Un accostamento di parole che veste gli abiti di un ossimoro: giovani e suicidio. Giovani suicidi. La giovinezza, nell’immaginario, è alimentata dalla vita: si spalancano le esperienze. Tutto è sperimentazione, tutto è voracità di conquista, inizi e successi. I fallimenti vengono nascosti, aggirati, chiamati con un altro nome. La giovinezza non fornisce preparazioni alle sue molteplicità. Tutto ha l’apparenza d’essere netto, tagliente, spigoloso: si parla di successi o fallimenti, vittorie o sconfitte. Le sfumature vengono escluse e la complessità è assottigliata a favore di una falsa semplicità. Quando però la bugia viene scoperta, quando a quella semplicità di azioni si sostituisce la complicazione degli imprevisti, degli errori, dei tempi e delle diversità di ognuno, tutto rischia di sgretolarsi sotto un peso imprevisto.

È in questo tranello che si presenta il suicidio.

Negli ultimi anni si è assistito a un aumento preoccupante del numero dei suicidi. Tra questi, moltissimi sono i giovani. Spesso, giovani studenti. Talvolta, giovani lavoratori. Tutti in equilibrio su modelli performanti e lavori di asfissiante precarietà. Non è un caso: la società di oggi somiglia sempre più a una società d’apparenza, in cui facciate di benessere – economico e mentale – sono prerogative inderogabili. Il successo è la chiave, in ogni ambito: lavorativo, universitario e relazionale. E se non arriva, se il sogno inseguito si rivela irrealizzabile, è solo colpa di una mancata volontà. Non c’è una via di fuga: è diventato ripetitivo, quasi meccanico, ripetere il mantra “se vuoi, puoi”. Tutto dipende, solo ed esclusivamente, dalla volontà individuale. Il resto ne viene escluso, non si parla di possibilità, né di opportunità. Si escludono ancora una volta le sfumature: la società non accetta la complessità umana. Pezzo dopo pezzo, si è costruita una società sorda a problemi scomodi, a fenomeni che stridono con l’immagine di successi facili, alla portata di chiunque. Le eccezioni diventano regole, ma le stonature iniziano a fare rumore.

Storie stonate: quando fallire equivale a morire

Forse è questo che si ripetevano Diana, Riccardo, Antonio e Norman: fallire equivale a morire.

Le loro sono solo alcune delle storie che hanno come protagonisti giovani studenti. Giovani studenti suicidi. Purtroppo, Diana, Riccardo, Antonio e Norman non ci sono più e non si può parlare direttamente con loro, ascoltare le loro voci. Ma rimane quantomeno la possibilità di ricostruire parte delle loro storie, cercando di portare alla luce quel dolore sotterraneo, vischioso, che li ha trascinati giù con sé. Mostrare quel disagio grigio, ingiusto, che li ha fatti sentire fuori posto, inadatti, fallimentari come giocattoli rotti.

Le loro sono storie stonate, distanti da quel modello di perfezione intonso, irraggiungibile, eppure presentato come normalità.

In molte occasioni e su molteplici fronti si rischia di scontrarsi brutalmente con ciò che viene definito normale e anormale. Ambiti relazionali, caratteriali, che hanno toccato da vicino molte vite.

È anormale essere fuoricorso? Sbagliare scelta? Ricominciare a studiare a trent’anni? Cosa qualifica un fallimento?

La cristallizzazione del fallimento, per i protagonisti di queste storie, aveva una forma e un’assenza. Aveva la forma di un preciso ambiente, fatto di regole e scadenze con cui erano entrati in contatto diretto. Aule universitarie di cui avevano respirato gli odori, scadenze di cui avevano calcolato i tempi e le conseguenze. E poi l’assenza. L’assenza di un titolo non acquisito, l’assenza di una laurea combattuta e all’apparenza inarrivabile. Esami ripetuti, bocciature inaspettate, valutazioni sopravvalutate. Iniziano così i calcoli furiosi, l’intenzione di incastrare esami in sessioni troppo brevi, i tentativi di rimanere ancora in corso, di scrollarsi di dosso quell’etichetta, la vergogna che comporta il fuori corso per i titoli di giornale, per le statistiche, per le aziende, il futuro e i genitori. Gli stessi genitori che domandano, pagano tasse, su cui si annida un senso di colpa strisciante, silente e morboso.

Eppure, bisogna ricordarsi che un tempo quegli stessi protagonisti, oggi scomparsi, sognavano gli ambienti in cui sono periti. Ricamavano su quelle future fatiche storie e progetti. Coltivavano sogni d’indipendenza, di autonomia, di possibilità di borse di studio, di occasioni e riconoscimenti, viaggi ed empatia. Chissà quanti medici hanno rinunciato alla loro vocazione, quanti infermieri non lo saranno mai, quanti insegnanti si sono sentiti inutili, quanti cronisti schiacciati e muti.

