INpressMAGAZINE Claudio Palazzi

Intervista di Alessia Mocci a Gigliola Biagini, autrice del libro Figlie minori del secolo breve

“[…] Dovevamo fidarci, eravamo analfabeti. E la società dei ricchi ci teneva alquanto che restassimo ignoranti. E non solo quello. Faceva in modo che non venisse mai meno e per nessun motivo il nostro senso d’inferiorità.  Appena meno stupidi delle bestie che allevavamo, ecco come voleva che ci sentissimo. Noi figli minori dell’umanità. Destinati  ai margini, alle briciole di un universo che ci ospitava. Ogni tentativo di ribellione era subito sedato. […]”

Nel 2009 pubblica “Profumo dell’anima”, nel 2010 “Come ombre librate dalla luce”, nel 2012 “Nessuno dei vostri baci è caduto per terra” ed oggi la troviamo in libreria con “Figlie minori del secolo breve” edito dalla casa editrice Rupe Mutevole Edizioni per la collana editoriale “Trasfigurazioni”.

Gigliola Biagini è un’autrice che sin dal primo libro ha sottolineato l’importanza di essere Donna e di scrivere emozioni, storie, sentimenti per le donne. Una grande passione, non solo letteraria, spinge Gigliola ad interessarsi di storie reali di donne in difficoltà che cercano di vivere la vita secondo i loro desideri, una grande difficoltà di molte donne ancora oggi nel Mondo.

Gigliola Biagini è stata molto disponibile nel raccontarci qualcosa in più della sua passione e della sua nuova pubblicazione. Buona lettura!

 

A.M.: Ciao Gigliola, l’ultima volta che ci siamo sentite era il 2011 e ti intervistavo per l’uscita della tua seconda pubblicazione “Come ombre liberate dalla luce”. Dal 2011 ad oggi, di sicuro, la tua strada si sarà ramificata mutando anche il tuo modus scribendi. In che cosa ti senti cambiata?

Gigliola Biagini: Sono cambiata come cambia ogni essere vivente e non con il trascorrere del tempo, dire come e quanto mi è difficile. È una crescita continua. Siamo materia plastica modellata dagli eventi. Per quanto riguarda la scrittura, ogni storia che racconto è una nuova avventura. Il modo e lo stile narrativo si adattano  alla trama ed ai personaggi. Nel mio terzo libro “Nessuno dei vostri baci è caduto per terra”, edito da Rupe Mutevole nel 2012, racconto tre storie d’amore e disamore e la vita di un giovane migrante tunisino che si trova a lavorare ed a vivere un importante rapporto sentimentale in Italia. Ho dovuto calarmi nei suoi panni, interpretare i suoi pensieri, le sue difficoltà, i suoi drammi e le sue ambizioni. Mi è piaciuto, è stato un lavoro interessante. Sperimentare è stimolante per chi come me scrive essenzialmente per pura passione.

 

A.M.: È in uscita “Figlie minori del secolo breve”, un titolo carismatico. Come nasce l’idea di questa pubblicazione?

Gigliola Biagini: Questa è una storia che “mi è venuta a cercare”. In una casa di riposo ho conisciuto Lidia una vispa ultraottantenne che ha tanta voglia di raccontarsi e mi parla di un quaderno dove ha riassunto la storia della vita della madre. Quando viene a sapere che io scrivo, insiste perché legga questi appunti. Tra quelle righe trovo un  tesoro umano di grande valore. Con il suo consenso ho deciso di  farne un romanzo affinché quella ricchezza non andasse perduta nell’oblio. È la storia di tre giovani contadine del ‘900 italiano. Povere, umiliate, con le spalle piegate dal duro lavoro e l’anima offesa da tante amarezze. Soffrono in silenzio attraversando tutti gli eventi principali del secolo: l’aspra condizione della mezzadria, le due guerre, il fascismo e la grettezza della morale contadina che annulla ogni slancio vitale dei loro giovani cuori. Ecco perché le ho definite “figlie minori”, le più piccole, le più ignorate, riscattate però dalla forza e dalla determinazione con cui affrontano le varie vicissitudini.

