Il 25 novembre è stata la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Giornate simbolo, istituite a testimonianza di fenomeni ed elementi che contraddistinguono la società nostrana. La violenza sulle donne ne è parte: le donne continuano a essere vittime di violenza. Le donne continuano a essere uccise.

C’è un filo rosso che unisce la storia di donne passate, che hanno vissuto epoche diverse, apparentemente lontanissime, alle donne del presente. La violenza del possesso, la violenza dell’abuso, la violenza della morte. Un sottile filo rosso che si snoda tra vite che non si sono mai sfiorate e che pure si somigliano, nella sofferenza e nell’attesa del cambiamento. Oggi, parte della violenza di genere ha acquisito nome proprio: cultura dello stupro, femminicidio; ma non si tratta di fenomeni recenti. Si tratta, infatti, di elementi fortemente radicati, tanto da rendere possibili ricerche su donne del passato, vittime a loro volta di violenze distorte a favore di aguzzini travestiti da vittime. Infondo, è così che sono nate le streghe.

La violenza di genere ha molteplici sfaccettature, tutte volte a minare la libertà di un individuo. Non a caso, con l’espressione “violenza di genere” si racchiudono tutte le forme di violenza: fisica, psicologica, sessuale, persecutoria, istituzionale, fino ad arrivare al femminicidio. La violenza di genere può essere esercitata contro una persona o contro un gruppo di persone, proprio sulla base di genere, sesso, orientamento sessuale e identità di genere.

La violenza sulle donne, in tutte le sue forme, è stata definita dall’O.M.S. come un “problema di salute di proporzioni globali enormi”. Un problema che infesta anche l’Italia.

Secondo i dati offerti dal Ministero dell’Interno, nel periodo comprensivo dal 1° gennaio al 22 ottobre 2023, sono stati registrati 268 omicidi, con 96 vittime donne, di cui 77 uccise in ambito familiare/affettivo. Di queste, 49 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex partner: le forme più gravi di violenza sono esercitate proprio da partner, parenti o amici.

Secondo l’ISTAT il 31,5% delle donne, dai sedici ai settant’anni – circa 6 milioni e 788 mila donne – ha subìto nel corso della propria vita forme di violenza fisica o sessuale. Come scrivere di storie già scritte, già decise da altri.

Il 20,2% delle donne – 4 milioni e 353 mila – ha subìto violenza fisica, il 21% – 4 milioni e 520 mila – ha subìto forme di violenza sessuale, il 5,4% – 1 milione e 157 mila – ha subìto forme più gravi di violenza sessuale come lo stupro – 652 mila – o il tentato stupro – 746 mila –. Numeri che raccontano storie di persone: figlie, madri, fidanzate, sorelle, zie, amiche. Eventi che sfiorano la vita di milioni di donne, lasciando loro addosso vergogna, paure e lividi; eventi che talvolta le spogliano di tutto, anche della vita stessa.

Il 25 novembre, con le sue scarpe rosse, rimane un simbolo che da solo non basta. Si potranno riempire tutte le piazze d’Italia con scarpe rosse, continuare a dedicare panchine dipinte di rosso in ogni provincia italiana, ma fin quando le donne continueranno ad essere uccise, giorno dopo giorno, in questo Paese e altrove, ogni diritto continuerà a essere calpestato e ogni donna continuerà ad avere paura.

Nel Global Gender Gap del World Economic Forum, sui Paesi con comportamenti virtuosi nei confronti delle donne, l’Italia si trova al settantanovesimo posto. Al ritmo attuale, serviranno circa centotrentadue anni per raggiungere una totale parità di genere. In Italia, è probabile che le donne di oggi non la conosceranno mai.

Tuttavia, la disparità e la violenza di cui le donne sono vittime può essere osservata e analizzata nei suoi motivi caratteristici. La violenza, spesso, continua a essere accompagnata dal senso di possesso. Si insinua, all’interno di una visione machista, la necessità di controllare i corpi e le vite delle donne. Insomma, violenza e privazione sono compagne da lungo tempo ed è fondamentale studiarne le cause e le origini. Solo attraverso la conoscenza di ciò che viene riconosciuto come errato è possibile correggersi. Solo attraverso il riconoscimento di matrici tossiche è possibile debellare quel che per lungo tempo è stato considerato, semplicemente, la norma.