L’insegnante e l’infermiere

Diana Biondi aveva lunghi capelli castani e occhi chiari, sfumati di verde. Nelle sue foto appare sorridente, è una di quelle persone che sorride soprattutto con gli occhi, stringendoli così tanto da farli quasi scomparire.

Studia lettere moderne alla Federico II di Napoli ed è napoletana, vive a Somma Vesuviana, nel cuore del Parco Nazionale del Vesuvio, un comune dalle origini antichissime. Non sappiamo cosa volesse fare Diana, se fin da bambina sognasse di fare l’insegnante o la giornalista. Se quella laurea fosse parte di un progetto o di un’ambizione. Quel che sappiamo è che Diana ha ventisette anni quando sceglie di scomparire. Dapprima, diventa un fantasma: non torna a casa, il suo telefono risulta irraggiungibile, nessuno l’ha vista. Partono le ricerche, gli appelli, le notizie si susseguono, le informazioni vengono raccolte e le bugie iniziano a incrinare una realtà di facciata.

Diana aveva raccontato ai suoi genitori delle bugie. Aveva loro riferito della sua sessione di laurea, fissata per un martedì, ma non era vero. Non c’era alcuna sessione: le mancava ancora un esame. Un solo esame, quello di latino. Eppure, quel singolo esame pesava tonnellate.

Diana era fuoricorso. Forse, quel ritardo, sommato all’idea di un esame ancora insuperato, la faceva sentire indietro, meno adatta alla competizione, inadatta al titolo. Forse credeva non le spettasse, forse non si sentiva in grado di superare ciò che le si prospettava davanti.

Quanta pressione può reggere una persona, prima di cedere?

Secondo i dati Istat, tra gli studenti universitari il 33% soffre di ansia e il 27% di depressione. Ad accompagnare tutto questo ci sono le bugie, più comuni di quanto si possa credere.

Secondo un sondaggio di Skuola.net, circa uno studente universitario su tre ammette di aver mentito alla famiglia sulla propria carriera studentesca. In circa la metà di questi casi – il 16% del totale – la bugia è sistematica.

Oggi, tra chi continua a tenere nascosta la realtà dei fatti, solo uno su tre afferma di essere nel pieno controllo della situazione. Il 32% vorrebbe dire la verità, ma non riesce a trovare il coraggio, mentre il 35% è convinto che non sia più possibile tornare indietro. Una piccola bugia, ne richiede sempre un’altra. Le bugie bianche si trasformano in veri e propri scenari, recite di cui si è i protagonisti. Se quel mondo di bugie, un mondo parallelo e separato, venisse scoperto dalla famiglia, il 25% degli studenti è convinto che lo stato d’animo in cui cadrebbe sarebbe la disperazione. La stessa percentuale ipotizza un gesto estremo.

A volte la pressione non dipende direttamente dalla famiglia, ma dal carico di aspettative imposto agli studenti dalle stesse istituzioni, che li priva di ogni differenza. Nutriti a forza dall’idea della colpa, da una presunta volontà lacunosa, ciò che viene percepito come fallimento risulta più difficile da sopportare della morte.

I confronti e la competizione, spesso, incrementano un malessere che viene amplificato da chi, poi, piange i suicidi. Come spiega anche Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro di Milano:

“I modelli di identificazione, in questa società individualista e che non tollera le delusioni, non dipendono solo dalla famiglia, ma anche dal contesto sociale in cui vivono i ragazzi, dalla scuola, alle relazioni con i coetanei. I nostri figli stanno crescendo immersi in un modello che alimenta la competizione. L’ambizione personale è sana, ma va collocata in un contesto in cui la possibilità di fallire sia tollerabile. Tocca a tutti noi costruire una società di questo tipo. (…) Si cresce in una dimensione in cui l’idea di fallire non è accettata, e questo fa sì che parlare dei propri insuccessi sia sempre più difficile”.

Forse Diana aveva bisogno di rallentare, di respirare, di non pensarci più. Forse, assurdamente, ha visto quel vuoto come l’unica uscita che le era rimasta.

Diana aveva ventisette anni quando ha deciso di lasciarsi cadere nel vuoto di un dirupo, il giorno del suo compleanno, il 27 febbraio. Aveva ventisette anni quando ha creduto di non avere più nessun’altra strada, di non avere più futuro. Avrà ventisette anni per sempre.

Ai suoi genitori aveva detto di dover andare in università, per la tesi. In realtà, Diana rimarrà a Somma Vesuviana e verrà ritrovata con gli stessi abiti con cui era uscita per l’ultima volta. Uscirà di casa, chiudendosi la porta, lasciandosi alle spalle la vita e i suoi genitori, a cui aveva detto “ci vediamo più tardi”.