 

A.M.: Tre donne parlano attraverso la tua bocca.

Gigliola Biagini: Loreta (voce narrante), Angela e Maria raccontano la loro vita. Sono cugine, amiche, confidenti. Formano una piccola squadra solidale. In quei tempi durissimi, i contadini vivevano una condizione di semi-schiavitù. Essere contadina e donna era un’ulteriore condanna. Lavoravano come gli uomini, ma le loro ossa più tenere e la loro sensibilità d’animo subivano maggiori contraccolpi rispetto ai loro compagni. Questo libro racconta tutto ciò proprio da un punto di vista femminile.

 

A.M.: Quali sono le tematiche portanti di “Figlie minori del secolo breve”?

Gigliola Biagini: Se questo libro si prefiggesse uno scopo sarebbe quello di parlare alle giovani donne di oggi. Dire loro che le possibilità che hanno sono frutto di un lavoro fatto sulla propria pelle dalle loro ave. Non devono scordarlo e soprattutto non perdere di vista, nella corsa per i propri obbiettivi, di quelle caratteristiche che ci rendono non uguali agli uomini ma anche altro da loro.

 

A.M.: Ti senti una scrittrice del terzo millennio? Come ti trovi con internet ed i social network?

Gigliola Biagini: Sono grandi mezzi di comunicazione che se usati bene offrono l’occasione, con una semplicità e una comodità senza pari  di allargare gli orizzonti della mente. Personalmente ho un felice rapporto con questi strumenti. Sono curiosa di natura e ho sempre voglia di imparare cose nuove. Preferisco Facebook a tutti gli altri social. Offre l’opportunità, al di là dei semplici post, di conoscere il pensiero delle persone con cui ti relazioni. Non credo che siano forme di relazioni sterili come molti sostengono. Gran parte di quello che sei, se hai il coraggio di mostrarti, passa anche da dietro lo schermo del pc. D’altronde la falsità e l’ipocrisia sono presenti anche nei rapporti vis a vis.

 

A.M.: Ricordo che sei molto sensibile alla tematica Donna. Come vedi questo nuovo secolo nel quale, per lo meno in occidente, le donne possono ambire a qualsiasi carica e lavoro?

Gigliola Biagini: La donna si è emancipata molto, questa è una realtà di fatto, ma certi pregiudizi nei confronti del femminile sono dure a morire. Spesso per raggiungere degli obiettivi importanti ancora oggi è costretta a fare delle rinunce, sacrificare la vita privata, e qualche volta la maternità. Secondo me siamo sulla buona strada, se non perdiamo però la nostra vera essenza che come ho detto prima ci rende non uguali ma altro dai nostri compagni maschi. Forse varrebbe la pena puntare proprio sulle diversità e costituire delle lobby come hanno fatto altre categorie di minoranza (gli omosessuali per esempio). Seppure il termine lobby può suonare un tantino sinistro, le donne devono ancora imparare tanto su come costruire una squadra di solidarietà e sostegno. Riguardo al femminicidio, fenomeno in espansione, ritengo che sia proprio l’isolamento della donna a favorirlo. Nuclei familiari sempre più esigui, uno stile di vita che lascia poco tempo per le relazioni umani extra familiari  creano spesso condizioni d’impossibilità a condividere con altre donne, amiche, sorelle… i propri drammi esistenziali. L’isolamento rende le donne  vulnerabili e facili prede dell’odio maschile.

 

A.M.: Qual è l’ultimo libro che hai letto? E l’ultimo film che hai visto?

