“La nostra terra ha come più grande tesoro la nostra gente. Siamo ormai giunti al culmine delle guerre tra gli imperi. Una terra divisa dagli artigli delle montagne dell’Hindu Kush e bruciata dagli ardenti occhi dei deserti del Nord. Pietrisco nero si scontra con picchi ghiacciati. Ci troviamo ad Ariana, terra della nobiltà”.

Questo è solo un piccolo stralcio di “Sotto il burqa” (The Breadwinner) un film d’animazione distribuito in tutto il mondo il 17 novembre 2017, ampiamente premiato, eppure non altrettanto conosciuto. Basato sul romanzo di Deborah Ellis e diretto da da Nora Twomey, racconta di una terra lontana, ricamata di favole e seminata di dissapori: l’Afghanistan.

A vivere in questa terra, antica e contesa, amata e crudele, è una bambina di undici anni, Parvana.

Nata e cresciuta a Kabul, Capitale dell’Afghanistan, Parvana sarà costretta a fingersi un ragazzo pur di sopravvivere e far sopravvivere la propria famiglia. Kabul, infatti, nella vita di Parvana, vive e respira secondo le regole imposte dai Talebani, basate sulla Sharia; e se gli uomini passeggiano liberi per le strade e per le bancarelle del mercato, lavorando, scherzando e socializzando, le donne non possono passeggiare se non accompagnate da almeno un uomo, sia esso marito o fratello. Le donne, sole o accompagnate, non possono contrattare con i commercianti, non devono essere disobbedienti, non devono attirare in nessun modo l’attenzione, sguardi libidinosi e diventare fantasmi, ombre azzurre e silenziose, dritte al fianco di uomini che, spesso, somigliano per età ai propri padri.

Parvana questo lo scoprirà coi propri occhi di bambina, diventando adulta in tempi ristretti. Lo scoprirà affiancata da personaggi diversi, per età e genere. Primo fra tutti, suo padre – il mio baba – come lo chiama Parvana per tutta la durata della pellicola. All’interno del film non ci sono solo uomini negativi, che accettano senza proteste, fuori o dentro l’intimità della propria casa, in un libro o in un’educazione nascosta, l’umiliazione delle violenze verso le donne. Il padre di Parvana è un insegnante, che ha sposato una donna afghana, una donna colta, creativa: una scrittrice. Un padre afghano che incoraggia sua figlia nelle favole, nella fantasia, nei giochi, nella gentilezza. Un uomo che, per tutto questo, viene arrestato e allontanato dalla propria famiglia, una famiglia piena di donne.

La famiglia di Parvana, dopo l’arresto del padre, si compone di tre membri, lei esclusa: suo fratello minore – un bambino di qualche mese – sua sorella maggiore e sua madre. Ma fra loro, c’è anche un’assenza densa, quella di suo fratello maggiore Sulayman, morto da tempo, la cui storia la si scoprirà più avanti, in forma di favola, attraverso i racconti di Parvana. Un destino ingenuo e crudele, quello di Sulayman, comune a molti bambini durante le guerre, quando l’umanità, il più delle volte, ne esce sopraffatta.

La madre e la sorella maggiore di Parvana assomigliano a colonne antiche, immobili, crepate, ma inaspettatamente solide, capaci di reggere cambiamenti inaspettati. Solo con occhiate disattente appaiano sul punto di crollare, ma nella realtà reggono ogni colpo, ogni sferzata di brutalità e se cedono lo fanno per ristabilizzarsi.

Ci sono momenti, durante l’opera, che forse chi proviene dall’altra parte del mondo, con diritti che altri hanno già provveduto a conquistare, farà fatica a guardare. Guardare percosse insensate, divieti insensati, diritti negati. Eppure, sono realtà che continuano a esistere. Chiudere gli occhi non le farà sparire.

Dal 2021 l’Afghanistan è tornato sotto il controllo dei Talebani, che strato dopo strato, pezzo dopo pezzo, ha iniziato a togliere il respiro, la libertà e il diritto di vivere alle donne afghane e a chi resta dalla loro parte.