La matrice della violenza

Per secoli la violenza è stata compagna delle donne. È parte di storie recenti, di storie comuni e di storie passate. Per generazioni, alle bambine è stato insegnato come comportarsi in quanto bambine. Allo stesso modo, ai bambini è stato insegnato, di generazione in generazione, a comportarsi come maschi.

Seppure la cultura patriarcale danneggi maggiormente le donne, sarebbe sbagliato pensare che non renda vittime anche gli uomini. Se alle donne viene negata la parità, agli uomini viene negata la debolezza. Se alle donne viene negata l’esperienza, agli uomini viene imposta la virilità. A seconda del genere d’appartenenza, il patriarcato impone regole e comportamenti; non a caso, è enormemente presente nell’atteggiamento delle stesse donne il cosiddetto “patriarcato interiorizzato”.

Per secoli alle donne sono stati attribuiti ruoli al margine. Le donne potevano vestire i panni di bambole di pezza, di angeli da focolare, di mogli ubbidienti; per lungo tempo le donne sono state divise tra sottomissione e stregoneria. Le donne potevano essere megere, potevano essere fate e potevano fare paura. La paura è stato il motore di azioni spregevoli e controllanti. In molti casi, oggi, lo è ancora.

Ad Atene gli antichi greci scrivevano del loro disprezzo per le donne, prendendole in giro, reputandole inferiori, sotto ogni aspetto. Ma nel profondo della ragione, un altro sentimento veniva covato: l’invidia. Perché era al corpo femminile che era stato attribuito il potere di generare la vita. Da qui, il bisogno di controllare il corpo delle donne, di scandire i ritmi della sessualità femminile; e l’urgenza di creare motivi alternativi, spiegazioni condivisibili, che potessero confermare una supremazia – quella maschile – che non aveva basi, se non la forza fisica, accompagnata dall’impossibilità dell’istruzione femminile. Se, ad esempio, il bambino somigliava al padre, la donna che lo aveva messo al mondo era stata fedele. Se così non fosse stato, quel bambino sarebbe diventato la prova concreta di una vergognosa colpevolezza. Era il padre, infatti, a trasmettere le proprie fattezze al bambino. La futura madre non contribuiva in alcun altro modo: era considerata alla stregua di un contenitore.

Eccolo, il filo rosso della violenza, di cui è possibile seguire la scia. Percorrere le sue conseguenze, le vite che ha attraversato, in tempi che all’apparenza sembrano essere lontanissimi e che invece contengono la stessa sofferenza, lo stesso colore. Rosso vivo. Lo stesso che vediamo oggi in manifesti, in fotografie e sulle labbra di donne silenziose.

Ipazia d’Alessandria: l’astronoma cancellata

Nell’Antichità si raccontavano molte storie. I miti servivano a spiegare l’origine delle cose e talvolta a raccontare verità nascoste, comprese verità di donne vendicative, presunte verità di donne ferite o abusate. Medea, Medusa: vittime diventate mostri.

Ma come spesso accade è la realtà a superare i miti. A far avverare storie terribili, così terribili da volerle cancellare. Tra queste, la storia di Ipazia.

Raccontare la storia di Ipazia non è semplice. Non solo perché si tratta di una storia cruda, a cui non è stato concesso alcun lieto fine; piuttosto perché su Ipazia d’Alessandria si trovano poche informazioni, condite da una certa dose di leggenda.

Ipazia nacque ad Alessandria d’Egitto nel IV secolo D.C. Tra le donne più istruite del mondo ellenico, Ipazia fu figlia del noto filosofo Teone, uomo finemente colto, le cui conoscenze si concentravano principalmente sulla matematica e sull’astronomia, che studiava e insegnava ad Alessandria d’Egitto.

Ma Teone è anche un padre, un padre che riconosce l’intelligenza e le capacità di sua figlia Ipazia. Deciso a non sprecarle, incoraggia negli studi sua figlia, tanto da farne sua allieva, benché donna. E così, Ipazia studia: s’interessa alle scienze esatte e alla filosofia, fino a succedere al padre in qualità di capo della scuola alessandrina.

Fondata da Tolomeo I, generale di Alessandro Magno e primo Re dell’Egitto ellenistico, la scuola alessandrina racchiudeva in sé studi, conoscenze e tradizioni, tutte ben rappresentate dalla più celebre biblioteca dell’Antichità, la Biblioteca di Alessandria. Il ruolo occupato da Ipazia, all’interno di quell’ambiente, rappresentò un’autentica rivoluzione. Dopo la sua morte, la presenza di Ipazia fu l’unica eccezione.

