Racconti della peste

Nelle più celebri descrizioni delle epidemie si riscontrano tòpoi ricorrenti. Tra i motivi caratteristici troviamo la discussione sull’origine della malattia, dei sintomi e del decorso, l’incapacità della politica e dei medici di contrastare il contagio, la desolazione delle città e delle campagne dove tutto diviene vuoto e silenzioso, la disgregazione del vivere civile, il sospetto reciproco e la mancanza di pietà per i moribondi e per i defunti[1]. Ricorrenti sono, ancora, gli untori che diffondono il morbo che divengono nemici e che sono spesso associati all’immagine dello straniero, le figure dei sedicenti esperti, degli sciacalli e degli speculatori[2]. Infine, costante sin dall’antichità, è il tema della grande congiunzione astrale come quella tra Giove e Saturno, messaggera di calamità ed eventi drammatici[3]. L’IMMAGINE DELL’EPIDEMIA: ICONOGRAFIA DELLA PESTE DEL 1300 Direttore responsabile: Claudio Palazzi
La peste nell’antichità

Abbiamo testimonianze delle pestilenze vissute in antichità, Tucidide, ne’ La Guerra del Peloponneso, descrive la peste ateniese del 429 a.C. Lo storico racconta come il popolo, all’inizio della pestilenza, fosse certo che i Peloponnesiaci, entrati in guerra contro Atene, avessero avvelenato i pozzi. Aggiunge che le persone, sentendo di vivere già sotto una condanna a morte, cessavano di temere la legge, iniziavano a spendere il proprio denaro e rinunciavano a ogni comportamento onorevole.[4]

La peste di Giustiniano (541- 542 d.C.) ci è riferita ancora nell’VIII secolo d.C. da Paolo Diacono: «Prima avresti visto villaggi e accampamenti pieni di schiere d’uomini, il giorno seguente ogni cosa immersa in un silenzio profondo perché tutti erano fuggiti […]. Potevi vedere il mondo riportato al silenzio delle sue origini: nessuna voce nei campi, nessun fischio di pastore»[5]. Mentre lo storico Procopio di Cesarea (ca. 490-560 d.C.) scrive, «Di solito, a che tra tutti i flagelli mandati dal Cielo gli uomini cercano di dare delle spiegazioni, con molta presunzione con vane ipotesi e sproloqui si dicono esperti in materia, su fenomeni assolutamente incomprensibili per l’uomo, e inventano strane teorie di scienza naturale, senza alcun senso»[6].[7]

La peste nel tardomedioevo

Tra le epidemie più disastrose in Europa ricordiamo la peste scoppiata nel 1347-50, le ondate pandemiche continuarono a reiterarsi con ritmi incalzanti per tutto il Trecento e il loro impatto sulle dinamiche socioeconomiche fu così imponente da contribuire alla determinazione del concetto storiografico di “crisi del ‘300”.

Boccaccio, nel Decameron, narra del novellare di dieci giovani ritiratisi in campagna per sfuggire alla peste diffusasi a Firenze. Ritroviamo nel racconto i tòpos citati: «Avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati viveano»[9]. Boccaccio ironizza poi sui medici: «de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo»[10].

Le città si svuotano completamente e l’unico momento di pubblica condivisione dello spazio divengono le funzioni liturgiche, moltiplicatesi per il timore di quello che, agli occhi del fedele, appariva come un flagello divino contro il quale non si poteva far altro che pregare[11]. La perdita di familiari, l’imminenza della propria scomparsa e la riflessione sulla caducità della vita, le strade delle città riempite di cadaveri abbandonati per giorni perché non vi era nessuno disposto a raccoglierli, divennero immagini quotidiane portando i cristiani a modificare il loro immaginario sulla morte.

L’immagine della peste

Il rapporto fra arte ed epidemie è molto stretto, l’arte è un mezzo di racconto e di cronaca ma anche di esorcizzazione, i morbi sono fecondi e tra le tante ragioni la prima è la paura. «Il bisogno di addomesticare i mostri, la natura, l’inconoscibile, l’altro è il fondamento di tutta l’arte e la sua ragione di esistere. Rischiara il buio, trasforma in fiaba la malattia e il dolore»[8]. Così questi eventi hanno avuto un importante riflesso delle arti figurative portando alla nascita di varianti iconografiche.