In “Sotto il burqa” c’è una figura importante in questo senso, una bambina che come Parvana si finge maschio pur di lavorare, raccogliere soldi e fuggire via. Shauzia istruirà Parvana nella sua finzione, nella libertà che si è costruita cambiando nome, mentre Parvana insegnerà a Shauzia le favole, la capacità di ripararsi dietro ai racconti usando l’immaginazione. Shauzia ha un padre violento, padrone, da cui vuole fuggire per arrivare al mare, alla libertà, a immergere i piedi nella sabbia e nell’acqua salata. Vuole realizzare sé stessa, vuole aprire un negozio lontana dalle bombe, dalla polvere e dalle gabbie.

Quante Shauzia, quante Parvana, quante sono le donne oggi invisibili e già dimenticate in Afghanistan?

Cosa sta succedendo in Afghanistan?

Nel maggio del 2021 le truppe statunitensi e la coalizione NATO hanno ordinato la ritirata definitiva delle ultime truppe ancora presenti in Afghanistan, ponendo fine al conflitto iniziato circa vent’anni prima, nel 2001, a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle. Il 15 agosto 2021, i Telebani hanno ripreso il controllo di Kabul.

Il conflitto, iniziato del 2001, aveva tra i suoi obiettivi l’esportazione della democrazia: secondo gli iniziali piani degli USA, il territorio avrebbe dovuto essere gestito autonomamente da quasi trecentomila truppe, addestrate dagli esperti occidentali. Ma dopo vent’anni di conflitto, 35000 morti civili, miliardi di spese totali, l’accordo a Doha il 29 febbraio 2020 in Qatar, porterà al ritiro completo delle truppe statunitensi. La guerra in Afghanistan era diventata impopolare, anche tra l’opinione pubblica statunitense, che ne chiedeva la fine. Nel corso del 2020 le truppe verranno ridotte sino ad arrivare al totale ritiro.

In Afghanistan, con la ripresa del potere da parte dei talebani, le condizioni delle donne sono progressivamente cambiate. I timori della comunità internazionale erano connessi all’applicazione in Afghanistan della Sharia, la legge sacra della religione islamica basata sul Corano. Oltre al Corano, la Sharia si ispira alla Sunnah, ovvero l’insieme degli atti e dei detti di Maometto, classificati nel corso dei secoli, di cui non esistono precetti scritti. Per questo, le regole della Sharia sono il risultato di analisi, ragionamenti, studi e interpretazioni stratificati nel corso dei secoli. Da qui nasce anche il cosiddetto fiqh, la giurisprudenza islamica, che può variare a seconda del territorio che la interpreta.

Dopo la ripresa del potere in Afghanistan, i Talebani hanno sostenuto, almeno inizialmente, una posizione di maggiore “apertura”, ovvero un’applicazione meno rigida dei precetti religiosi all’interno della vita pubblica: tutto sempre “entro i limiti della Sharia”. Tuttavia, a quasi due anni dalla presa di Kabul, si può parlare di violazioni di diritti umani.

Vent’anni prima del ritorno dei Talebani in Afghanistan, le donne avevano ripreso in mano la propria vita, contribuendo in primo piano alla costruzione di una società diversa. Le donne erano parte integrante della società, parte della magistratura, dell’arte, di una presa di posizione netta alla volontà di limare, passo dopo passo, la differenza di genere. Ma con la caduta del governo è stata forte la sensazione, la paura – accompagnata non molto tempo dopo da eventi spaventosi, come l’assassinio, il 15 gennaio 2023, dell’ex parlamentare afgana Mursal Nabizada, uccisa a colpi d’arma da fuoco nella sua casa di Kabul – di un ritorno alla sopraffazione e al silenzio. E così sta accadendo. Un’intera generazione di donne istruite sta già scomparendo; e parte della futura generazione – composta dalle bambine di oggi e dalle donne di domani – è stata tagliata fuori dall’istruzione. Il primo passo necessario verso il silenzio: proibire le istituzioni fondamentali per la costruzione del pensiero.