Ipazia, per molti motivi, fu fortunata. Ebbe la fortuna di poter studiare, di coltivare la propria conoscenza su ogni ambito. La filosofia, infatti, doveva includere il sapere più completo, spaziando dalla geometria alla speculazione di pensiero e profondità d’animo. Ipazia ebbe libertà di pensiero, facoltà di insegnare e di essere riconosciuta per la propria sapienza. Ma Ipazia fu anche sfortunata. Nacque e visse nel mezzo di forti tensioni sociali e politiche, dovute al contrasto tra la cultura classica e l’affermazione del Cristianesimo, da cui verrà travolta.

Dopo secoli di persecuzione, il Cristianesimo uscirà dall’ombra. Dapprima, l’editto di Costantino nel 313 D.C. permetterà al Cristianesimo di distaccarsi dalla clandestinità, allontanandosi definitivamente dalle religioni perseguitate. In seguito, nel 380 D.C. attraverso l’imperatore Teodosio, il Cristianesimo verrà dichiarato religione di Stato, allestendo il pericoloso sodalizio tra potere politico e religione.

In quegli stessi anni, Ipazia aveva attorno a sé molteplici discepoli. All’interno di un contesto fortemente misogino come quello greco, si era conquistata la stima di molti colleghi. Tutti elementi che non la porranno al sicuro, ma più in vista di tutti, durante il declino del mondo che aveva conosciuto sino a quel momento.

Ipazia divenne il simbolo di ciò che andava distrutto. Il principale ostacolo al trionfo del Cristianesimo sul mondo ellenico. Ciò che accadde ad Ipazia è intriso di violenza e odio. Odio verso il suo potere, la sua sapienza e il suo corpo. Un disprezzo espresso non solo dalla furia dell’omicidio, ma dalla volontà di cancellarne l’esistenza. Non a caso, tutte le sue opere sono andate perdute, probabilmente distrutte dopo la sua uccisione. Di quest’ultime, ci sono giunti solo i titoli.

La stessa storia di Ipazia, come già detto, è difficile da ricostruire. Eppure, la sua morte ci è giunta chiara, quasi fosse stata costruita a baluardo per ogni donna intenzionata a replicare i suoi comportamenti. Ipazia fu umiliata pubblicamente. Venne spogliata, lasciando il suo corpo nudo. Venne uccisa con cocci e pietre appuntite. Ma non bastava, bisognava recidere ogni cosa. Il suo corpo venne scarnificato, fatto a pezzi e cancellato col fuoco.

Secondo le fonti, una volta un suo allievo le aveva dichiarato i propri sentimenti. A quelle avance, Ipazia aveva risposto mostrandogli un panno sporco del suo sangue mestruale. Il ciclo mestruale, nell’antichità, era visto come il segno della debolezza delle donne. Una debolezza sostenuta dallo stesso filosofo greco Aristotele. Ma Ipazia, a quel gesto, accompagnò alcune parole.

“Questo è ciò che sono”.

Giovanna D’Arco: la guerriera bruciata

Tra le fila delle donne più note per aver infranto gli ideali canonici di femminilità, è impossibile non imbattersi nella Pulzella d’Orléans, Giovanna d’Arco. A colpire, tra i numerosi elementi che da sempre colpiscono della figura di Giovanna d’Arco, una giovanissima ragazza di diciannove anni, non è solo il coraggio. Un altro sentimento viene a galla. Si potrebbe parlare di inganni e ignoranza, ma quel che viene d’istinto provare, dopo averne sentito parlare, è un enorme senso d’ingiustizia.

Giovanna d’Arco aveva diciassette anni quando annunciava, alla Francia e al mondo intero, che Dio l’aveva incaricata di liberare la Francia.

Per eseguire quella volontà, chiedeva di poter combattere gli invasori, gli inglesi, nella logorante Guerra dei Cent’anni. E quella volontà si realizzerà: Giovanna guiderà l’esercito del Re di Francia. E vincerà, vestita da soldato. Poi verrà condannata al rogo, perché da pulzella mandata da Dio, da profetessa, da coraggiosa vincitrice, si trasformerà in una strega da bruciare sul rogo. Ma Giovanna d’Arco non rimarrà una strega per sempre, non del tutto. Ci saranno due processi, a distanza di vent’anni. Quello in cui Giovanna verrà condannata al rogo, perché ritenuta una strega. E quello avvenuto vent’anni dopo, in cui verrà riconosciuta, piuttosto, come una santa. Eccole lì, le due etichette appiccicate alle vite delle donne. Eccoli lì, i due mondi distinti, i due universi paralleli, destinati a non incrociarsi mai. Il buono e il cattivo, la santa e la strega.

