L’Italia è nota in tutto il mondo per il suo patrimonio culturale, per la ricchezza della sua tradizione umanistica, eppure il campo dei saperi umanistici appare relegato a un piano di secondo interesse nel mondo lavorativo e nella pratica quotidiana, e di riflesso anche nel mondo della formazione universitaria. Il paese dell’Impero romano e di Dante, di Caravaggio e di Petrarca, è in grado di valorizzare tutto il sapere e le bellezze che custodisce? Formazione in Italia. Il paradosso della cultura umanistica Direttore responsabile: Claudio Palazzi
La sottoscritta ha frequentato il Liceo Classico e poi la Facoltà di Storia, un percorso consacrato all’umanesimo si può ben dire. Per quando riguarda il Liceo Classico ciò che sembra trapelare è un atteggiamento piuttosto elitario che nel senso comune associa questo percorso di studi quasi a una dichiarazione di stampo sociale. Il sistema scolastico riflette in effetti i diffusi pregiudizi a cui siamo avvezzi in Italia, che ci portano a stigmatizzare i percorsi di studio sulla base di criteri di classe e di censo – si tratta ovviamente di una generalizzazione che può però servire a mettere in luce certe dinamiche. In realtà, lo stesso Liceo Classico, che in quanto a gerarchia potrebbe vantare il primato tra gli indirizzi della scuola secondaria, finisce per essere vittima dello stesso gioco disfunzionale.
Lo studio approfondito del latino, del greco, della filosofia, della storia, della letteratura finiscono per essere ridotti a un estetismo, bello per farsi una qualche forma di “cultura generale” ma considerato poco utile e concreto nella vita del mondo contemporaneo. Insomma un bel trofeo da esporre in una teca. Il riflesso di una simile visione delle cose si riscontra nella formazione universitaria, ossia quel momento in cui lo studio approfondito diventa dichiaratamente indirizzato a trovare un lavoro. Rispetto alla media degli studenti universitari, quelli iscritti a corsi di laurea attinenti al campo “letterario” sovrastimano il peso dei fattori culturali (cioè la propensione verso certe specifiche materie) rispetto ai fattori professionalizzanti (cioè gli sbocchi lavorativi) al momento della scelta del percorso universitario da intraprendere.
Secondo le statistiche di Almalaurea (2016) non si tratterebbe di appena qualche punto percentuale, ma di ben 20 punti che distanziano gli umanisti dai colleghi di altre Facoltà. Cosa ci può dire questo dato? Sicuramente tradisce il fatto che in Italia sia diffusa l’idea che un lavoro in questi campi non sia poi così facile da trovare e la realtà del mondo lavorativo non fa che confermare questa tesi. Ci dice però anche un’altra cosa: dell’interesse che accomuna quanti intraprendono questo percorso. Scelgo di usare la parola “interesse” piuttosto che “passione” poiché il pregiudizio che pesa su questi studi rischia spesso di privarli del loro statuto scientifico per ridurli a semplici “passioni”, ossia “hobby” e “intrattenimento” che non necessitano di studiosi specializzati. Rimane il fatto che tanti umanisti – anche dopo aver conseguito la laurea ed essere magari incappati nei primi ostacoli del mondo del lavoro – si appellino al grande valore dei loro studi. Questo potrebbe apparire di parte, eppure dovrà pur dire qualcosa il fatto che tanti si prendano la briga di andare “contro corrente”, nonostante il mondo del lavoro, le battute al bar (ossia la vulgata comune secondo cui “non troverai mai lavoro”, “non serve” etc.) e tutto il resto li spingano in un’altra direzione. Durante il mio percorso universitario ho visto tante persone stupirsi quando dicevo loro di frequentare un corso di laurea in Storia, ma altrettante mi hanno detto: ”Che bello! Anche io ho la passione per la storia, ma sai non ho avuto il coraggio di iscrivermi a Lettere e Filosofia. Sai poi con il lavoro…”.
Insomma, la cultura umanistica rappresenta molto per il nostro paese e molto per tanti di noi, ne siamo imbevuti ogni momento anche solo camminando per le nostre strade piene di monumenti e storia. È un nutrimento per l’anima, un antidoto senza eguali per la superficialità e l’ignoranza, uno strumento di analisi e di azione nella gestione dei problemi del mondo contemporaneo, ma anche un fattore potenzialmente economicamente travolgente per un paese come l’Italia che ospita così tante manifestazioni della cultura. Tuttavia la cultura umanistica non viene valorizzata in nessuna di queste sue forme e potenzialità, con la complicità dei luoghi deputati al suo studio e insegnamento. Il mondo esterno impone questa realtà ed essa pare essersi semplicemente rassegnata, o forse peggio adeguata. Manca cioè un approccio innovativo allo studio umanistico che sia in grado di rompere lo scrigno di vetro nel quale è stato rinchiuso, permettendogli comunque di mantenere la dignità di un sapere specialistico.
La filosofia, la storia, la letteratura, la storia dell’arte non sono solo “cose belle e interessanti”, sono cose primariamente utili a capire il mondo e rapportarsi con esso con consapevolezza e spirito critico. Cosa potrebbe ridurre questo GAP, tra interesse e utilità? La formazione universitaria potrebbe avere in questo senso un peso significativo se si impegnasse a rivoluzionare parte dei suoi programmi di studio e del suo modus operandi. Nessuno nega l’importanza delle nozioni e di uno studio approfondito di queste materie, ma sarebbe altrettanto vitale sia integrare attività pratiche, come possono essere ad esempio laboratori di scrittura, esperienze in musei e mostre, ma perché no anche in aziende ed enti dei mass media, sia integrando un approccio teorico più aperto e dinamico che porti i ragazzi a sperimentare l’applicazione di questo sapere al mondo che li circonda.