Odore di caffè. Alessia Citti Claudio Palazzi
Il suo aroma intenso e accogliente si diffondeva nei corridoi, tra le numerose stanze divise su tre piani: impavido come un esploratore costretto a settimane di astinenza gnoseologica, l’effluvio castano si intrufolava ovunque, incapace di tralasciare anche il minimo spiraglio di dispersione.
Raggiunse e superò la porta socchiusa della mia camera e, mentre aleggiava sul mio letto, sentii crescere in me, spontaneamente, l’invidia per la sua libertà incondizionata, per quel suo vagare disinteressato da uno spazio all’altro: i suoi movimenti erano semplici, veri, compiuti con l’eleganza di chi sapeva il fatto suo e procedeva nelle sue incrollabili scelte, senza ascoltare le futili beghe del mondo esterno.
Avrei dato volentieri un paio d’anni della mia incerta esistenza per possedere quella sfacciata indifferenza, la capacità di far librare il suo leggero essere al di sopra delle pesanti realtà dell’universo, senza venirne minimamente influenzato; era come se quel comunissimo profumo, diffuso tra miliardi di persone, fosse difeso da un luminoso scudo protettivo, che gli permetteva di propagarsi indisturbato, di dipanarsi tra la nebbia virulenta che offuscava il presente in un amalgama sgradevole di cifre confuse e attese forzate.
Combattevo ogni giorno, da più di tre decadi, per discernere interno ed esterno, le cui identità concrete erano solo la scogliera più aggettante di un lungomare ricco di rocce taglienti nascoste nel muschio, di sfumature tremendamente labili, sospese tra veridicità e inganno: cercavo disperatamente una linea, anche sottilissima, di pacificazione tra i due contesti conflittuali, avrei voluto farli incontrare nell’accettazione di un gradevole compromesso, cosicché entrambi sarebbero stati consapevoli dei loro campi d’azione e di competenza.
Avrei elevato la mia interiorità al di là della sua terrena permanenza, per preservarla dai volgari tranelli che, con regolarità e metodicamente, preparava quell’infida quanto esecrabile società umana; viceversa, avrei potuto anche scendere in campo e fronteggiare lo squallore dell’immanenza ad armi pari, fino a scovare quel provvidenziale filo ribelle che si distingueva nella fitta maglia della grigia omologazione.
Impossibile.
Qualunque via di mediazione si rivelava impraticabile, irrealizzabile, utopica; avrei continuato ad abitare la contemporaneità cadendo nelle sue trappole, comunicando con una dizione impacciata e poco incisiva, in un continuo imbarazzo che mi avrebbe spinto incessantemente alla nevrotica ricerca di un altrove imperturbabile che, per ora, non aveva mai assunto forme tangibili.
Mi ostinavo a pensare, a corrodermi il cervello con una latente sociofobia, esplosa ed esacerbata alle estreme conseguenze: mi dichiarai ufficialmente estranea alla materia antropomorfa, nella speranza di tirarmi fuori dalla sua angoscia e dalla “quasi” dilagante mediocrità.
Ecco il nocciolo della questione: individuare quel “quasi” e puntare esclusivamente su di esso, benché raro e difficile da afferrare in pieno, e trarne una fonte di individualistico benessere, lontana da altrui pregiudizi e schiavitù.
In verità, non stavo propriamente riflettendo, se così si poteva intendere quel fluire delirante di pensieri sconnessi.
Dormivo. Anzi, sonnecchiavo. Un sonno instabile, discontinuo, più precario della salute di Madre Terra e del diario di bordo di una viaggiatrice tradita dalle avverse e ineluttabili circostanze; non sopportavo l’idea di unirmi a una tribolazione, a un’attesa comuni: preferivo soffrire in solitaria, a costo di provocarmi un dolore martellante alle tempie, poiché mi sforzavo di cedere alla definitiva incomunicabilità con l’esterno.
Mi rigiravo nel letto, la fronte madida di sudore come le lenzuola, intanto proseguivo nella mia vana lotta al raggiungimento di un equilibrio rilassante, seppur momentaneo; talvolta ci riuscivo e la mia mente partoriva situazioni magnifiche, per mezzo della sua innata volontà: bastava un particolare, a prima vista insignificante, per creare un paesaggio o una storia che facevano dimenticare tutto, persino gli affanni di una psiche vigile.
Ma, in quel preciso frangente temporale, la panacea dell’oblio non si verificò: nessun edifizio scintillante né una natura pittoresca riuscirono a dividermi, anche se per poco, da un vissuto che non mi rispecchiava affatto; nonostante la mia radicata propensione all’eremitaggio, non fui in grado di sospendere completamente il rapporto, di fatto imprescindibile, con il resto del pianeta.