Le donne erano l’una o l’altra, svuotate di ogni sfumatura. Il loro onore dipendeva dall’obbedienza e l’alternativa poteva essere la condanna.

Giovanna d’Arco, a soli diciassette anni, scelse la libertà.

Si tagliò i capelli. Si vestì da uomo. Andò a combattere in guerra. Comandò degli uomini.

Nel frattempo, i suoi nemici la deridevano. La chiamavano contadina e la minacciavano: l’avrebbero appositamente acchiappata per bruciarla sul rogo. Nonostante lo scalpore e le minacce, Giovanna continuerà a combattere. Porterà lo stendardo in battaglia, sorprenderà i nemici, sopporterà la fatica e fagociterà tutto ciò che era necessario imparare.

Ma le vittorie di Giovanna non basteranno a salvarla. Per i dotti e i teologi del tempo, era necessario provare quanto la voce che aveva sentito Giovanna d’Arco appartenesse a Dio. Durante il processo – durato ben cinque mesi, dal gennaio al maggio del 1431 – tutto quello che Giovanna d’Arco aveva fatto e dichiarato verrà usato contro di lei. Sarà la Chiesa a processarla, per stregoneria ed eresia.

Il processo fu affidato al vescovo di Beauvais, Pierre Cauchon, poiché Giovanna era stata catturata nella diocesi di Beuvais. Tuttavia, Pierre Cauchon era anche un uomo politico, vicino al partito inglese, intenzionato a cucire addosso alla Pulzella d’Orléans l’immagine della strega cattiva.

Tra i principali capi d’accusa, ci sarà quello di aver indossato abiti maschili: nella Bibbia, all’interno dell’Antico Testamento, viene proibito alle donne vestirsi come gli uomini.

Le visioni angeliche di Giovanna, si trasformarono in visioni diaboliche; le vittorie che aveva riportato sul campo di battaglia, si trasformarono nel risultato di patti stretti col diavolo, con spiriti maligni pronti a servirla. Giovanna d’Arco era colpevole del peccato d’orgoglio, poiché non modesta com’era dovere di una donna: venerata come una santa, aveva accettato baci sulle mani da parte del popolo. Giovanna d’Arco era colpevole di aver vissuto con uomini d’arme, di aver addirittura provocato la guerra, di aver disubbidito a suo padre, scappando dalla propria casa.

Durante il processo, Giovanna continuerà a sostenere di aver adempito a una missione, sentendosi adatta, comoda all’interno di quei panni maschili, in quei mestieri da uomo. Era stata circondata da uomini, dai suoi soldati, con cui si era scambiata pacche sulle spalle e condivise battaglie. Ma Giovanna era stata circondata anche da altrettante donne. Gruppi di donne di dirigevano da lei, nel suo accampamento, con il solo scopo di vedere “la meraviglia del nostro sesso”. Perché Giovanna si vestiva da uomo, ma non aveva mai rinnegato la propria femminilità.

Come dirà lo storico Alessandro Barbero:

“Lo scopo di un processo per eresia non è di condannare al rogo l’imputato. È di costringerlo ad ammettere l’errore. Lo scopo è di costringere chiunque abbia sostenuto cose difformi dall’insegnamento della Chiesa, che si è sbagliato. E che si pente. E che chiede scusa. E a quel punto non sarà mandato al rogo, è vietato, è impossibile. Sarà punito in tanti modi, col carcere se necessario, ma non può essere mandato al rogo, ma la Chiesa ha trionfato. Questo è lo scopo. E perciò, dopo aver formulato l’atto d’accusa, in cui non si arriva a dire “abbiamo dimostrato che Giovanna è eretica”, ma soltanto che è “fortemente sospetta di eresia”, si conclude dicendole che a quel punto era lei che doveva sottomettersi alla Chiesa. Ammettere di aver avuto torto. Ammettere che vestendosi da uomo, disprezzava l’insegnamento della Chiesa. Ammettere che le profezie erano false. E che aveva sbagliato a fare tutto ciò che aveva fatto, senza chiedere il consiglio della Chiesa”.