Gigliola Biagini: L’ultimo libro che ho letto è “L’angioletto” di George Simenon nella nuova riedizione delle opere di questo autore dalla prosa sciolta ed accattivante seppure non proprio modernissimo. Ma la modernità è un concetto che ha molte sfumature. Ultimamente non vado spesso al cinema e l’ultimo bellissimo film che ho visto è “La grande Bellezza” di Sorrentino. Ho riscoperto invece il piacere di andare a teatro che mi regala molte più emozioni.

 

A.M.: Come ti trovi con la casa editrice Rupe Mutevole Edizioni? La consiglieresti?

Gigliola Biagini: Questo è il terzo libro che pubblico con Rupe Mutevole. Durante questi anni, nonostante le gravi difficoltà dell’editoriaitaliana, trovo che sia molto cresciuta in esperienza ed in qualità. La consiglio senza dubbio.

 

A.M.: Ci saranno delle future presentazioni del libro? Sotto Natale?

Gigliola Biagini: Non ho ancora organizzato nulla a riguardo ma spero di darvene presto notizia.

 

A.M.: Salutaci con una citazione…

Gigliola Biagini: Proprio in questi giorni ho trovato una citazione molto bella che sintetizza bene il travaglio dell’emancipazione femminile e anche questa assurda ondata di odio che è l’origine del fenomeno femminicidio:

“Mi hanno sepolto,

ma quello che non sapevano,

è che io sono un seme.”

Mujer Arbol

 

Per pubblicare con Rupe Mutevole Edizioni invia un’e-mail (info@rupemutevole.it) alla redazione inviando il tuo inedito, se vuoi pubblicare nella collana “Trasfigurazioni” con la collaborazione di Oubliette Magazine invia ad: alessia.mocci@hotmail.it

 

Written by Alessia Mocci

Addetta stampa (alessia.mocci@hotmail.it)

 

Info

http://www.rupemutevoleedizioni.com/

https://www.facebook.com/RupeMutevole

http://www.rupemutevoleedizioni.com/letteratura/novita/figlie-minori-del-secolo-breve-di-gigliola-biagini.html

 

Fonte

http://oubliettemagazine.com/2014/12/01/intervista-di-alessia-mocci-a-gigliola-biagini-autrice-del-libro-figlie-minori-del-secolo-breve/

 

Due giorni, una notte. Il nuovo film dei fratelli Dardenne.

Due giorni, una notte.Una ventina di persone in sala. Una delle pochissime sale di Roma a proiettare questo film uscito il 13 novembre.
Due giorni e una notte è il tempo che Sandra (Marion Cottillard) ha per dimostrare di essersi ripresa e aver superato la depressione. Ma quando è pronta per riprendere in mano le redini della sua vita le carte in tavola sono cambiate. La ditta di pannelli solari, la Solwal, per la quale Sandra lavora, attraversa un periodo di crisi dovuto alla concorrenza asiatica. Dumont (Baptiste Somin), capo della ditta, indice allora una votazione. I dipendenti devono scegliere tra un bonus di 1000 euro o il licenziamento della nostra protagonista.

Considerata, soprattutto dal temutissimo capo reparto, Jean-Marc (Olivier Gourmet), l’ingranaggio a cui la “catena di montaggio” può tranquillamente rinunciare. 14/16 dipendenti hanno votato pro-bonus. Ma la partita ancora non è finita. Sandra incoraggiata dall’amica Juliette (Catherine Salée) e dal marito Manu (Fabrizio Rongione), chiede al capo della ditta di far ripetere le votazioni che sarebbero state pilotate dal capo reparto a svantaggio della protagonista. Non può rinunciare al suo salario, ha due figli e non ha intenzione di ritornare nelle case popolari.

Sandra deve convincere la maggioranza a votare per lei non per i soldi. Bussa ad ogni porta, suona ad ogni citofono per conquistare un sì. Qualche pillola di Xanax di troppo, sbalzi d’umore, stati d’animo altalenanti. Sandra è presa continuamente dal senso di colpa di star togliendo qualcosa agli altri. Quegli altri che nascondono dietro le loro porte meschinità e fragilità. La protagonista rende visibili le sue debolezze e involontariamente quelle degli altri. Eppure è Sandra quella considerata malata, depressa.

