mali che affliggono la popolazione islandese; a distanza di oltre quindici anni, i due amanti si riservano ancora il diritto di sognare un futuro radioso insieme: Arnas, nominato finalmente governatore d’Islanda, vuole tornare a far risplendere di civiltà e umanità la culla del grande Nord, con l’amata al suo fianco quale vivido e fulgido esempio di rinascita.

Ma il tradimento di Arnas a favore dei libri è ormai compiuto e la giovanissima Snæfríður andrà in sposa a un ricco proprietario terriero, Magnus di Bræðratunga, il quale si rivelerà un fallito scialacquatore, preda di ricorrenti “vagabondaggi etilici”.

Il poliedrico romanzo si dota di una tangibile componente amorosa e, nel dodicesimo capitolo della seconda parte, non può esimersi dal narrare l’incipiente passione che irretisce i due amanti ancora giovani, sconosciuti, ignari dei loro destini tanto reciproci negli intenti quanto destinati tristemente a dividersi: la loro passione condivisa si configura come un’espressione raggiante di corrispondenze intellettuali, imprescindibili per la superiorità di una stirpe; quest’ultima è prima di tutto nobiltà d’animo, spontaneità nel conoscersi e nel riconoscersi nelle tematiche trattate, negli ideali di cui ci si fa portatori, unicità nell’apprezzare e custodire il medesimo stupore che solo i sentimenti più limpidi sanno suscitare.

Come nella miglior letteratura di fattura cortese e cavalleresca, i due innamorati, deviati dall’ingenuità della loro stessa giovinezza, intraprendono percorsi differenti, ignorando le evidenti congruenze psicologiche che avrebbero potuto unirli: la loro è una storia clandestina, vissuta nell’ombra della casa di Jórunn, sorella di Snæfríður, dove lei stessa si rifugia, esasperata per l’instabilità del marito; entrambi fagocitati dalle incertezze, è troppo tardi per recuperare il tempo perduto e godere di un’unione serena, totalizzante, da vivere e mostrare alla luce del sole, lontana dalle maldicenze umane.

Un velato ma deciso psicologismo si delinea in numerose pagine: la fanciulla e il professor antiquitatum danicarum sono due figure tormentate, incapaci di concretizzare i loro gloriosi sogni, i quali vengono inesorabilmente sostituiti da una spettrale apatia, dovuta all’incompiutezza delle loro azioni, fautrice del fallimento delle loro stesse esistenze.

Snæfríður, paradigma della donna angelica, è, fin da giovanissima, ribelle, combattiva: la sua mentalità è aperta, moderna, non smette di porsi degli obiettivi, di farsi delle domande, di lottare per il suo amore impossibile, segretamente tutelato nel proprio cuore, e per la dignità della sua famiglia, in particolare per ristabilire il buon nome del padre, il magistrato Edalyn; durante un dialogo con la sorella, la ragazza arriverà addirittura a fare delle riflessioni ante litteram sulla condizione femminile in Islanda, in un periodo durante il quale la donna aveva scarsa voce in capitolo su numerose questioni personali e comunitarie.

Il matrimonio oscura in parte le sue velleità di ragazza indipendente, eppure Snæfríður non rinuncia alla libertà di pensiero, a quella garbata finezza che nemmeno lo scorrere degli anni è in grado di scalfire; ma l’aspetto esteriore e i buoni propositi non bastano a rendere concreta la propria visione del mondo, a riabilitare la reputazione della propria terra d’origine e a liberarla dalle ingerenze straniere: la bimba viziata, un po’ cresciuta, è la prima a criticare i vacui sofismi dell’amante, tuttavia è lei stessa che non propone nulla di operativo per cambiare lo status quo di una società fatta di disuguaglianze, di un’intera umanità stagnante nella propria mediocrità.

Arnas la segue in questo circolo vizioso: come paralizzato da un senso di inadeguatezza, sul finire del libro, durante l’incendio di Copenaghen, egli osserva attonito, immobile, quel chiaroscuro di fiamme che inghiotte per sempre le radici librarie dell’Islanda; non si può vivere nel passato, né pensare che quest’ultimo sia in grado di rifondare il futuro, nonostante gli insegnamenti che fornisce a chi ha l’intuizione giusta per attuarli.

Non esiste un mondo perfetto, invaso soltanto dal bene e dalla sua paradisiaca luce ma, parallelamente, non è giustificato guardare al presente come ad un territorio plumbeo, invaso esclusivamente da buie risacche… e il professor antiquitatum danicarum pare aver compreso e messo in pratica almeno questo concetto.

Egli ha tra le mani le sorti dell’Islanda e l’amburghese Uffelen consiglia al suo paese di sganciarsi dalla Danimarca per diventare un ducato tedesco, uno scalo portuale anseatico, ma Arnas, non estraneo a questi sottili giochi di potere, rifiuta la proposta; passare dalla schiavitù danese all’egida germanica è un attimo ed egli sceglie di non sottostare ad alcun tipo di mercenario compromesso: l’Islanda non conosce la parola resa e, a costo di dover affrontare le avversità in eterno, non si piegherà mai ad una subdola sudditanza.

L’esperienza è disseminata di innumerevoli sfumature, di luminescenti soddisfazioni e ombrose sconfitte, di giorni schietti e notti che sembrano infinite: come l’erudito islandese ha il piacere di affermare, i grandi uomini non sono i “grassi servitori”, ma coloro che difendono la propria autonomia a spada tratta, senza vendere la propria identità al miglior offerente, sacrificando persino se stessi.

E la campana trafugata a Þingvellir, sull’Oxara, che caratterizza il titolo, l’incipit e da qui l’intero libro, è il più bel simbolo di lotta all’alienazione, di quel coraggio interiore che alberga negli individui desiderosi di superare le tenebre e di cogliere i sacri e impazienti richiami della vita.

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