Nessuno ne è immune, dalla sua affermazione negli anni ’90, la Fast Fashion è entrata negli armadi di ognuno di noi: capi a basso prezzo, sempre al passo con la moda, ma a pagarne le spese sono ancora una volta ambiente e lavoratori

Fast fashion: cosa è e quando nasce

È il 1989 quando a New York apre il primo negozio Zara, marchio di punta della famiglia Ortega, che comprende i brand più diffusi della nostra generazione. I giornali statunitensi salutarono la nuova apertura spagnola proprio coniando il termine “Fast Fashion”, andando ad inaugurare un nuovo modo di intendere la moda: prezzi popolari per capi di medio-bassa qualità ma sempre al passo con le tendenze del momento. Tale fenomeno affonda in realtà le sue radici nella Rivoluzione Industriale, ma ha toccato il suo apice tra gli anni ’90 e i primi 2000, quando le case produttrici hanno potuto esportare i propri negozi in tutto il mondo, dall’Europa alle Americhe, fino alle grandi capitali arabe. Gli acquisti di capi di abbigliamento negli ultimi decenni hanno conosciuto una crescita esponenziale, nel 2014 erano aumentati del 60% rispetto al 2000. In molti hanno salutato la Fast Fashion come la fase di avvio per una democratizzazione della moda, un modo per abbattere quelle differenze di stile determinate dallo status quo. Ma la realtà è ben lungi dalla fantasia: dietro ai prezzi modici si nascondono infatti un profondo impatto ambientale e un intenso sfruttamento dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo, dove i diversi brand stringono contratti d’appalto con fabbriche tessili locali. I prodotti della moda a basso costo sono infatti il risultato di una combinazione che di democratico ha ben poco: vengono scelti tessuti sintetici d i bassa qualità, spesso composti da derivati del petrolio, impegnativi da produrre e difficili da smaltire, e lavorati grazie allo sfruttamento di lavoratori sottopagati, spesso donne e bambini a cui non vengono riconosciute le dovute tutele sindacali.

 Impatto ambientale 

Secondo il report del 2018 del Nature Reviews Earth and Environment l’industria della moda è il secondo settore più inquinante dopo quello del trasporto aereo, andando a incidere in particolar modo sulle risorse idriche ed elettriche. Ogni anno emette più di un miliardo di tonnellate di gas serra, secondo il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico  il settore della moda è responsabile dell’10% delle emissioni totali. Stando invece al rapporto del 2020 “Global Fashion: Green is the new black”, per produrre una maglietta servono circa 2.7 mila litri di acqua, la quantità media bevuta da una persona in quasi 3 anni. Per un paio di jeans ne servono invece 7mila. Una maglietta di cotone emette circa 2,2 kg di CO2, mentre una t-shirt in acrilico o altri materiali plastici produce circa 5 kg di CO2. La fiera tessile consuma oltre il 20% di acqua disponibile. Dannosi per il pianeta sono anche tutti gli agenti chimici rilasciati nelle acque, in particolar durante la fase della tintura, si ricorre spesso infatti all’uso di pesticidi, di formaldeide e altre sostanze tossiche che vengono scaricate nei corsi d’acqua locali, andando ad impattare sulla salute degli abitanti e sull’ecosistema circostante. L’industria della moda è responsabile del 35% della microplastica primaria presente negli oceani, rilasciata prevalentemente dai lavaggi dei capi di vestiario in materiale sintetico come acrilico e poliestere, tipiche componenti di jeans o leggins. Per non parlare dell’alto tasso di emissioni dovuto dal trasporto sempre più rapido delle merci e dallo smaltimento dei rifiuti. Ogni anno vengono bruciati o portati nelle discariche circa 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili. Vestiti che le case di produzione preferiscono bruciare, piuttosto che vendere a un prezzo ribassato per non svalutare ulteriormente il marchio.

