Che cosa hanno in comune la guerra e l’arte? Verrebbe da rispondere: nulla. Eppure, vi è un evento che li accomuna: la spoliazione. Da sempre, il conquistatore si è impadronito delle ricchezze presenti sui territori conquistati, contrapponendo il semplice uso della forza ai diritti dei legittimi possessori, sempre soccombenti. Ebbene, come vedremo in seguito, l’attività predatoria operata in Italia su ordine di uno dei più grandi condottieri che la storia abbia mai conosciuto è stata, almeno in parte, vanificata grazie alla caparbietà di un altrettanto grande artista. potere e arte

Tutto iniziò subito dopo la Rivoluzione francese, quando si volle rendere pubblico il patrimonio artistico che l’aristocrazia aveva accumulato nei secoli precedenti. A tale scopo, nel 1793 venne allestito a Parigi il primo vero museo della storia: il Musée National, poi diventato Musée Napoléon ed oggi noto come il Louvre. Da principio la collezione comprendeva i tesori delle famiglie reali francesi, borboniche e degli ordini ecclesiastici transalpini. Negli anni a seguire il catalogo museale fu incrementato da quanto veniva requisito nel corso delle campagne di guerra. In questo modo si materializzava il principio rivoluzionario secondo cui la Francia, in quanto patria della libertà e dell’universalità, doveva diventare anche la patria delle arti, in quanto unica in grado di salvaguardare il patrimonio artistico mondiale, altrimenti relegato, negli altri paesi, ad una ristretta élite di aristocratici o ecclesiastici. potere e arte

Secondo l’ideale rivoluzionario,  l’opera d’arte doveva assolvere alla funzione pubblica di elevazione e istruzione del popolo libero, tale da essere, come descritto dallo storico Valter Curzi, “uno strumento indispensabile per l’educazione e l’affinamento dello spirito, componente non secondaria, inoltre, nella promozione dell’immagine di governi illuminati. Sottratte alla logica di semplici beni di lusso o di oggetti legati al culto, le opere d’arte e, più in generale, la produzione artistica divengono lo specchio del grado di civiltà di una nazione e nell’Europa dei Lumi funzionali all’aspirazione dei paesi culturalmente più avanzati di farsi interpreti e divulgatori di valori universali” (Il museo universale. Dal sogno di Napoleone a Canova, Valter Curzi, Carolina Brook, Claudio Parisi Presicce, Ed. Skira, 2016). A tale scopo, come abbiamo visto in precedenza, sorse un nuovo strumento: il museo. Questo permetteva di concentrare le opere d’arte in un unico luogo pubblico, dove chiunque avrebbe potuto recarsi.

Per tali ragioni, nel ventennio che intercorse tra il 1797 e il 1815, si verificò “il più grande spostamento di opere d’arte nella storia”, così come definito dallo storico dell’arte Paul Wescher (I furti d’arte: Napoleone e la nascita del Louvre, Einaudi, Torino, 1988), grazie alle armate francesi, condotte da Napoleone Bonaparte. Molto si è scritto sulle conquiste militari del Condottiero transalpino, ma c’è un secondo aspetto, conseguente alle azioni belliche, che ha segnato quest’epoca storica: il prelevamento e il trasferimento in Francia di qualsiasi bene di valore presente su tutti i territori occupati. A tale scopo, il Generale individuò nel barone Dominique Vivant Denon, storico dell’arte e archeologo, il suo principale collaboratore, al quale diede l’incarico di individuare, con l’ausilio di una commissione tecnica, le opere di maggiore importanza da requisire. Si trattava non solo di arti pittoriche e scultoree, ma anche beni archeologici, archivistici e librari, collezioni numismatiche, naturali, mineralogiche e botaniche. Per volere del Bonaparte lo stesso Dominique Vivant Denon, nel 1802, assunse la direzione del museo parigino. potere e arte

In tale contesto, ogni stato occupato dai napoleonici “pagò dazio” e l’Italia, con il suo sconfinato patrimonio artistico, non poteva certo sfuggire a tale logica. Infatti, nel 1796, il Direttorio, che era il governo della Francia rivoluzionaria, diede avvio alla politica di trasferimento in Francia dei beni presenti sui territori italiani occupati, attraverso l’emanazione di uno specifico ordine impartito a Napoleone. Dal punto di vista pratico, al seguito delle truppe napoleoniche vi erano dei commissari, nominati dal Direttorio, che avevano l’incarico di selezionare le opere da spedire in Francia, oltre a quelle indicate da Vivant Denon. A tale scopo, nel corso delle campagne napoleoniche fu introdotta una novità fino ad allora inedita: gli indennizzi di guerra, che erano stabiliti attraverso specifiche clausole apposte nei trattati di pace e prevedevano la consegna di un determinato numero di opere d’arte o di altri beni di natura culturale. In tal modo, le requisizioni delle opere e il loro trasferimento in Francia venivano giuridicamente legittimati. potere e arte