Probabilmente anche Riccardo Faggin si sentiva incastrato in un pantano da cui non gli sembrava più possibile uscire.

La sua vita e la vita di Diana si somigliano per quelle stesse meticolose bugie. Bugie imbellettate per chi le ascoltava e diabolicamente fatali per chi le costruiva.

In apparenza, la morte di Riccardo sembra un incidente. Una morte inaspettata, dolorosa, ma comunemente accidentale. Un’apparenza che non si limita a ingannare. In questo caso, l’apparenza di una laurea vicina, con una festa organizzata, lascia uno spazio incolmabile, muto, in cui le risposte non si tramutano in consolazione, ma in rabbia.

Riccardo, capelli neri e sorriso timido, voleva diventare un infermiere. Aveva ventisei anni e studiava a Padova. D’estate lavorava come animatore nei centri estivi, come se alleggerire e aiutare le persone fosse un istinto per lui inarrestabile. Non a caso, i pazienti sarebbero stati al centro della sua tesi di laurea: voleva fornire un’analisi sulla percezione che avevano del servizio sanitario, prima e dopo la pandemia Covid-19.

Al centro dell’attenzione, gli altri. Il desiderio di renderli felici, orgogliosi di lui. Non sapremo mai se le prime bugie siano state raccontate per questo.

Sarà proprio attorno a una grande bugia che verrà organizzata una festa di laurea, quella di Riccardo. All’esterno della sua casa, erano stati già affissi dei fiocchi rossi. Tuttavia, la verità era che a Riccardo mancavano ancora degli esami. Quella discussione sulla tesi di laurea, rivelerà l’Università di Padova, non era prevista: non c’era alcuna sessione fissata per quel giorno. Tutto questo, però, verrà scoperto solo dopo. Solo dopo la morte di Riccardo.

Poco dopo la mezzanotte del 29 novembre 2022, l’auto su cui viaggiava Riccardo si andrà a schiantare poco lontano da casa, su una strada che conosceva bene.

Riccardo morirà sul colpo, esattamente il giorno prima di quella discussione fantasma. La tesi del suicidio sarà quella accreditata, ma lascia riflettere la modalità scelta. Quasi come se Riccardo volesse mascherare quel suicidio, quel dolore, con una dinamica più accettabile, un incidente, preoccupandosi ancora un’ultima volta.

Battaglie da combattere: caroaffitti, borse di studio e sfruttamento

Molti sono i fattori che contribuiscono a incrementare i disagi e le problematiche della vita studentesca, minando la possibilità allo studio e sentenziando sulle condizioni in cui avverrà. Tra questi, ha fatto scalpore il caroaffitti. Una problematica andata avanti per anni.

L’occhio di bue sul caroaffitti è stato puntato a forza solo di recente, grazie alle proteste messe in atto dagli stessi studenti. Una battaglia iniziata da Ilaria Lamera, studentessa di ingegneria ambientale, che il 2 maggio 2023 si è accampata davanti al Politecnico di Milano. La sua protesta – caratterizzata da una modalità bizzarra e, forse, proprio per questo estremamente efficace – è diventata la protesta di tutti.

Diffusesi a macchia d’olio per tutta la Penisola, tende di ogni colore hanno iniziato a riempire i cortili degli atenei. Accampati di giorno e di notte, gli studenti – molti dei quali fuorisede – hanno urlato le proprie ragioni: chi costretto a rinunciare alle lezioni, chi schiacciato dal peso del sacrificio richiesto ai propri genitori.

La raccolta dei dati sugli affitti degli immobili ha restituito un quadro che si arena sui privilegi. A Milano, l’affitto di una camera singola si aggira intorno ai 628 euro al mese, seguita dalle città di Bologna e Roma, rispettivamente tra i 467 e i 452 euro. Firenze, Venezia, Modena e Verona, sempre per una stanza singola, si attestano oltre i 400 euro, mentre Padova, Brescia e Napoli tra i 380 e i 390 euro.

Secondo Carlo Giordano di Immobiliare.it, tra i fattori che hanno portato all’aumento dei prezzi, c’è stata la crescita del numero di studenti fuori sede e dei giovani lavoratori. Non riuscendo a sostenere da soli i costi, tanti hanno deciso di tornare a cercare appartamenti condivisi. Una situazione vissuta anche da Giacomo Sartori, la cui vicenda viene ben raccontata in un recente podcast intitolato “A domani – la scomparsa di Giacomo”. Una storia amara, che pure ha molto da insegnare sulla situazione vissuta dai giovani d’oggi in Italia: incastrati in un futuro che non sembra essere all’altezza dei sogni del passato.