Fino a quel momento aveva prevalso un’iconografia della morte meno terrificante di quella che si diffonderà nel 1300. Ovunque troviamo ora l’immagine del Tristo Mietitore, associata nella tradizione figurativa al propagarsi di morbi mortali e di epidemie.

Figura 1 – Giovanni di Paolo, Allegoria della peste, 1437, Berlino, Kunstgewerbemuseum, Staatliche Museen

Si tratta di una personificazione della morte e tra le diverse declinazioni di questa rappresentazione gode larga diffusione quella dello scheletro che brandisce una falce[12], a volte vestito di un saio nero o di una tunica scura con cappuccio. Né buono né malvagio, esso è un’entità neutra che può assumere forme maschili ma più spesso femminili, riprendendo la dea greca della morte, Thánatos[13], spietata messaggera di una volontà ineluttabile che tutti gli uomini rende uguali.[14] L’iconografia femminile associata alla figura del cavallo sembra derivare, inoltre, della descrizione dell’immagine di morte e distruzione descritta nell’Apocalisse di Giovanni: «E vidi: eco, un cavallo verde. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli inferi lo seguivano. Fu dato loro un potere sopra un quarto della terra, per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra» (Apocalisse 6,2), inizialmente rappresentata spesso anche con le fattezze di un pipistrello, come nell’Allegoria della Peste Nera (ca. 1437), oggi a Berlino, attribuita a Giovanni di Paolo (fig. 1).[15]

Figura 2 – Bartolo di Fredi, Trionfo della morte (particolare), 1360 ca., Lucignano, Chiesa di San Francesco

Si diffonde il tema del Trionfo della morte (fig. 2), di cui è esempio l’affresco realizzato da Bartolo di Fredi (1360 ca.) nella Chiesa di San Francesco a Lucignano, dove vediamo due giovani cacciare, ignari del sopraggiungere della Morte sul suo cavallo nero, la quale sta per scoccare un dardo mortale. La morte è ritratta come una donna anziana dal volto scavato, con capelli bianchi mossi dal vento, lunghe unghie ad artiglio, una falce che pende dalla cintura che lega la sua tunica nera, ed è rappresentata mentre proclama le sue volontà: «Io non bramo se non di spegner vita / e chi mi chiama le più volte schivo / giungendo spesso a chi mi torce il grifo».

Figura 3 – Scuola Senese, Trionfo della morte, 1368, Subiaco, Sacro Speco, Chiesa Inferiore

Analogo è il tema dell’affresco (fig. 3), risalente al 1368, nel Sacro Speco di Subiaco, dove, sulla parete della Scala Santa nella chiesa inferiore appare uno scheletro dai capelli al vento che galoppa un cavallo bianco travolgendo corpi morti tra i quali si riconoscono un religioso e un nobile. La Morte impugna una grande falce nella mano sinistra, mentre con la mano destra colpisce con una lunga spada uno dei due giovani spensierati intenti nella caccia, come dimostra il falco sulla mano del giovane. Più indietro, invece, un gruppo di poveri, vecchi e mendicanti chiede invano di morire.[16]

Figura 4 – Trionfo della morte, 1446 ca., Palermo, Palazzo Sclafani

Il celebre affresco, risalente agli anni Quaranta del Quattrocento, di autore ignoto, che originariamente si trovava nel cortile di Palazzo Sclafani a Palermo (fig. 4), ci mostra una trionfante cavalcata della morte, rappresentata qui come scheletro, che rende perfettamente l’immagine dell’epidemia che aveva colpito l’isola nel 1442 e che non risparmiava nessuno, colpendo incessantemente con dardi fatali. Sopravvissuto alla Seconda guerra mondiale, nel 1944 l’affresco venne riposizionato nella Galleria Nazionale di Palazzo Abatellis, attuale ubicazione. Gesualdo Bufalino descrisse così quel momento: “Fuggimmo, ce ne andammo senza meta, evademmo in tassì dal gomitolo di straducce, scansando, non si sa mai, quel che restava di Palazzo Sclafani, e l’affresco che parlava di noi, se era sopravvissuto alle bombe, con l’amazzone senza naso, armata di frecce, galoppante in trionfo su un’ecatombe d’illustri e d’oscuri”[17].https://www.palermoviva.it/il-trionfo-della-morte-di-palermo-un-capolavoro-avvolto-nel-mistero/

Figura 5 – Buonamico Buffalmacco, Trionfo della morte (particolare), 1336-1341, Pisa, Camposanto

Se il Trionfo della morte, tra cronaca e allegoria, attraversa tutta la storia dell’arte moderna, per arrivare infine alla Guernica dove, nel 1937, Picasso sembra riprendere questa iconografia nel cavallo centrale, nel corso del 1300 viene affiancato da iconografie relative al tema della danza macabra (fig. 5), danza di uomini e scheletri che verte sull’azione livellatrice della morte[18] e che finì per essere frequentemente riprodotta in chiese, abbazie e cimiteri.