Per fortuna, la fragranza mattutina sovrastò quelle noiose elucubrazioni, reiterate fino all’eccesso, e il sonno notturno scomparve con tutte le sue complicazioni psicologiche.
Aprii le palpebre, con l’ingenua aspettativa di cogliere un mutamento positivo in quell’assurdo, cieco destino che mi circondava, ma le presenti, difficili contingenze erano lì, immote; le persiane, che mi segregavano dal mondo fuori e dalla sua luce fasulla, parevano darne conferma.
I miei occhi, coperti dal velo del sonno, si fecero strada, controvoglia, nella semioscurità; il chiarore del giorno, esso stesso recluso all’esterno, inscenava già il suo raggiro, palesandosi tra le fessure, recitando la parte di un vigoroso sole da primavera inoltrata.
In realtà, la sua messa in scena mal celava un cielo lattiginoso, sbiancato dalla noia: era il sintomo di un’ennesima giornata pronta a principiare per inerzia, come il calendario segnato dalle sempre più numerose crocette di una clausura infinita.
Quella mattina non depennai un altro numero ingrato: l’inchiostro si era arreso, esaurendosi ancor prima della mia pazienza.
Non mi persi d’animo e seguii l’odore del caffè, l’unica via di fuga in quegli ambienti chiusi, pervasi dall’eco assordante della puntina che gracchiava senza fine sul solco del long playing, una nota fissa di vacua ripetizione.
Scesi le scale del mio palazzo, c’era più luce al pianterreno: il cameriere della caffetteria, a pochi metri dalla chiesa di San Michele, mi offrì un piatto di pane di segale, marmellata di fragole e biscotti integrali; il tintinnio delle tazze ricolme di schiumosi cappuccini vegetali arrivava fino agli ultimi civici della via Rainer, un sottofondo uditivo gaudente per i passanti con gli zaini in spalla e le mappe spiegazzate dei sentieri tra le mani.
Dal mio tavolino da single beata contemplavo, infusa di beatitudine, la Rocca dei Baranci, mentre quest’ultima vegliava sulla mia gustosa colazione; il cielo terso, levigato come un cristallo di Wattens, abbracciava un’atmosfera incorruttibile, inadatta a generare pensieri astiosi o riflessioni negative.
Nel riportare il piatto di dolciumi, ormai contenente solo briciole, al bancone, inciampai alla gamba di una sedia: l’etere fu invaso dalla nebbia, il paese, i monti scolorirono e si sciolsero; un’angusta cucina prese il posto dell’amena superficie di una piazza dolomitica, cancellando le percezioni sensoriali, finalmente armonizzate, del chiacchiericcio umano con il canto della nocciolaia, dell’essenza salata dei bretzel con l’incanto legnoso del pino mugo.
Di nuovo seduta, una pecorella intagliata nel cirmolo era tutto ciò che mi rimaneva di quell’apparizione spettrale; la fissavo, contemporaneamente bramosa e delusa, come se incarnasse lo spirito di una spensierata comunità vivente, troppo lontana nel tempo e nello spazio per essere catturata, se non in un incorporeo ricordo sbiadito.
Eppure, quella reminescenza dai contorni non più definiti aveva spazzato via, anche se in piccola misura, il polveroso torpore che ottenebrava i miei sensi, così fragili, soffocati da un’assurda reclusione che non conosceva resa; intontita, sospesa nella stupida indecisione di una malata sonnolenza, tentai di reagire, di capire quell’istante salvifico, prima di sprofondare nel baratro di un nichilismo irreversibile.
Provai ad ascoltare, a decifrare l’identità di quella forza che forse avrebbe potuto aiutarmi, a carpirne il volatile richiamo.
Non poteva che essere un’entità astratta: tuttavia, nei suoi intermittenti quanto preziosi contatti con il mondo, sembrava volesse tracciare una strada tutt’altro che oscura, delineando una congiunzione profetica di tutte le cose.
Confinata anch’essa, come le mie esauste meditazioni, in un limbo ontologico, scartava da un regno all’altro, dalle essenze culinarie alle apparizioni del passato, dalla rusticità della terracotta alle scintille funeste della psiche; forse voleva costruire un sentiero, un ponte magico tra la materia ineffabile dei sogni e la contorta quotidianità, un equilibrato viaggio verso un futuro nuovo.
Un futuro probabilmente più eccitante perché diverso, illuminato dalle filosofie creative delle arti, delle lettere, della natura, orizzontato verso altre priorità, tralasciando urgenze tecnologiche ormai obsolete…