Sebbene il meccanismo di prelevamento dei beni possa sembrare codificato, in realtà i francesi non si limitarono agli accordi pattuiti nei trattati, anzi saccheggiarono e vandalizzarono tutto ciò che incontrarono sulla propria strada e a farne le spese maggiori furono spesso le chiese, gli ordini ecclesiastici e le collezioni private delle casate aristocratiche italiane. potere e arte

Tutte le città, da nord a sud, si videro spogliate e fare qui un elenco delle opere d’arte trafugate sarebbe obiettivamente difficile. Solo per dare un’idea di quanto fosse radicata nei napoleonici la brama di “espropriazione”, si pensi che nel 1797 a Venezia furono prelevati i leoni di bronzo da piazza San Marco e i quattro cavalli di San Marco che decoravano la facciata della basilica (per ironia della sorte, quest’ultimi requisiti secoli prima dalla Serenissima a Costantinopoli); il tesoro della Basilica di San Marco venne fuso e anche il Bucintoro venne bruciato, al fine di estrarne l’oro delle decorazioni che lo adornavano, necessario a pagare i soldati. A Roma i napoleonici, oltre a requisire le principali opere, antichi manoscritti e l’archivio papale, progettarono di staccare gli affreschi di Raffaello delle stanze vaticane e, addirittura, di sezionare la Colonna Traiana, perché fosse possibile inviarli in Francia. Per fortuna, i progetti non ebbero seguito, perché analoghi tentativi su altre opere erano falliti, deturpandole irrimediabilmente. A Milano, nel 1796, fra le altre cose, anche il codice Atlantico di Leonardo fu oggetto di requisizione dalla biblioteca Ambrosiana. Oltre a quanto trasferito oltralpe, furono migliaia i beni che furono venduti o che, a vario titolo, vennero distrutti o dispersi. A tal proposito, sempre Paul Wescher ebbe a dire: “è difficile stabilire con esattezza quante opere d’arte di valore unico andarono distrutte o disperse in quei giorni” (ibid.). potere e arte

Non solo Napoleone amava l’arte, ma ne comprese anche la forza quale strumento di propaganda per il nuovo regime francese. A dimostrazione anche della valenza politica che tali requisizioni avevano nel consolidare il prestigio della “Repubblica” nei confronti degli stessi francesi, ma anche nei confronti degli altri stati, nel luglio del 1798 per le strade di Parigi sfilarono decine e decine di carri ricolmi di ogni genere di opera d’arte, unitamente a oggetti preziosi, manoscritti e volumi, destinati al suddetto Museo. potere e arte

Le attività di spoliazione perpetrate dai napoleonici incontrarono una voce di dissenso in Antoine-Chrysostome Quatremère de Quincy, storico dell’arte parigino, che nel 1796 “aveva pubblicato in forma epistolare un testo riguardante proprio la spoliazione dell’Italia. Indirizzato a un generale napoleonico (il crèolo Francisco de Miranda, nativo di Caracas), esso è noto come Lettres à Miranda” (Il Cricco Di Teodoro, Itinerario nell’arte, Zanichelli, 2012, pag.1467). Lo storico parigino affermò in questi documenti la barbarie e l’inopportunità, anche sulla base dei principi rivoluzionari sui diritti all’istruzione e alla conoscenza, delle spoliazioni perpetrate in Italia. potere e arte

Finalmente, l’incubo ebbe termine il 18 giugno 1815 con la definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo. Allo stesso tempo, il Congresso di Vienna, iniziato nel 1814 e conclusosi l’anno successivo, oltre a ristabilire l’assetto geopolitico dell’Europa, considerò la questione relativa alle opere d’arte e agli altri beni requisiti e trasferiti in Francia. Si giunse, così, alla conclusione che tutto quanto fosse stato oggetto di “esproprio” doveva essere restituito ai legittimi proprietari, poiché le sistematiche “spoliazioni erano contrarie ai principi di giustizia e alle regole della guerra moderna”. A questo punto problema risolto? Non proprio. potere e arte

