Il grande assente dell’8-9 giugno: un sistema che indicizzi i salari all’aumento dei prezzi che avrebbe potuto cambiare tutto

I referendum dell’8 e 9 giugno rappresentano l’ennesima occasione mancata dalla sinistra italiana e dal sindacalismo contemporaneo. Mentre Maurizio Landini conduce una campagna referendaria su temi tecnici del Jobs Act, per quanto legittimi, la vera emergenza nazionale viene ancora una volta ignorata: il progressivo impoverimento della classe media italiana, conseguenza diretta dell’abolizione della scala mobile nel 1992.

Tra i cinque quesiti proposti, quattro riguardano aspetti del diritto del lavoro che, pur meritevoli di attenzione, non affrontano il nodo cruciale della perdita del potere d’acquisto dei salari italiani. Solo il quinto quesito, sulla riduzione da 10 a 5 anni del periodo di residenza necessario per richiedere la cittadinanza italiana, tocca una questione strategica per il futuro del Paese. Eppure, anche questa proposta viene presentata in modo timido, senza collegare esplicitamente l’immigrazione alle necessità strutturali di un Paese in declino demografico.

Le contraddizioni dei quesiti sul lavoro: quando la buona intenzione rischia di fare danni

Prima di analizzare l’occasione perduta sulla scala mobile, è necessario evidenziare alcune perplessità sui quesiti proposti, in particolare sulla scheda arancione (indennità per licenziamenti nelle aziende sotto i 15 dipendenti) e sulla scheda grigia (motivazioni per i contratti a tempo determinato).

Entrambe le proposte, pur animate da buone intenzioni nella lotta al precariato, rischiano di penalizzare pesantemente le micro-imprese che costituiscono l’ossatura dell’economia italiana. Per aziende che spesso operano ai margini della sostenibilità economica, l’aumento dei vincoli e dei costi del lavoro potrebbe rappresentare il colpo di grazia. Una piccola impresa che attraversa periodi di stagnazione o calo dei profitti potrebbe trovarsi nell’impossibilità di sostenere gli oneri aggiuntivi, portando alla chiusura definitiva.

Il paradosso è evidente: per proteggere alcuni lavoratori dal licenziamento si rischia di causare la perdita del posto per tutti i dipendenti dell’azienda. L’effetto finale sarebbe devastante non solo per i dipendenti che, nonostante il licenziamento dei colleghi, perderebbero anche loro il lavoro a causa del fallimento dell’imprenditore costretto a chiudere, ma anche per l’erario che perderebbe dei contribuenti attivi per acquisire diversi disoccupati da sostenere attraverso il sistema previdenziale.

La conseguenza più probabile sarebbe una ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro: le micro-imprese, terrorizzate dai rischi, eviterebbero completamente le assunzioni dipendenti, ricorrendo esclusivamente a collaborazioni occasionali con partite IVA. Questo non solo ridurrebbe la specializzazione e la qualità del lavoro, ma priverebbe i lavoratori di ogni tutela sociale.

Considerando che l’economia italiana si regge proprio sulle micro e piccole-medie imprese, metterle in difficoltà attraverso una regolamentazione punitiva appare controproducente. Tra l’altro l”Italia non può ancora permettersi i massicci investimenti necessari per trasformare rapidamente il tessuto produttivo verso grandi industrie ad alta produttività, nonostante tale soluzione porterebbe sicuramente a un innalzamento dei salari nel lungo periodo.

La contraddizione costituzionale: quando la dignità del lavoro è solo sulla carta

L’articolo 36 della Costituzione italiana stabilisce che il lavoratore ha diritto a una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Eppure, con salari medi che non raggiungono nemmeno i 2000 euro mensili per la maggior parte dei dipendenti, questo principio costituzionale appare tragicamente disatteso.

I’incoerenza è lampante: come può una famiglia con più figli garantirsi un’esistenza dignitosa con simili redditi? E come può il governo invocare politiche per la natalità quando le condizioni economiche rendono la scelta di avere figli un lusso che molte coppie non possono permettersi? La povertà indotta dai bassi salari diventa così un fattore strutturale di denatalità, alimentando quel circolo vizioso che il Paese dovrebbe invece spezzare.