Durante il processo, col fine di piegarla, a Giovanna d’Arco verrà mostrato il rogo. Sarà la possibilità di salvarsi la vita a portarla a firmare un foglio su cui era stata scritta una formula con cui abiurava i suoi errori e rinunciava per sempre a vestirsi da uomo. Verrà condannata al carcere a vita, rindosserà abiti femminili, ma due giorni dopo la troveranno nuovamente vestita da uomo.

Il filo rosso della violenza è presente durante il processo, così come lo sarà nella cella in cui verrà rinchiusa al suo termine. Probabilmente, sarà la minaccia di possibili violenze a spingere Giovanna a rindossare abiti maschili. Lasciati gli abiti femminili e rindossati i calzoni, Giovanna si sentiva più al sicuro.

Già al termine del processo, uno dei soldati che l’aveva scortata in cella, le aveva detto di volerla violentare; il comandante era stato costretto a licenziare due guardie e ad avvertire le altre di prestare più attenzione. Secondo un testimone, ascoltato nel processo avvenuto vent’anni dopo, Giovanna avrebbe dichiarato che si era rivestita da uomo perché le guardie erano uomini; se non si fosse trovata in una prigione inglese, ma in una prigione della chiesa, sarebbe stata controllata da donne, in quanto detenuta donna, e non controllata a vista da uomini.

Una volta ritrovata in abiti maschili, il vescovo Pierre Cauchon convocherà ben quarantadue giudici a cui sottoporre nuovamente la questione. Quando un eretico – com’era stata giudicata Giovanna d’Arco al termine del processo – veniva perdonato e aveva giurato di obbedire alla volontà della Chiesa, non esisteva nulla di più sbagliato che ricadere nei medesimi errori. A quel punto la condanna al rogo non era solo considerata la punizione esemplare, ma l’unica possibile.

Il giorno dopo, Giovanna d’Arco morirà tra le fiamme del rogo. Il suo destino sarà comune a quello di molte altre donne, alcune meno note della Punzella d’Orléans, altre completamente sconosciute, morte sul rogo perché dichiarate streghe.

La prima strega bruciata sul rogo a Kilkenny, in Irlanda, morirà nel 1324. Un secolo prima dell’inizio sistematico della cosiddetta “caccia alle streghe”. Si chiamava Petronilla, di lei non si conosce neanche il cognome. Aveva ventiquattro anni, lavorava come serva di una donna ricca, Alice Kyteler. Fu condannata al rogo al posto della sua padrona, perché il bisogno di un colpevole, insieme alle torture subite, l’avevano trasformata – per la fortuna di diocesi, vescovi e privilegiati – nella malevola figura di una strega.

Eleonora de Fonseca Pimentel: la ribelle impiccata

Il filo rosso della violenza si manifesta anche nella memoria. Dimenticare è una subdola forma di violenza, spesso involontaria. Da molti Eleonora de Fonseca Pimentel è stata dimenticata, eppure il suo nome è parte integrante della breve vita della Repubblica Napoletana nel 1799. Ma non solo. La storia di Eleonora de Fonseca Pimentel è costellata di sofferenze, ma anche di rivincite. Fu vittima, ma anche ribelle. Durante la sua vita, Eleonora mostrò sfacciatamente quanto una singola persona, una singola donna, potesse racchiudere in sé un agglomerato di colori e sfumature. Osservare la vita di Eleonora è come osservare il mondo con un caleidoscopio, con ombre e luci pronte a mescolarsi.

Eleonora nacque a Roma, in via di Ripetta 22, il 13 gennaio 1752. I suoi genitori provenivano dalla nobiltà portoghese, lei stessa era una marchesa. Un titolo da cui si libererà, combattendo per l’affermazione della Democrazia a Napoli, la sua città. Difatti, la sua famiglia trasferitasi inizialmente a Roma, poco dopo – nel 1756 – si stabilirà definitivamente a Napoli, quando Eleonora aveva appena quattro anni.

Sin da subito, Eleonora mostrò una grande vivacità intellettuale. Studierà greco, latino, astronomia, matematica, mostrando una predilezione soprattutto verso le lettere. Frequenterà i salotti delle classi elevate, dove incontrerà molti intellettuali, come il giurista Gaetano Filangieri, Ferdinando Galiani, Domenico Cirillo, Antonio Jerocades, ma ebbe rapporti epistolari anche con Pietro Metastasio e Voltaire, che l’ammirerà molto a sua volta. Non a caso, verrà ammessa all’Accademia dei Filateti e all’Accademia dell’Arcadia, componendo sonetti in occasione di eventi di prestigio, comprese le nozze tra il Re Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d’Austria. Paradossalmente, gli stessi regnanti che tempo dopo combatterà e che la condanneranno al patibolo.

