“Chi ha fatto quel Cristo ha spasimato d’amore; ha amato ed ha pianto; ha amato ed un fremito mortale gli ha travolto le fibre; ha amato ed una convulsione ha contorta e spezzata la sua vita; ha amato senza speranza, senza gioia, senza diletto, abbruciando la propria esistenza nella tormentosa voluttà del dolore. Solo un uomo che ama può creare quel Cristo morto; solo colui che soffre col trasporto, con la passione delle sofferenze, può mettere in una statua tutta la sublime epopea del dolore. Ogni colpo di scalpello che scheggiava, rompeva, carezzava, curvava, ammorbidiva il marmo, era una parola, un gemito, un lamento, un grido, uno scoppio furente di questo amore. La passione dell’uomo vivo creava la passione del Cristo morto. E ne veniva fuori un’anima d’artista che imprimeva il suo carattere in un capolavoro dell’arte.” (Leggende Napoletane, Matilde Serao) Napoli, Cappella Sansevero. Il Cristo Velato tra arte e alchimia Direttore responsabile: Claudio Palazzi
La Cappella Sansevero Le prime vicende della Cappella Sansevero sono legate ad un fatto di sangue, l’eccidio di Maria d’Avalos e del suo amante, Fabrizio Carafa duca d’Andria, ad opera del marito tradito, Carlo Gesualdo principe di Venosa e conte di Conza, avvenuto il 18 ottobre 1590. Fu sicuramente l’episodio più clamoroso della cronaca cinquecentesca napoletana, soprattutto a causa della spietatezza dell’omicida che non concesse a sua moglie tempo e modo di pentirsi, quindi possibilità di salvezza. L’evento si inserisce nell’ambiente controriformistico come angoscioso tormento per l’esigenza di espiazione. Il fatto di sangue coinvolgeva, tuttavia, un quarto personaggio, Gian Francesco Di Sangro duca di Torremaggiore (1524-1604), titolare del palazzo di S. Domenico Maggiore, dove il fatto era avvenuto. Nello stesso anno 1590, eleggendo il giardino del suo palazzo a luogo sacro, il duca faceva iniziare nell’area adiacente alla costruzione i lavori per la realizzazione di una chiesetta. La giustificazione esteriore dell’iniziativa fu del tutto devozionale ma è difficile non vedere un rapporto espiatorio nei confronti del delitto che andava risarcito con un luogo sacro dedicato alla Deposizione, momento centrale della pietas cristiana. Le finanze del duca di Torremaggiore, infatti, non erano tanto prosperose da consentire un’impresa del genere, come indirettamente confermava l’affitto del palazzo.

La storia della Cappella come oggi la si conosce inizia con Alessandro di Sangro, giovanissimo dignitario pontificio, prolegato di Bologna, patriarca di Alessandria e figlio del duca, che sarebbe riuscito nei primi del Seicento a restaurare le fortune della famiglia, sia sul versante feudale pugliese che su quello sociale a Napoli. Egli, nel 1608, trasforma il sacello in tempio, destinandolo, oltre che al culto, a luogo di sepoltura familiare, cioè a Templum sepulchrale. Successivamente, verso la metà del 1700, il celeberrimo principe Raimondo di Sangro (1710-1771) si occupò della cappella mutandone la decorazione, prima di lui caratterizzata da severità, compostezza e limitata a pochi monumenti. Raimondo rese la cappella il più importante tempio della scultura barocca, utilizzando la decorazione di questa come mezzo per attirare su di sé l’attenzione, nell’esigenza di stupire contemporanei e posteri, e come pretesto per legare il suo nome ad una grande impresa artistica che potesse assicurargli la fama. Non possiamo, tuttavia, sminuire il suo mecenatismo e l’impulso che grazie a lui ebbe la scultura napoletana, che all’epoca si trovava ristretta nell’ambito locale, e la passione continua con cui diresse i lavori. La cappella fu, per gli artisti napoletani, il mezzo per la conoscenza delle varie correnti del barocco italiano. In una con la Certosa di San Martino, fu il solo monumento omogeneo di scultura barocca esistente in Napoli e diede modo agli scultori napoletani, lontani dall’introspezione psicologica e di accezione popolaresca ed immediata, di ammodernare i loro schemi e di partecipare a quello che stava accadendo nell’arte italiana. Si rende storicamente fondamentale in quanto esplica, nel suo carattere napoletano, un aspetto particolare della scultura del Settecento e rappresenta la summa delle tendenze scultoree che si stavano sviluppando nei maggiori centri italiani.