La cittadinanza: un’opportunità mal comunicata

Il referendum sulla cittadinanza rappresenta probabilmente l’unico elemento incontestabile dell’intera consultazione. In un’Italia che registra tassi di natalità tra i più bassi d’Europa e una popolazione in rapido invecchiamento, l’integrazione degli stranieri residenti non è più una questione ideologica ma una necessità economica imprescindibile.

La riforma coinvolgerebbe potenzialmente un numero rilevante di persone che già vivono e lavorano stabilmente in Italia. Si tratta di forza lavoro qualificata che contribuisce al sistema previdenziale e fiscale, ma che rimane in una condizione di incertezza giuridica. La riduzione dei tempi per l’acquisizione della cittadinanza non solo riconoscerebbe un diritto, ma rafforzerebbe la coesione sociale e la competitività economica del Paese.

Proprio l’aumento della natalità gioverebbe enormemente all’economia nazionale: più nascite significherebbero maggiore domanda interna, più consumi, più investimenti in servizi per l’infanzia, più manodopera, più opportunità lavorative. Invece, riducendo le famiglie in condizioni di povertà relativa, si ostacola non solo la loro felicità individuale, ma anche la crescita economica complessiva.

Tuttavia, anche su questo tema cruciale, la sinistra ha perso l’occasione di costruire un discorso coerente che colleghi immigrazione, demografia e sostenibilità del welfare. Il messaggio rimane frammentato tra rivendicazioni di principio e tecnicismi burocratici.

Il nodo del cuneo fiscale: l’altra grande assente

Non è tema di referendum ma è bene comunque fane un accenno per completezza e per chiearire alcuni errori di cui il governo è responsabile. Accanto alla necessità di agganciare i salari all’inflazione, un’altra riforma fondamentale brilla per la sua assenza: il taglio drastico del cuneo fiscale. Attualmente, un lavoratore costa all’impresa quasi il doppio di quanto effettivamente percepisce nel suo stipendio netto. Questa tassazione abnorme rappresenta un freno sia per le assunzioni che per gli aumenti salariali.

Un taglio significativo del cuneo fiscale, combinato con il ripristino di meccanismi di indicizzazione salariale, potrebbe innescare un circolo virtuoso: le imprese potrebbero permettersi di pagare meglio i dipendenti, aumentando il loro potere d’acquisto e, di conseguenza, la domanda interna. Nel lungo periodo, questo porterebbe all’arricchimento della classe media – quella che un tempo era la solida borghesia italiana e che oggi è scivolata verso fasce di povertà relativa.

Il tabù della scala mobile: trent’anni di declino salariale

Ma la vera occasione perduta riguarda il tema che nessuno ha il coraggio di affrontare: la necessità di reintrodurre meccanismi di adeguamento automatico dei salari all’inflazione. L’abolizione della scala mobile nel 1992, celebrata all’epoca come una vittoria contro l’inflazione, ha prodotto nel lungo periodo una catastrofe sociale di proporzioni enormi.

I dati parlano chiaro: i salari italiani sono oggi tra i più bassi d’Europa in termini reali, sostanzialmente fermi ai livelli di trent’anni fa. Con una retribuzione media che non raggiunge nemmeno i 2000 euro mensili per la maggior parte dei dipendenti, l’articolo 36 della Costituzione italiana – che sancisce il diritto a una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del lavoro” e “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” – rimane lettera morta.

Come può una famiglia con figli sopravvivere dignitosamente con simili redditi? Il paradosso è evidente: mentre il governo invoca la necessità di aumentare la natalità per contrastare il declino demografico, le politiche economiche rendono la scelta di avere figli un lusso che molte coppie non possono permettersi. La povertà indotta dai bassi salari diventa così un fattore strutturale di denatalità, creando un circolo vizioso che impoverisce non solo le famiglie ma l’intera economia nazionale.

Questo fenomeno non rappresenta solo un problema economico, ma costituisce una bomba sociale ad orologeria. La frustrazione di una generazione che vede peggiorare sistematicamente le proprie condizioni di vita rispetto ai genitori alimenta tensioni che possono facilmente degenerare. Non è un caso che l’Italia abbia già vissuto, tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta, un periodo di violenza politica che tra l’altro si manifestò in condizioni economiche molto meno drammatiche di quelle attuali.