La protesta degli studenti non si è fermata alle porte degli atenei. Quelle stesse tende sono stata piantate davanti a Montecitorio. Difatti, nonostante le promesse fatte, la situazione non è rimasta invariata, ma ha subito un ulteriore battuta d’arresto: i 960 milioni di euro che avrebbero dovuto permettere di arrivare a 105 mila posti letto entro il 2026, per la maggior parte, sono finiti nelle mani dei privati.

Ad aggiungersi al caroaffitti c’è ciò che ha permesso a molti studenti il proprio presente: le borse di studio. Tuttavia, migliaia di studenti universitari ne sono rimasti privati, pur avendone pieno diritto. Quasi duemila studenti a Padova, persino di più a Trento e in Abruzzo sono risultati idonei, ma non beneficiari: pur rispettando tutti i requisiti necessari, non beneficeranno della borsa di studio per cui hanno fatto domanda. Per migliaia di persone il diritto all’istruzione non si dimostra essere una garanzia.

Anche i beneficiari non sono esenti da preoccupazioni. In genere, le erogazioni delle borse di studio sono soggette a non pochi ritardi. Molti studenti, vivendo al di fuori dalla propria città natale, lontani da genitori e stabilità, si ritrovano a fare i conti con la sola promessa di garanzia: i soldi arriveranno, ma non si sa bene quando. Tutti elementi che contribuiscono a creare condizioni di vita instabili, sebbene negli ultimi tempi i giovanissimi abbiano iniziato a optare per cambiamenti radicali, portandosi dietro scie di giudizi contrastanti e generazionali.

Molti sono i giovani che hanno iniziato a disertare un fenomeno che ha un solo vero nome, sfruttamento, a lungo chiamato col suo nomignolo di pratica ed esperienza. Uno sfruttamento che ha alimentato il lavoro in nero, gli anni persi, i contributi mancati. Uno sfruttamento che ha come figlie la disoccupazione, la depressione e l’insoddisfazione.

Si tratta di una mentalità radicata, trasmessa come un detto popolare, figlia dei nostri nonni e dei nostri stessi genitori. Lo sfruttamento, in genere, parla un linguaggio chiaro, brutalmente semplice: il merito non dev’essere riconosciuto. Quel merito va’ dimostrato, preferibilmente in silenzio, senza pretendere, senza lamentarsi e senza apparire ingrati e arroganti. Una mentalità che, piano, i giovani lavoratori, quelli non ancora emigrati altrove, hanno iniziato ferocemente a combattere.

La salute mentale non dev’essere un privilegio

A portare al suicidio sono malesseri non facili da riconoscere. Gesti, parole, discorsi e a volte silenzi. Campanelli d’allarme, ma difficili da interpretare. Talvolta, chi ha pensieri suicidi appare sereno, addirittura allegro: il male che gli si annida dentro è invisibile.

Oggi la salute mentale è ancora privilegio: ai più i costi risultano insostenibili, possibilità esclusiva di chi può permettersi di spendere centinaia di euro al mese. Secondo il tariffario dell’Ordine degli psicologi dell’Emilia-Romagna, per esempio, il costo di una seduta di consulenza e/o sostegno psicologico individuale oscilla tra i 35 e i 115 euro, mentre la psicoterapia individuale varia dai 40 ai 140 euro. Inoltre, il sistema di assistenza psicologica italiano è enormemente sproporzionato tra pubblico e privato.

Sebbene negli anni sia maturata una consapevolezza maggiore sull’importanza della salute mentale, la politica stenta a stare al passo. Si continuano a rinviare misure concrete – e urgenti – finalizzate a rendere accessibili le cure psicologiche. Basti pensare che a beneficiare del Bonus psicologo 2023, sarà una platea ancora più ristretta rispetto a quella dello scorso anno: se nel 2022 su 400 mila richieste l’INPS ha accolto 40 mila domande, quest’anno i voucher potrebbero scendere a ottomila.

Lo stigma che per molto tempo ha marchiato le malattie mentali è intrinsecamente legato al privilegio di classe. La malattia mentale – in molti più contesti di quanto si creda – continua a essere motivo di vergogna, interpretata come il segnale imbarazzante di una debolezza inammissibile.

Per questo, combattere lo stigma è necessario tanto quanto combattere i limiti d’accesso alle cure, affinché si permetta a chiunque, quantomeno, di chiedere aiuto.

La figura dello psicologo, al pari di ogni medico, dovrebbe essere accessibile, garante della salute di tutti i cittadini, coerentemente con quanto garantito dalla stessa Costituzione. Così recita l’articolo 32:

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

È davvero possibile che la salute mentale non rientri in ciò che è ritenuto tale?

Sempre più giovani si accostano al suicidio. Sempre più ragazzi escono a pezzi, perché incastrati nella falsa certezza dell’impossibilità di ritrovare la propria interezza. Sempre più, eppure sempre più soli.

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