Al Congresso di Vienna, oltre alle potenze vincitrici, vi partecipò, rappresentata dal ministro degli esteri Charles Maurice de Talleyrand-Perigord, anche la Francia di Luigi XVIIII, succeduto a Napoleone dopo la sua abdicazione. L’ordine di restituzione del Congresso incontrò la netta opposizione dello stesso Luigi XVIIII, il quale affermò che, ormai, le opere d’arte appartenevano alla Francia e vi sarebbero restate. Anche Vivant Denon, in quanto direttore del museo parigino, ostacolò in ogni modo le restituzioni, poiché le considerava un furto alla Francia! potere e arte

Tuttavia, le potenze che avevano sconfitto Napoleone avevano contingenti militari che occupavano la capitale francese e, quindi, si riappropriarono delle loro opere “manu militari”. Mentre le truppe spagnole ruppero le porte del Louvre e con la forza si ripresero le loro opere, i Prussiani, giunsero a minacciare l’arresto di Vivant Denon, che impediva l’accesso al Louvre dei loro ufficiali. La minaccia ebbe effetto: in breve tempo le opere a loro trafugate furono lasciate fuori dai cancelli del Louvre. L’Austria, invece, per recuperare i “cavalli di San Marco”, che erano stati installati sulla sommità dell’Arco di trionfo di Parigi, dovette ricorrere, il primo di ottobre del 1815, alla direzione di ingegneri austriaci e inglesi, che operarono di fronte a una folla di parigini ostili tenuti a bada da due battaglioni di soldati austriaci, mentre uno dei Leoni di San Marco, nel corso del suo recupero, cadde e si ruppe irrimediabilmente, provocando l’ilarità dei dimostranti francesi. Gli inglesi, invece, intervennero materialmente in favore degli olandesi e dei belgi e finanziariamente in aiuto allo Stato Pontificio provvedendo al pagamento delle spese di trasporto per il rientro dei suoi beni.

Gli stati italiani, disuniti e disorganizzati, si mossero con lentezza e, talvolta, con scarsi risultati, ad eccezione dello Stato Pontificio. Papa Pio VII, su consiglio del segretario di stato il cardinale Consalvi, affidò ad Antonio Canova l’incarico di recuperare le opere saccheggiate a Roma e in tutte le altre città dello Stato.

La scelta del Papa non poteva essere più indovinata. Antonio Canova era la persona giusta allo scopo, perché, oltre ad essere rinomato e richiesto in tutte le corti europee per la sua grandezza artistica, era noto anche per le sue capacità diplomatiche.

Ma facciamo un passo indietro. Nel 1802, Canova ricevette dal Papa la nomina di ispettore generale delle Belle Arti di Roma e dello Stato Pontificio, con il compito di tutelare e valorizzare il patrimonio artistico. L’Artista ebbe anche un rapporto diretto con Napoleone, il quale nutriva nei suoi confronti una profonda ammirazione, tanto da invitarlo più volte a Parigi perché vi restasse per ricoprire presumibilmente la direzione del Louvre, poi concessa a Vivant Denon dopo i ripetuti rifiuti di Canova.

A tal proposito, Canova era un patriota e il comportamento predatorio francese lo irritò particolarmente, tanto da rifiutare più volte gli inviti ricevuti dall’Imperatore. Tuttavia, su indicazioni dello stesso Pio VII, Canova, suo malgrado, accettando l’invito di Napoleone, si recò a Parigi una prima volta nel 1802 per scolpirvi una statua della sua persona; vi tornò una seconda volta, nel 1810, per ritrarre l’imperatrice Maria Luisa. In occasione del primo viaggio, l’artista “ebbe modo di lamentarsi con Napoleone per le dolorose spoliazioni di Roma e nel 1810, durante il suo secondo soggiorno parigino, riuscì anche a convincerlo a fornire aiuti economici all’Accademia di San Luca e all’Accademia di Firenze. Inoltre, all’invito di napoleone a restare a Parigi poiché lì erano ormai raccolti tutti i principali capolavori, Canova rispondeva: «Lasci Vostra maestà […] lasci almeno qualche cosa all’Italia. questi monumenti antichi formano catena e collezione, con infiniti altri che non si possono trasportare né da Roma né da Napoli»” (Il Cricco Di Teodoro, Itinerario nell’arte, Zanichelli, 2012, pag.1465). potere e arte

Detto questo, torniamo all’incarico conferito da papa Pio VII al Canova, il quale venne inviato a Parigi in qualità di ambasciatore. Non era certo un incarico semplice per diversi motivi. La prima difficoltà era di natura giuridica: secondo i francesi, avendo acquisito le opere d’arte tramite le clausole inserite, nel caso di specie, nel trattato di armistizio di Bologna nel 1796 e in quello di pace sottoscritto l’anno successivo, le opere erano ormai di loro proprietà. La pretesa dei francesi era tale che Antonio Canova, in quanto inviato a recuperare le opere d’arte pontificie, era considerato esso stesso un saccheggiatore a danno della Francia. A dirla tutta, ancora oggi in Francia Canova è ricordato per le “indebite appropriazioni” di opere d’arte perpetrate nei confronti del museo parigino. potere e arte

