La vicenda dei Guaranì, che attualmente vivono in alcuni territori di Argentina, Bolivia, Brasile, Paraguay e Uruguay, può essere forse considerata emblematica del percorso seguito dai popoli indigeni latinoamericani negli ultimi 5 secoli.
Originari dell’Amazzonia, abbandonano la foresta a partire dal secolo XIII per dirigersi verso sud e ovest alla ricerca della “tierra sin mal”, di una terra promessa nella quale vivere in armonia con gli altri esseri viventi, uomini, animali e natura. Si troveranno invece a dover subire 500 anni di dominazione coloniale e sfruttamento, a lavorare come “peones”, praticamente schiavi della terra, per un padrone bianco, a vivere prigionieri nel proprio territorio. Focolai di rivolta, spenti con il sangue, continuano ad accendersi fino al 28 gennaio 1892, data del massacro di Kuruyuki: i Guaranì oppongono archi e frecce ai fucili dell’esercito nazionale. La sconfitta è totale, e da quel momento i Guaranì sembrano scomparire dalla storia.
Eppure, anche se costretti al silenzio e privati del rapporto ancestrale, pieno e concreto, con il territorio, rapporto nel quale si sostanziano l’appartenenza e l’identità indigene, la cultura Guaranì, fondata sulla condivisione e sullo scambio, sottovoce e quasi segretamente sopravvive. Sopravvive quello che i Guaranì chiamano lo “Ñande Reko”, il “Nostro modo di essere”.
Bisogna tuttavia aspettare gli anni ’80 del secolo scorso, anni in cui inizia a soffiare all’interno della Chiesa Cattolica latinoamericana il vento della “Teologia della Liberazione”, che ai concetti di peccato e accettazione del dolore affianca quelli di giustizia e lotta per i propri diritti, per assistere a quello che gli stessi Guaranì considerano un “risveglio”. Nel 1987 nasce la APG – Asamblea del Pueblo Guaranì, che si pone da subito precisi obiettivi di sviluppo, sintetizzati nell’acronimo PISETT: Produzione, Infrastrutture, Salute, Educazione, Terra e Territorio. I Guaranì si organizzano, ma non per cercare vendetta: le radici salde nel passato permettono loro di guardare avanti, chiedono giustizia e dignità, perseguendo un’idea di sviluppo multidimensionale, olistica. Nel 1992, centenario del massacro, del momento più buio del lungo percorso dei Guaranì, a partire dal quale occorre ripensarsi e ripartire, i Guaranì marciano da Camiri a Kuruyuki, consapevoli per la prima volta del proprio ruolo come soggetto politico, come interlocutore paritario con le istituzioni. La marcia per il territorio e la dignità è in realtà appena iniziata, un cammino quotidiano che prosegue ancora oggi, nell’obiettivo di riappropriarsi delle terre usurpate dai “ganaderos”, grandi coltivatori-allevatori invariabilmente di origine europea, di vedere riconosciuto dallo Stato il diritto all’educazione interculturale bilingue per i propri figli, di avere accesso alle risorse del territorio, innanzitutto all’acqua.
I Guaranì non hanno smesso di lottare. Semplicemente, è cambiato il modo di lottare: “non più con archi e frecce, ma con il lapis e il quaderno”, un percorso di lotta che è anche un percorso di affermazione della propria esistenza nel mondo. I Guaranì oggi non pronunciano discorsi, ma esperienze di vita: pratiche di resistenza, per un’alternativa possibile al modello di sviluppo neo-liberista, che troppo spesso siamo portati a pensare come naturale e inevitabile. In ultima analisi, la lotta dei Guaranì e dei popoli indigeni oggi è una lotta per l’autodeterminazione, che significa poter scegliere autonomamente il percorso di sviluppo da intraprendere: un proprio modello di sviluppo centrato sul territorio, unico e irrepetibile. Perché terra è libertà.