Sfruttamento lavoratori

I media hanno cominciato a far luce sulle ingiustizie sociali legate all’industria della fast fashion dopo il crollo della fabbrica Rana Plaza in Bangladesh, dove nel 2013 morirono oltre mille dipendenti e rimasero ferite più di 2.5mila persone. I lavoratori del Rana Plaza erano costretti a lavorare ininterrottamente giorno e notte in condizioni estreme in un edificio pericolante. Nonostante le diverse segnalazioni dei dipendenti, i dirigenti fecero continuare a lavorare gli operai dietro la minaccia di perdere il posto di lavoro. Il rischio che correvano i proprietari della fabbrica era quello di perdere i contratti di lavoro con le grandi catene della Fast Fashion, e di conseguenza i loro introiti economici, spesso con la complicità dei loro stessi governi e istituzioni. All’interno dell’edificio venivano prodotti abiti per 29 dei marchi di moda più diffusi al mondo. Anche dopo la visibilità mediatica dell’evento, senza sorpresa, gli sfruttamenti nel settore della moda non hanno cessato di essere la regola: salari sottostimati, turni interminabili, condizioni di lavoro pessime e tutele sindacali nulle. Famosi anche gli episodi denunciati da clienti che hanno ritrovato all’interno degli stessi vestiti delle richieste d’aiuto o dei biglietti lasciati dagli operai.  Secondo il Ministero del Lavoro negli Stati Uniti risultano prove di lavoro forzato e di lavoro minorile nell’industria della moda in Argentina, Bangladesh, Brasile, Cina, India, Indonesia, Filippine, Turchia e Vietnam. H&M, Forever 21, GAP e Zara sono alcuni tra i marchi più conosciuti che sono stati coinvolti in questi scandali. Si tratta quindi di aziende parassite del tessuto economico e sociale dei paesi in cui hanno delocalizzato le proprie fabbriche, con nessuna intenzione di portare incentivi per lo sviluppo umano delle comunità locali in cui vanno a inserirsi.

Alternative possibili

Vestiti alla moda, di qualità media e spesso disponibili con un click sono un’attrazione non da poco, soprattutto all’interno di una società che affida la soluzione dei nostri problemi a un consumo sfrenato e immotivato, solo per vivere nell’illusione di essere sempre al nostro massimo. Tuttavia, negli ultimi anni la preoccupazione per gli effetti del cambiamento climatico è aumentata, e sono in molti i consumatori che hanno deciso di indirizzare le loro spese verso delle scelte più ecosostenibili. Così anche le stesse case di moda produttrici cercano di percorre strade alternative scegliendo tessuti organici, riciclando e cambiando leggermente i sistemi di produzione, anche se ancora in misura non sufficiente. Sono molti i brand che purtroppo strizzano l’occhio al greenwashing, dichiarando il falso attraverso le loro azioni di marketing. Tutto tace invece nei confronti del miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Aumenta anche il mercato di vestiti di seconda mano, che inizia a spopolare anche grazie al supporto di app in cui gli utenti possono scambiare, vendere o comprare i loro stessi abiti che non usano più. Le alternative sono possibili, anche se più complicate, e le scelte dei singoli per quanto importanti non potranno arginare il problema quanto invece potrebbe una svolta etica e responsabile da parte delle aziende, magari con incentivi governativi. Il pacchetto per l’economia circolare adottato dall’UE nel 2018, ha richiesto per la prima volta agli stati membri di raccogliere i rifiuti tessili separandoli dagli altri rifiuti, entro il 2025. Mentre, la direttiva discariche sebbene non rivolta esplicitamente all’industria dell’abbigliamento, richiede agli stati membri di ridurre del 10%, entro il 2035, il quantitativo di rifiuti destinati alle discariche municipali. Nel nostro piccolo ciò che però dobbiamo sempre ricordarci di fare ogni volta che decidiamo di fare shopping è chiederci: “ne ho davvero bisogno?”, così da limitare gli acquisti, il consumo e l’accumulazione di capi che butteremo quando saranno passati di moda. Ciò che grava poco sulle nostre tasche, pesa invece profondamente sulla salute del pianeta e sulla giustizia sociale.

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