Il Cristo velato  Tra le motivazioni che portarono alla fama della Cappella la principale fu quel velo realizzato nel Cristo da Giuseppe Sanmartino, che stimolò la fantasia del popolo, la meraviglia degli artisti e che ancora oggi muove i sentimenti dei visitatori. L’abilità di Sanmartino e la fama di alchimista e sperimentatore di Raimondo di Sangro, committente dell’opera, portarono a credere che il velo fosse stato realizzato attraverso un procedimento alchemico inventato dallo stesso Principe, il quale avrebbe consentito la marmorizzazione di un lenzuolo. Ipotesi del tutto fantasiosa come attestano il documento del pagamento, datato il 16 dicembre 1752, in cui il principe scrive esplicitamente: “E per me gli suddetti ducati cinquanta gli pagarete al Magnifico Giuseppe Sanmartino in conto della statua di Nostro Signore morto coperta da un velo ancor di marmo”, nonché le lettere in cui il Principe descrive il sudario trasparente come “realizzato dallo stesso blocco della statua”. Certamente, il Sanmartino non si sarebbe spinto all’eccezionale virtuosismo tecnico se non fosse stato in parte sollecitato dagli esperimenti del Principe sulla colorazione dei marmi e dalla competizione con il velo scolpito dal Corradini per la Pudicizia, ispirato alle tecniche della scultura greca che l’artista veneziano aveva forse conosciuto durante le restaurazioni di statue classiche portate dai mercanti della Serenissima.

Nessuna descrizione della foto disponibile.L’opera venne inizialmente commissionata a Corradini, il quale realizzò un bozzetto in terracotta per il Cristo, oggi conservato nei depositi del Museo di S. Martino. La resa illusionistica, la perizia tecnica, l’assenza di emozione al di fuori di quella della forma e del gioco in superficie, la risoluzione del dramma attraverso la esteriorità della decorazione, sono soluzioni tipicamente corradiniane che rendono inequivocabile l’appartenenza del bozzetto. Muovendo da un iniziale berninismo, Corradini raggiungerà risultati di gusto già precanoviano. In Austria aveva imparato a nascondere la mancanza d’ispirazione dietro l’alto tecnicismo illusionistico, divenendo interprete di una scultura senza passione e senza sfondi psicologici, con la sola partecipazione formale, “come se l’artista guardasse alla sua opera in una sorta di distaccato amore”.

Nel 1752, quando morì il Corradini, la realizzazione dell’opera non era stata neanche iniziata e la commissione volse in favore di Giuseppe Sanmartino. Nella realizzazione del Cristo, Sanmartino, traspone in termini sentimentali l’aspirazione formale di Corradini, fondendo alla tradizione naturalistica seicentesca il sentimento tardo rococò rielaborato in un linguaggio locale. Nell’opera di Sanmartino sparisce il drappo barocchetto, sostituito ora da un materassino compresso dal peso del corpo, e gli strumenti della Passione, che Corradini aveva appena accennato, vengono rielaborati con il realismo di una natura morta seicentesca. Realismo che si configura anche nella figura del Cristo, che assume misura umana, e nello schivare ogni indugio decorativo.

La primitiva idea del velo incollato al corpo è un’invenzione corradiniana ma con Sanmartino la formula fredda ed elegante delle pieghe, che intendeva rendere attraente il movimento del corpo, si vivifica di sentimento locale. Sanmartino reinventò il bozzetto di Corradini nella resa impressionistica del velo adagiato sul corpo, a fronte di quello accademico del veneto, che troviamo anche nella Vestale di Palazzo Barberini. Nella diversificazione della materia e del colore tra il corpo ed il velo è evidente il modo nuovo di intendere la scultura di fronte alle esperienze europee. Sanmartino, nella sua sintesi plastica, seppe cogliere il movimento della luce e delle forme nello spazio, senza cedere a intellettualismi. La forma in lui è sempre risolta in senso totale. Nella realizzazione dell’opera Sanmartino indaga l’anatomia del corpo con occhio scientifico ma, riportando la struttura alla sua essenzialità, consente alla luce di avvolgerla in senso atmosferico e di esaltare il velo donandogli maggiore trasparenza, ricerca che è stata scambiata per prestigiosa abilità.

Cappella Sansevero, Sgarbi racconta il Cristo velato - la Repubblica

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