Un film che parla dei rapporti umani, di quella umanità e solidarietà che vanno sempre più scemando, eppure ci lascia un barlume di speranza: credere ancora nel prossimo ma soprattutto credere in noi stessi e nei nostri mezzi.

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I visionari “Big Eyes” di Tim Burton

Immaginate di essere dei pittori di grande talento. Immaginate di essere seduti davanti a una tela vuota mentre, passata dopo passata, date sfogo alla vostra fantasia. Rappresentate la vostra anima, il vostro essere e pensate che all’ improvviso qualcuno decida di strapparveli via, sostituendo ai vostri occhi il proprio nome. Soprattutto immaginate la delusione, la frustrazione, dal momento che quel qualcuno non è uno qualsiasi, ma l’uomo che avete accanto.
Ora proiettatevi in una sala cinematografica. Questa che vi ho appena accennato è la storia a cui potrete assistere nei cinema italiani a partire dal primo Gennaio 2015.

Uno dei più grandi registi americani, Tim Burton, sicuramente re per eclettismo e singolarità, ha deciso di portare alla luce la storia della pittrice Margaret Keane nata nel 1927 nel Tennessee, i cui particolari lavori rappresentano personaggi con enormi ipnotici occhi che catturano tutta l’attenzione dello spettatore.
Durante gli anni 60 suo marito, Walter Keane, si spacciava per il vero autore delle opere che nel frattempo avevano raggiunto un enorme successo.
Solo nel 1970 Margaret riuscì a rivendicare i suoi diritti, svelando l’inganno.

Ad interpretare i protagonisti di Big Eyes, gli attori Amy Adams e Christoph Waltz.  Il genere è biografico/drammatico edil film è distribuito in Italia dalla Lucky Red con una durata di 106 minuti. Prodotto in America, la lingua originale è l’inglese. La colonna sonora è opera del “sinonimo musicale” di Tim Burton, ovvero il grande compositore Danny Elfman, di cui abbiamo già potuto ascoltare le meravigliose melodie in molti altri film.

Quale stile migliore e più adatto a rappresentare questa trama se non quello di Tim Burton? Con alle spalle numerosi capolavori, tra i quali Edward Mani di Forbice, Il Mistero di Sleepy Hollow, Alice in Wonderland e il più recente Frankenweenie, egli è definibile il regista del cinema bizzarro, dei personaggi scomodi, dell’oltre realtà.

I personaggi di Tim Burton traggono la forza da una caratteristica particolare, quale la propria diversità, risultando alla fine vincenti grazie alla spontaneità degli atteggiamenti, i quali, benchè strani, risultano autentici e per questo piacevoli. Rifuggendo la banalità, Burton vede nelle storie di vita quotidiana qualcosa che va al di là della superficie visibile, e ne crea mondi nuovi, in cui il gotico e l’ironico si tengono per mano.

Aspettiamo quindi con ansia che ci mostri cosa il suo sguardo ha percepito in quei Grandi Occhi.

QUALCHE ORA IN “COMPAGNIA” DI HENRI CARTIER-BRESSON

Martigues 1932Pareti bianche, luci non molto forti, pavimento di marmo color cipria. Una professoressa cerca di tranquillizzare giovani studenti di un liceo linguistico, un bambino già stanco sbuffa seduto su una panca posta al centro della sala. Gli occhi però, sono attirati da tutte quelle cornici scure appese al muro che contengono foto rigorosamente in bianco e nero. Sul muro leggiamo: “Attraverso oltre 400 tra fotografie, disegni, dipinti, film e documenti […]”; sono le parole di Clément Chéroux, curatore della mostra su Henri Cartier-Bresson. Le opere esposte all’Ara Pacis, Roma, dal 26 settembre 2014 al 25 gennaio 2015, a dieci anni dalla scomparsa del fotografo.

