“Ciao, io sono Wolf, tu chi fia sei?” E’ stata lui la prima persona che mi ha rivolto parola. Alto poco più di me, rosso di capelli e con una barba lunghissima. Puzzava di fumo di legna ma mi sorrideva così tanto che non ho potuto fare altro che sorridergli di rimando. “Wolf sta bòno, lei è la sorellina mia, Angelica”, gli rispose mio fratello. Iniziamo a chiacchierare e dieci minuti dopo, senza nemmeno accorgermene, la taverna si era riempita di persone, di un’età che andava dai 10 ai 60 anni. Non avrei mai immaginato che sarebbero diventati tutti la mia seconda famiglia.

L’inizio

Avevo appena compiuto 13 anni quando mio fratello decise di portarmi al Rione. Me lo ricordo come fosse ieri: era Settembre, tirava un fresco vento e l’odore dei fiori di Paolone rimbombava per tutto il piazzale. Mirko salutava tutti e io stavo nascosta dietro di lui, un po’ perché la mia altezza è relativamente bassa vicino a lui e un po’ perché era un’esperienza del tutto nuova, per me. Col passare dei minuti iniziavano ad arrivare sempre più persone e tutte, quasi tutte, mi salutavano come se mi conoscessero da sempre. Si avvicina un omone, con barba e capelli bianchi e con in mano un taccuino (sicuramente, chi del Rione leggerà questa descrizione sicuramente saprà già di chi sto parlando): Alfredo mi dice di chiamarsi e che se volevo iniziare a servire lì, lui sarebbe stato il mio riferimento; avrebbe segnato presenze e assenze al fine di ricevere il biglietto popolani per vedere la Giostra della Quintana al Campo de li Giochi e mi portò in sede perché dovevo procurarmi una gonna e una camicia da popolana, oltre che una penna. Poi mi portò all’ingresso, dove c’era (e tutt’ora c’è, siamo un po’ nostalgici noi) la cassa e mi fece dare un “blocchetto” per segnare le ordinazioni. Iniziò così la mia avventura all’interno del Rione Pugilli, tenendo in mano ciò che era più importante, il blocchetto, e con Alfredo che mi teneva la mano sulla spalla.

I giorni passavano e io mi ambientavo sempre di più. Iniziavo piano piano a ricordarmi i nomi e ad associarli ai visi. I ritmi erano ben scanditi dagli orari della taverna: la mattina i più grandi pulivano, perché noi più piccoli eravamo a scuola; il primo pomeriggio si iniziava a preparare per il servizio, si mangiava tutti insieme appena pronta la “pasta del popolano” e poi si iniziava a servire. Fino all’ultimo sabato. L’ultimo sabato era diverso, perché la sera c’era la sfilata e quindi la taverna si riempiva di Dame, impreziosite dall’oro dei vestiti e dalle pompose acconciature, e di Cavalieri. La gente correva da tutte le parti per sbrigare il servizio nella maniera più veloce possibile, perché tutti volevano andare a vedere la sfilata che passava davanti alla taverna e tutti volevano salutare il cavaliere che l’indomani avrebbe corso per vincere il desiato palio. Ragazzini che prendevano panche e le portavano lungo Via Corso Nuovo, dov’era il posto riservato ai popolani e io li osservavo, in silenzio, come se tutta quella parte non mi appartenesse ma una ragazza, ora non ricordo chi fosse, mi prese per mano e mi portò con loro. Cori e risate e urla e ancora cori nell’attesa della sfilata. Si sentivano i tamburi, in lontananza, che si avvicinavano a passo cadenzato e, da dietro la curva, eccoli con i loro abiti barocchi venire verso di noi. Era emozionante vedere gli sbandieratori e i tamburini che suonavano un pezzo solo per noi. Sì, noi, quella sera mi sono sentita per la prima volta una popolana anche io.

L’ultima vittoria

“E’ partito il Moro del rione Pugilli Pierluigi Chicchini” urlò lo speaker. Tutto il Campo de li Giochi calò in un silenzio tombale. Lo stesso Campo de li Giochi che fino a due secondi prima era carico di urla e cori. L’unico rumore che si sentiva erano gli zoccoli del cavallo che calpestavano la pista di terra battuta. Alcuni popolani del rione si apprestavano a fare scongiuri, altri che si giravano per non guardare: piccoli riti al sapore d’ansia. Prima curva superata e poi il rettilineo davanti al popolo. Curva figuranti superata, il cavaliere prende la mira e prende il primo anello. Girano il Dio Marte dall’altra parte, verso l’altra curva e mettono l’anello sulle sue dita. Nel frattempo il cavaliere continua la corsa con il suo destriero. Di nuovo mira con la lancia all’anello e lo prende. Di nuovo il Dio Marte viene girato, di nuovo gli viene poggiato l’anello. Ancora il cavaliere mira e va a segno. Superata l’ultima bandierina che avrebbe potuto compromettere la giostra perfetta, il popolo dell’Aquila nera, il popolo del rione Pugilli, inizia ad urlare “dajeeeeee, dajeeeeee”. E’ finita, il cavaliere ha corso la sua terza tornata su tre. Una Quintana perfetta. “Per il Moro del rione Pugilli Pierluigi Chicchini: penalità zero; punti 90; tempo: cinquantaquattro secondi, sessantuno centesimi; per un totale di due, quaranta e undici”. I ragazzi della scuderia corrono incontro al cavaliere e lo abbracciano. Aveva vinto. Appena lo speaker annuncia la vittoria tutto il popolo si riversa nel campo, come un fiume in piena. Un fiume bianco e nero. Io ero lì, sull’ultimo gradino della gradinata a piangere, abbracciata alla mia migliore amica. Piangevamo perché era finita e avevamo vinto. Il palio era finalmente nostro. Ci guardiamo e corriamo anche noi giù, ad abbracciare tutti insieme il cavaliere vittorioso.

Sono passati 14 anni dal giorno in cui sono entrata per la prima volta al Rione. Non c’è più Alfredo che mi tiene la mano sulla spalla, del blocchetto ormai non ne sono più così gelosi i ragazzi ma è rimasto tutto il resto: Paolone con i suoi fiori e “non me toccate il gelsomino che me se secca!”; Wolf con la barba un po’ più corta che ora però è alto quanto me. Io e la mia migliore amica ancora insieme, ogni volta, per condividere gioie e delusioni. Tante persone, in questi anni, sono arrivate e tante sono andate via. Tanti sono gli amori nati all’interno della taverna e tanti ne sono finiti. Tante sono le litigate e altrettante sono le volte in cui ci si siede insieme, con un bicchiere di vino, e si chiacchiera fino all’alba. Concludo dicendo una frase che Laj, il nostro Nicolò, dice sempre: “SIAMO UN GRAN POPOLO”.

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