Nel 1778, all’età di venticinque anni, Eleonora de Fonseca Pimentel si sposa. Il matrimonio, accettato per non deludere il padre, la legherà al tenente Pasquale Tria de Solis, di quasi vent’anni più vecchio. Insieme, vissero nella zona della Pignasecca di Napoli in cui restarono per sette anni.

Il matrimonio con Pasquale Tria de Solis sarà per Eleonora fonte di violenze atroci, tali da provocarle l’interruzione di ben due gravidanze. Violenze che, a un certo punto, non verranno più tollerate. Nel 1784, attraverso l’intervento del padre della stessa Pimentel, si darà inizio a una causa di separazione.

Durante il processo, il marito cercherà di screditarla utilizzando ogni mezzo a sua disposizione. Alla giuria presenterà la corrispondenza tra sua moglie e il geologo veneziano Alberto Fortis, per incolparla di una presunta infedeltà. In realtà, fu lui a tradirla, anche durante momenti di grande sofferenza, compresi lutti. La corrispondenza fra la Pimentel e Fortis, invece, era perlopiù di natura intellettuale, sebbene Fortis le manifestasse grande vicinanza e tenerezza, soprattutto per il dolore che sapeva esserle recato dal marito. La vicenda giudiziaria, però, permette anche di ascoltare la voce di Eleonora durante il processo; nella sua deposizione dichiarerà:

“A tal segno giunse mio marito la sorditezza e la ferocia, che essendo io gravida già da cinque mesi compiuti, non ritrovando una sera un tomo della traduzione della Storia universale inglese, statomi prestato, mi rivolsi a lui dicendogli che se il libro non si trovava, bisognava che egli lo ricercasse in qualche bancherozza. A queste mie parole, egli alzandosi da sopra il letto dov’era e presami all’improvviso per vita, minacciò di gettarmi da un balcone vicino. Il quale inaspettato eccesso, produsse in me tanta sorpresa e indignazione, spavento, che io ne ebbi a svenire. Non volendo produrre rumori in quell’ora, trascurai di chiamare professore alcuno. Onde ne venne poi, che io ne sconciassi d’istinto il feto e ne fossi in estremo pericolo della vita, quasi miracolosamente salvata dall’intervento del medico. Ma il doloroso accidente non gli fece cambiar costume, né maniera, al mio consorte. Arrivò, anzi, a pretendere di togliermi l’unico ed onesto intrattenimento di qualche libro; e ciò con tanta indecenza di maniere che, una sera, nel rientrare in camera, ritrovai i pochi libri che vi erano tutti sparsi per terra. E il giorno seguente giunse a pazzo furore di voler bruciare due libretti di epistole inglesi ed altri di belle lettere francesi, stampati in Olanda. Lingue ambedue a lui ignote, traendo argomento dalla lingua e dal luogo che dovessero essere ereticali ed affermando che egli, in quanto marito, poteva e voleva comandare le azioni e la mia coscienza. Né tali stranezze venivano da lui esercitate senza ricorrere alla violenza delle mani, dalle quali non potei io schermirmi che a forza di fermezza di spirito. Ben presto, dopo circa quattro anni di matrimonio, andarono ad aggiungersi a tali brutalità di modi gli addebiti di pazze e indecenti gelosie, accusando qualunque persona io avessi conosciuta o potessi conoscere, qualunque ne fosse l’onestà e grado, o di essere mio amante o mio mezzano. Includendo amici, parenti e gli stessi mio padre e mio fratello. Per la qual cosa, ogni mio passo e ogni mio detto veniva spiato e qualunque mio scritto intercettato. Nessuno poteva essere più ricevuto in casa e io stessa uscire. Rimasi così, quasi abbandonata”.

All’interno della deposizione, esistono elementi fin troppo comuni. Atteggiamenti ancora tristemente diffusi. Eleonora parla dal Settecento a donne che vengono picchiate dai propri compagni. Eleonora parla dal Settecento a donne che, ancora oggi, vengono private della libertà: di conoscenza, di movimento, di distrazione. Atteggiamenti schermati da gelosie ingiustificabili.

Tra i momenti più dolorosi che costellano la vita di Eleonora de Fonseca Pimentel, c’è quello di madre. Giovanissima, perderà il suo unico figlio, Francesco, di soli otto mesi. La morte del figlioletto, causata dal vaiolo, porterà Eleonora a dare voce al suo dolore attraverso la poesia, con i Sonetti di Altidora Esperetusa in morte del suo unico figlio.