Alla sottrazione dell’istruzione delle scuole superiori e dell’università, si è aggiunto il divieto di lavorare per il governo e per le organizzazioni non governative. Per le donne, con un salto indietro in vent’anni, è diventato difficile muoversi liberamente fuori casa. Obbligate a coprire i loro volti in pubblico, viene loro negata la possibilità di percorrere distanze significative in assenza del loro mahram, un tutore maschio. Persino la leggerezza si è trasformata in crimine. A essere chiusi sono stati i saloni di bellezza, così come condannata è stata la musica, che contribuirebbe alla corruzione morale. Insieme a essi, sono stati vietati i contraccettivi ed è stato decimato il sistema di protezione e sostegno per coloro che fuggono dalla violenza domestica. Sono state arrestate donne e ragazze per banali infrazioni a norme discriminatorie e sono aumentati i matrimoni infantili, precoci e forzati. Ogni scelta e dimensione, sui propri corpi, sul proprio aspetto, sul proprio futuro è stata soffocata.

L’immagine delle donne, su cartelloni, fotografie e manifesti è stata eliminata. E come in “Sotto il burqa”, delle donne in pubblico, non si vede nulla: non gli occhi, non un pezzo di pelle, non un sorriso, né capelli. All’interno del film, i capelli hanno una loro importanza: vengono tagliati, sciolti, accarezzati e poi nascosti. Sono parte integrante della bellezza femminile, ma soprattutto moto di libertà. E questa libertà, questi capelli lasciati liberi di muoversi in ogni direzione, su ogni argine, che tanto sono stati protagonisti di nuove ribellioni – si pensi alla situazione in Iran, a seguito del massacro di Mahsa Amini – prendono parte alla pellicola e alla vita vera.

Come coi personaggi delle favole raccontate da Parvana, coraggiosi e risoluti, le donne continuano a protestare. Secondo il progetto di mappatura dati Armed Conflict Location & Event Data Project (Acled),  nel 2022 in Afghanistan le manifestazioni sono quasi raddoppiate rispetto al 2021, mentre nei primi sei mesi del 2023 se ne contano oltre sessanta con donne presenti. 

Risposte, soluzioni e conseguenze

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha chiesto ai talebani la revoca immediata delle restrizioni che violano i diritti delle donne e delle ragazze in Afghanistan, adottata a seguito dell’ultima proibizione per queste ultime di lavorare per l’Onu nel Paese. Joyce Bukuru, senior advocate di Amnesty International, ha dichiarato:

La risoluzione del Consiglio di Sicurezza è stata adottata nel mezzo di un incessante attacco ai diritti umani delle donne e delle ragazze in Afghanistan. È imperativo che i talebani si adeguino a questa decisione, annullando immediatamente i divieti e le restrizioni sui diritti delle donne e delle ragazze, compresi i diritti al lavoro e all’istruzione, e scarcerando tutte le persone detenute per aver manifestato proteste o per essersi opposte a quei provvedimenti. (…) Sebbene sia un passo positivo nella giusta direzione, la risoluzione non ha affrontato la necessità che i responsabili della violazione sistematica dei diritti siano chiamati a rispondere del loro operato, né ha indicato i passi concreti che gli stati membri del Consiglio di Sicurezza dovrebbero compiere per sostenere gli sforzi in corso volti a ripristinare i diritti delle donne e delle ragazze in Afghanistan e per attribuire ai talebani la responsabilità delle gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. (…) L’Afghanistan è vincolato dagli obblighi del diritto internazionale sui diritti umani. Tuttavia, ogni tentativo compiuto finora per fermare le violazioni dei diritti umani da parte dei talebani è fallito. La risoluzione deve essere seguita dalla massima pressione a livello internazionale, affinché ai talebani arrivi chiaro il messaggio che i diritti delle donne e delle ragazze non sono negoziabili: sono universali e inalienabili.

Le restrizioni ai diritti delle donne, inoltre, contribuiscono a peggiorare la crisi economica in corso e riducono gli aiuti umanitari. Nonostante alcuni indicatori economici siano lievemente migliorati nel 2022, la crescita rimane al di sotto dei livelli necessari per porre miglioramenti allo stato di povertà in cui vivono molti in Afghanistan. Le decisioni che limitano l’istruzione e il lavoro delle donne minacciano anche una riduzione degli aiuti umanitari, con conseguenze molto gravi per lo stato di salute generale della popolazione.