La seconda difficoltà era di ordine organizzativo: i beni trafugati erano davvero numerosi e non erano mai stati elencati in un apposito documento; inoltre, non tutto era stato portato a Parigi, ma molte opere erano state diffusamente distribuite in tutto il territorio francese, Corsica compresa, dove era stato allestito un secondo grande museo. Tutto ciò rendeva quindi improbo le operazioni di rintraccio dei beni da rimpatriare. Vi erano anche difficoltà di ordine logistico ed economico: qualora ottenuto il beneplacito dei francesi, una volta rintracciate le opere d’arte, si sarebbero dovute affrontare le criticità relative all’imballaggio delle opere e soprattutto al loro trasporto in patria. Quest’ultimo risultava piuttosto arduo ed economicamente oneroso per via dell’attraversamento delle Alpi. potere e arte

Tuttavia, Antonio Canova ebbe la capacità di superare, almeno in parte, tutte queste difficoltà. In prima istanza, si rese subito conto che, per quanto fosse giunto a Parigi in qualità di ambasciatore del Papa, da solo non sarebbe riuscito nell’impresa, visto l’oltranzismo dei transalpini. A tale scopo, sfruttò tutte le sue conoscenze nelle corti europee e la sua capacità diplomatica ottenendo il supporto, anche militare, di inglesi, austriaci e prussiani. Questo grazie, anche, alla sua conoscenza giuridica ed alla capacità di esposizione della problematica per “smontare” le ragioni addotte dai francesi in merito alla legittimità del possesso delle opere d’arte ottenute attraverso la stipula dei trattati. Tutto questo orientò Wellington, comandante delle truppe britanniche a Parigi e William Richard Hamilton, il sottosegretario del ministro degli esteri inglese a fare pressione sulla Francia, ma fu soprattutto Metternich a fiaccare le obiezioni del direttore del Louvre, Vivant Denon, fornendo a Canova una scorta militare austro-prussiana che gli permise di entrare nel museo e di riprendersi le opere  provenienti dalle collezioni pontificie, da Venezia e dagli altri stati satelliti italiani dell’Impero austriaco. In assenza di un elenco fornito delle opere trafugate, Antonio Canova dovette far ricorso alla propria memoria per individuare le opere d’arte di proprietà pontificie, ma non disdegnò la selezione di opere d’arte sottratte agli altri stati italiani, riconosciute sulla base della sua profonda conoscenza. Per il recupero il Canova si limitò soprattutto alle opere presenti nel Louvre, tralasciando le chiese cittadine e gli altri siti dove queste erano state a suo tempo distribuite, anche perché Papa Pio VII non voleva incrinare ulteriormente i rapporti con il Re di Francia. Lo zelo con il quale l’artista italiano era tale che fece redigere una nota dettagliata di tutti gli oggetti prelevati dal Louvre con la data del ritiro e divise le spedizioni dirette a Roma da quelle indirizzate alle altre città dello Stato Pontificio. In meno di un mese catalogò, imballò e rispedì in patria ben 249 opere. L’impresa di recupero trovò, infine, la sua realizzazione grazie al contributo economico inglese che provvide alle spese di trasporto ed alle suddette truppe austro-prussiane che scortarono i beni in Italia. In conclusione, delle opere trafugate e rintracciate in Francia ne furono recuperate circa il settanta, ottanta per cento, ma il danno fatto al patrimonio artistico italiano fu comunque ingente. potere e arte

E la Gioconda di Leonardo da Vinci? È senso comune in Italia ritenere che la presenza in Francia di uno dei dipinti italiani più famosi al mondo sia frutto di una sottrazione illecita. In realtà, la Gioconda è sempre stata di proprietà francese. Fu proprio Leonardo Da Vinci che, nel 1516, vendette il dipinto al re di Francia Francesco I.

La Rivoluzione francese e le spoliazioni napoleoniche, infatti, ebbero comunque il merito di avviare il processo di “democratizzazione” dei beni artistici. Attraverso l’inedita creazione di luoghi dove mostrare tutte assieme le opere d’arte, permettevano a chiunque, a qualsiasi ceto appartenesse, di poter godere di tali “bellezze”. Probabilmente, possiamo oggi dire che, malgrado tutto, quel periodo storico tanto controverso ha lasciato ai posteri questa importante eredità: i musei d’arte. potere e arte

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