Il calcolo politico che paralizza

Il referendum che si tenne 30 anni fa in merito si svolse ovviamente in un periodo in cui si viveva un’illusione di benessere che sembrava destinata a durare per sempre. Ma le cose ora sono cambiate drasticamente. Perché allora nessuno ha il coraggio di proporre un quesito sulla reintroduzione di meccanismi di indicizzazione salariale? La risposta è semplice quanto deprimente: calcolo politico a breve termine. Un simile quesito avrebbe comportato uno scontro frontale con la classe dirigente economica e politica, mettendo i sindacati e i partiti di sinistra di fronte alle proprie responsabilità storiche.

I costi immediati di una reintroduzione di un sistema paragonabile alla scala mobile sarebbero significativi per le finanze pubbliche e private, mentre i benefici si manifesterebbero solo nel medio-lungo periodo. Nessun leader politico sembra disposto ad assumersi questo rischio, preferendo rifugiarsi in battaglie di retroguardia su aspetti marginali della legislazione del lavoro.

Eppure, un referendum sulla scala mobile avrebbe garantito un’affluenza ben superiore a quella prevista per i quesiti attuali. La questione salariale tocca direttamente milioni di italiani e avrebbe rappresentato una vera discriminante politica, costringendo tutti gli attori a prendere posizione su un tema centrale per il futuro del Paese.

Il rischio dell’irrilevanza: una sconfitta annunciata

L’ennesima sconfitta referendaria – quasi scontata vista la difficoltà di raggiungere il quorum – rischia di segnare un ulteriore passo verso l’irrilevanza politica di sindacati e sinistra italiana. Ma il paradosso è che, comunque vada, la sinistra non potrà rivendicare alcuna vittoria politica significativa.

I cinque quesiti proposti, infatti, abrogano leggi non emanate dall’attuale governo di destra di Giorgia Meloni. Si tratta prevalentemente di norme del Jobs Act renziano e di altre disposizioni precedenti. Questo significa che, anche in caso di raggiungimento del quorum e vittoria dei “Sì”, Meloni potrà tranquillamente prendere atto del risultato senza che il suo operato venga minimamente messo in discussione. Anzi, potrebbe persino presentarsi come rispettosa della volontà popolare, cavalcando politicamente il risultato.

Al contrario, se non dovesse essere raggiunto il quorum – scenario più che probabile – la sinistra italiana incasserebbe l’ennesima batosta che confermerebbe la sua incapacità di mobilitare l’elettorato e di fare opposizione efficace. Dopo le sconfitte elettorali e l’irrilevanza parlamentare, anche sul terreno della democrazia diretta la sinistra dimostrerebbe di non riuscire più a prendere iniziative politiche vincenti.

Maurizio Landini potrà anche rivendicare una vittoria simbolica in caso di buona affluenza, ma il messaggio che passerà sarà quello di un movimento incapace di affrontare le vere emergenze del Paese e di costruire alternative credibili al governo di destra.

La strategia di Landini, più orientata alla costruzione del proprio profilo politico in vista della scadenza del mandato sindacale nel 2027, rischia di trascinare l’intera CGIL in una deriva autoreferenziale. Il suo rapporto preferenziale con il Movimento 5 Stelle e la distanza dal PD di Elly Schlein testimoniano una concezione della politica più attenta alle alleanze tattiche che alle necessità strategiche del mondo del lavoro.

Se la classe dirigente continuerà a ignorare la questione salariale, il rischio è quello di trovarsi di fronte a esplosioni sociali difficilmente controllabili. La storia insegna che le società possono tollerare l’ingiustizia ma difficilmente sopportano l’impoverimento progressivo senza prospettive di miglioramento.

Il vero verdetto di questa consultazione non riguarderà il successo o il fallimento dei singoli quesiti, ma la capacità della sinistra di tornare ad essere una forza di cambiamento reale. I segnali, purtroppo, non sono incoraggianti.

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