Figura 6 – Buonamico Buffalmacco, Trionfo della morte (particolare), 1336-1341, Pisa, Camposanto

Questo tema è spesso associato all’incontro tra i tre vivi e i tre morti: tre giovani nobili, durante una battuta di caccia, si imbattono in tre scheletri che li avvertono sul comune e inevitabile destino: «Ciò che sarete voi, siamo noi adesso / chi si scorda di noi, si scorda di se stesso»[19], ammoniscono i cadaveri, in un memento mori che ricorrerà in eloquenti epigrafi. È un’immagine gravida di ironia sociale, volta a biasimare potere, onore e ricchezza, proclamando la natura fatua e la caducità della vita[20]. Tra i più celebri esempi ricordiamo l’affresco realizzato da Buffalmacco nel Camposanto di Pisa (fig. 6).

[1] Stefania Macioce, L’iconografia dell’Apocalisse: il “tristo mietitore” di Böcklin e le immagini del contagio nel corso dei secoli, About Art Online, Roma 2020.

[2] Lorenzo Argentieri, Il contagio: luoghi comuni ieri e oggi, Zanichelli, 3 marzo 2020.

[3] Francesco Alessandri, il Trattato della Peste, Et Febbri Pestilenti […], Torino 1586, p. 2.

[4] Stefania Macioce, L’iconografia dell’Apocalisse: il “tristo mietitore” di Böcklin e le immagini del contagio nel corso dei secoli, About Art Online, Roma 2020.

[5] Paolo Diacono, a cura di A. Zanella, Storia dei Longobardi, Rizzoli, Milano 1991.

[6] Procopio di Cesarea, a cura di M. Craveri, Le guerre: persiana, vandalica, gotica, Einaudi, Torino 1977.

[7] Lorenzo Argentieri, Il contagio: luoghi comuni ieri e oggi, Zanichelli, 3 marzo 2020.

[8] Eleonora Stancanelli, La Stampa, 25 febbraio 2020.

[9] Giovanni Boccaccio, Decamerone di M. Giovanni Boccaccio ripurgato con somma cura da ogni cosa nocevole al buon costume […], Parte prima, presso Tommaso Bettinelli, Venezia 1754, p. 27.

[10] Ivi, p. 25.

[11] Émile Mâle, L’arte religiosa nel ‘600: Italia, Francia, Spagna, Fiandra, Jaca Book 1984, p. 327.

[12]L’attrezzo agricolo che recide l’erba e il grano viene associato alla morte che recide la vita. In una civiltà in cui il grano è il nutrimento basilare la falciatura determina una fine, cioè il termine di una sequenza stagionale che inizia con la semina, prosegue con la fioritura e maturazione del frutto e culmina nel raccolto, ovvero la morte del frumento. Nel recidere la spiga la falciatura procura, dunque, la morte del grano e quindi l’esaurirsi di un ciclo naturale. (cfr. op. cit. S. Macioce).

[13] Stefania Macioce, L’iconografia dell’Apocalisse: il “tristo mietitore” di Böcklin e le immagini del contagio nel corso dei secoli, About Art Online, Roma 2020.

[14] ibid.

[15] ibid.

[16] Stefania Macioce, L’iconografia dell’Apocalisse: il “tristo mietitore” di Böcklin e le immagini del contagio nel corso dei secoli, About Art Online, Roma 2020.

[17] Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, 1981.

[18] Stefania Macioce, L’iconografia dell’Apocalisse: il “tristo mietitore” di Böcklin e le immagini del contagio nel corso dei secoli, About Art Online, Roma 2020.

[19] Cimitero di San Giovannino alla Paglia, Milano, visibile sull’odierna piazza Aquileia.

[20] Carmine Cassino, Epidemie e immaginario nell’occidente cristiano: alcuni appunti, ivl24, 6 marzo 2020.

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