Il nuovo documento dell’UNDP analizza il potenziale impatto di un ipotetico taglio degli aiuti esteri sull’economia dell’Afghanistan. Se per esempio dovesse verificarsi un taglio del 30% e dunque una riduzione degli aiuti da 3,7 miliardi di dollari a 2,6, l’UNDP prevede che l’Afghanistan scenderebbe direttamente in fondo alla classifica dei paesi più poveri del mondo. Lo studio ha già rilevato che gli afghani impoveriti hanno adottato misure estreme per sopravvivere. Alcuni sono stati costretti a vendere le proprie case, i propri terreni o i beni che generano reddito; altri hanno fatto ricorso alla pratica di vendere i propri familiari, trasformando i bambini in braccianti e le giovani figlie in spose.

Kanni Wignaraja, direttore regionale dell’UNDP per l’Asia e il Pacifico, ha sostenuto come non possa avviarsi una ripresa economica del Paese senza la diretta partecipazione delle donne all’interno della vita pubblica ed economica.

Anche in “Sotto il burqa” è possibile osservare i tratti di una terra fatta di colori caldi, leggende e sabbia. I tratti dei protagonisti, i colori utilizzati, gli ambienti frequentati, riflettono il cuore e le abitudini di luogo abitato da favole e geni, da stelle e deserti, da disuguaglianze e polvere. Luogo di pace precaria e logoranti scontri, di gestualità e fascino, spesso dimenticato nelle sue bellezze e pericolosamente abbandonato nelle sue problematiche. Ma come poter contribuire?

Sostenere le donne afghane, non solo a parole

Sostenere la causa delle donne afghane equivale a sostenere l’Afghanistan.

Tra le fondazioni attive troviamo Pangea presente a Kabul fin dal 2003. I programmi di Pangea, nel corso degli anni, hanno raggiunto e coinvolto più di settemila famiglie e oltre sessantamila bambine e bambini.
Tuttavia, dall’agosto 2021, la situazione in Afghanistan è cambiata, complicandosi. Difatti, il progetto di Pangea provoca non pochi fastidi ai Talebani, a causa del sostegno di posizioni e credenze dissidenti.
Tra i progetti realizzati da Pangea, c’è stata l’apertura di una scuola per bambini e ragazzi sordi a Kabul. A partire dal 2021, non è stato più possibile mantenere le classi miste e alle ragazze di età maggiore ai dodici anni è stato proibito di proseguire gli studi. Per questo, tra gli impegni di Pangea, c’è stato quello di raccogliere strumenti utili a garantire alle ragazze la possibilità di continuare a studiare.

Nell’agosto 2021, la priorità di Pangea è stata quella di mettere in salvo lo staff afghano che negli anni precedenti ha lavorato per aiutare le donne e i loro figli. Donne afghane che per il loro attivismo hanno rischiato violenze, stupri e uccisioni.

All’instabilità politica provocata dal ritorno del regime talebano, si è sommata la siccità che ha colpito l’Afghanistan, riducendo del 40% la produzione agricola, causando il blocco di salari e l’innalzamento dei prezzi dei generi alimentari. Tutto ciò ha provocato una crisi umanitaria senza precedenti. Inoltre, nelle ultime settimane l’Afghanistan è stato teatro di forti terremoti. Le scosse del 7 ottobre hanno raso al suolo interi villaggi a Herat, con uno dei terremoti più distruttivi della storia del Paese. Più del 90% delle persone morte erano donne e bambini.

In “Sotto il burqa” non troviamo gli eventi del 2021, né i terremoti delle ultime settimane che hanno contribuito a incrementare enormemente macerie e orfani. Come se alle tragedie seguissero altre tragedie. Come se le brutture fossero dotate di calamite per altre calamità. Eppure, l’Afghanistan disegnato e trasportato all’interno della pellicola risulta spaventosamente attuale. Nelle sue ripetizioni, così come nei suoi cambiamenti. Ed è importante sottolineare come all’interno del film non ci sia mai solo spazio per ciò che è sbagliato. Non c’è mai uno spazio esclusivo per il brutto. C’è molto di più. Il mare blu e il mare del deserto. La gentilezza, la generosità, la storia, la cultura. C’è la gente, la tradizione, le usanze e il lavoro.

Esiste spazio per il bello.

Lo spazio che l’Afghanistan, insieme alle sue donne, sarà in grado di riprendersi.

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