Tra i momenti di rivincita, nel 1975, l’ottenimento del divorzio. Con il divorzio, Eleonora spazzerà via alcuni ostacoli degli insormontabili per le donne dell’epoca. Ostacoli legati anche ad apparenze di rispettabilità: la presenza di un marito, la costruzione di una famiglia e l’ubbidienza ai precetti della chiesa. Quegli stessi anni, per la futura rivoluzionaria partenopea, segneranno l’inizio di una crescente sfiducia nei confronti dell’operato della Corona.

La Pimental inizierà a rivolgere le sue attenzioni soprattutto nei confronti del popolo oppresso, privato anche dell’istruzione primaria. Fu questo uno dei cardini su cui basò le proprie azioni, che la spinsero ad agire verso la rivoluzione, verso il cambiamento, abbracciando idee repubblicane e giacobine. Valori che non rinnegherà mai.

Eleonora de Fonseca Pimentel utilizzò ogni suo mezzo, compreso Il Monitore Napoletano. Difatti fu una poetessa, ma anche una giornalista. Con occhi attenti, osservava ogni sfumatura della sua città. Con una scrittura evocativa e sferzante, non si limitava a descrivere eventi ed idee; piuttosto, dava voce a una Napoli che oggi la riconosce come sua eroina. S’informò e fagocitò notizie politiche, idee, piani d’azione, entrando a far parte del Comitato dei patrioti, propulsori dell’instaurazione di una repubblica democratica. Utilizzò la sua casa come centro propulsore di discussioni, in cui si riunivano intellettuali ribelli. La Rivoluzione francese e la conseguente sconfitta della monarchia furono fulcro di speranza e ispirazione. Non a caso, nel 1798 Eleonora fu arrestata e incarcerata a Vicaria, con l’accusa di voler sovvertire la Corona. Tuttavia, nel gennaio del 1799 venne liberata, insieme ad altri prigionieri politici e delinquenti comuni, dai cosiddetti lazzari. Poco dopo, il 23 gennaio 1799 – con l’approvazione e l’appoggio del comandante dell’esercito francese – verrà proclamata la Repubblica Napoletana.

Napoli, alla fine del Settecento, era la città più popolosa dell’intera penisola. Secondo il censimento del 1742 si contavano più di trecentomila abitanti. Il 10% dei locali era costituito, appunto, dai lazzaroni.

La parola “lazzaro” entra a far parte del vocabolario napoletano a partire dalla rivolta di Masaniello del 1647. La sua origine, secondo Benedetto Croce, si rifà a un termine spagnolo: laceria. Una parola dispregiativa, utilizzata dagli spagnoli per denigrare i popolani in rivolta. Il termine indicava i lebbrosi e i poveri. Al tempo, però, i ribelli – non conoscendone il significato – si facevano vanto di quell’etichetta, così come si fecero vanto delle proprie azioni.

A fine Settecento il termine lazzaro ritornò con forza, nelle voci e nei testi, in riferimento a chi era meno abbiente e affollava le strade e vicoli della città. Gli stessi che Eleonora difenderà e gli stessi che, durante il patibolo, sghignazzeranno della sua morte.

A seguito della nascita della Repubblica Napoletana, un governo che sarebbe finito di lì a pochi mesi, Eleonora fondò un giornale, Il Monitore Napoletano. Per Eleonora il suo giornale era uno strumento di lotta, educazione e denuncia. Scrisse la maggior parte degli articoli, raccogliendo in prima persona notizie, prove e umori. Per lei, il giornale doveva diffondersi all’interno della comunità, educando il popolo all’ascolto e alla comprensione di tutto ciò che accadeva. Per la Pimentel, centrale era l’utilizzo del dialetto. Per coinvolgere e avvicinare concretamente tutti gli strati sociali agli ideali repubblicani, propose la realizzazione di una propaganda in dialetto e la diffusione di una gazzetta in vernacolo che riportasse i provvedimenti presi dalla Repubblica. Sul suo Giornale, Eleonora scriverà:

“Un popolo non si difende mai bene da sé stesso, perché la libertà non può amarsi a metà, e non produce i suoi miracoli che presso popoli che tutti affatto liberi”.

L’ultimo numero de Il Monitore Napoletano, il numero 35, fu pubblicato l’8 giugno 1799. Poco dopo, le bande del cardinale Fabrizio Ruffo – braccio destro del Re Ferdinando – rientrarono a Napoli, seguiti poco dopo dai sovrani Borbone, fuggiti a Palermo. Ristabilitasi a Napoli, la monarchia darà inizia a una carneficina ufficializzata. Molte delle menti più brillanti del tempo, compresa Eleonora, mostreranno con la loro impiccagione la fine della Repubblica.

Il filo rosso della violenza ritorna, ma non nell’impiccagione di Eleonora de Fonseca Pimentel, piuttosto nella sua modalità. Eleonora, che durante la ribellione aveva vestito anche in abiti maschili, alla sua morte indossava abiti femminili. Il suo ultimo giorno, al mattino, bevve il suo ultimo caffè e si diresse al patibolo con altri otto patrioti. Tutti volti noti della nobiltà e della borghesia napoletana. Aveva chiesto di essere decapitata. Non verrà accontentata. Il suo destino fu il cappio: l’unica donna e l’ultima a essere impiccata. Era vestita di bruno, aveva la gonna stretta fra le gambe. Non le venne concesso neanche un laccetto per chiudere la gonna e il motivo fu chiaro. L’obiettivo non era solo quello di togliere la vita a Eleonora: le si voleva togliere la dignità, sfruttando lo sfoggio della sua intimità, ridicolizzando il suo sesso. Ma Eleonora de Fonseca Pimentel neanche sul patibolo rinunciò alla sua voce, alle parole, al mezzo con cui aveva combattuto fino a quel momento. Pronunciò delle parole, le stesse che Virgilio fece pronunciare, nella grande impresa dell’Eneide, all’eroe Enea.

“Forsan haec olim meminisse iuvabit”, “Forse un giorno ci farà piacere ricordare anche queste cose”. Enea le pronunciò davanti ai suoi compagni, col fine di incoraggiarli dinnanzi ai pericoli e alle avversità della sorte. Eleonora le pronunciò su di un patibolo, davanti al suo cappio, dinnanzi a una folla sghignazzante, che per ignoranza festeggiava la sua morte.

Spezzare il filo

È difficile provare piacere ricordando l’enorme violenza presente in tante storie femminili. Non se ne percepisce la lontananza, non quanto ci si aspetterebbe da secoli passati, da quel progresso di cui tanto si fa sfoggio.

È impossibile eliminare la violenza. È parte dell’animo umano, insita nelle mani e nelle azioni di chi ci circonda, di estranei e conoscenti. Ma spezzare il filo della violenza di genere è possibile.

L’educazione è uno strumento importante, soprattutto se accompagnato da un sistema legislativo funzionante. Molta della violenza di genere viene perpetuata da giovanissimi, cresciuti con un’idea di donna deviata, radicata nel territorio e perpetuata all’interno di famiglie comuni.

Altrettanto importante è la sicurezza. Molte donne denunciano, altrettante tacciono. Denunciare, però, al contrario di quello che si potrebbe pensare, non pone soluzioni definitive. Tante delle vittime di femminicidio, prima di essere ammazzate, avevano denunciato i propri aguzzini. Sul territorio, oltre al numero nazionale antiviolenza e antistalking 1522, esistono anche alcuni presìdi gestiti da personale qualificato. Tuttavia, il divario tra Nord e Sud continua a essere presente nella distribuzione di queste preziose organizzazioni. I Centri antiviolenza sono i luoghi in cui le donne possono trovare informazioni, accoglienza e percorsi utili per uscire da vite violente. Le Case Rifugio, invece, sono vere e proprie strutture, in grado di ospitare e mettere in sicurezza donne che si trovano in grave pericolo, anche con i loro figli. Nell’emergenza corrente, c’è bisogno di un maggior numero di posti nelle Case Rifugio per salvare vite. Ad esempio, l’associazione Differenza Donna, non riesce a contenere il 10% dei posti che dovrebbe avere per garantire lo standard europeo: un posto ogni quindicimila abitanti. Allo stesso modo, l’associazione D.i.re – donne in rete contro la violenza – ha rivelato quanto i fondi siano insufficienti per far fronte, in maniera efficace, alla violenza di genere in Italia.

Ogni tre giorni, una donna viene uccisa. Ogni sera, più di una donna, ha paura a tornare a casa da sola.

Quante ancora dovranno morire, quante ancora dovranno provare paura nel vivere, prima che si avviino cambiamenti risolutivi?

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