La grande bravura di Henri Cartier-Bresson sta nel cogliere l’attimo e riuscire a realizzare la sua intenzione senza chiedere, a quelli che poi divengono gli ignari protagonisti delle sue foto, di assumere pose plastiche. Il più grande esempio di questo carpe diem è la famosa foto “Dietro la stazione Saint-Lazare” scattata a Parigi nel 1932. La foto ritrae il momento esatto in cui un passante sta per mettere il piede sulla strada allagata. Cartier-Bresson riesce a scattare la foto prima della “catastrofe” e il passante viene così immortalato in una posa che richiama quella del poster alle sue spalle raffigurante una ballerina mentre esegue un passo di danza. Rivediamo in questo scatto la passione per il movimento condivisa da tutti i surrealisti come nella famosa foto di Man Ray della ballerina di flamenco del 1934 che compare anche sulla rivista Miniature. Questa rivista è presente alla mostra in una teca e sulla pagina accanto alla foto di Man Ray è possibile anche leggere l’articolo di Andrè Breton “La beauté sera convulsive”. Ed è sempre ad Andrè Breton e Man Ray che Cartier-Bresson si ispira nelle sue foto che ritraggono volti coperti o corpi avvolti da lenzuola che vogliono suscitare curiosità ed erotismo in chi li osserva, come nello scatto spagnolo del 1933 dal titolo “Caro Breton questo panno è affar suo […]”.

Un’opera che lo collega ai surrealisti è il “magico circostanziale”. Come spiega la dicitura sul muro si intende il caso, un incontro casuale. A testimonianza di ciò la foto scattata a Livorno nel 1933 “Testa a nodo”, che ritrae un uomo intento a leggere mentre una folata di vento gli fa volare il nodo della tenda in faccia che prende così il posto della testa del lettore.
Altro elemento surrealista sono i tanti scatti alle persone che sembrano “sognatori diurni” come la foto del 1933 a Barrio Chino, Barcellona. Un venditore assopito ha al muro alle sue spalle un disegno che potrebbe rappresentare il sogno che sta facendo o la sua caricatura.

Ma in Cartier-Bresson non c’era solo un’attenzione al surreale. Nel catalogo della mostra edito da Contrasto, commissionato dal Centro Pompidou, leggiamo: “Le sue posizioni politiche sono molto vicine a quelle dei comunisti: anticolonialismo, sostegno dei repubblicani spagnoli e lotta contro l’ascesa del fascismo”.
Un’intera parete alla mostra è dedicata alle sue foto ritraenti la povertà, un uomo sul marciapiede di spalle e una donna in piedi che lo osserva; un uomo per strada che tiene in braccio un bambino, Madrid 1933. Sulla parete opposta, quasi per ironia, le foto dell’incoronazione di Giorgio VI a Londra, dove nel 1937 Bresson si reca in veste di inviato per Ce soir, quotidiano comunista. Eppure in questi scatti il fotografo piuttosto che immortalare il regale evento, punta il suo obiettivo sulla folla intenta ad guardare ciò che accade.
La sua firma all’anticolonialismo è rappresentata dalla foto scattata a Martigues nel 1932, dove vediamo la statua in bronzo raffigurante un bambino appoggiato al monumento dedicato al Primo Governatore francese dell’Indocina. Cartier-Bresson riesce a comporre una sorta di collage tra la figura del bambino in primo piano e la testa del cavallo legato al carretto alle spalle della statua, così da far sembrare che il bambino stia urinando sul monumento.

Tra le tante foto interessanti alla mostra, ci sono anche quelle che Cartier-Bresson fece dal 1936 sul settimanale francese Regards. Il settimanale istituì un concorso. Compariva sulla prima pagina una foto di un bambino, ogni volta diverso, della periferia francese. La didascalia delle foto, che recavano sempre lo stesso titolo “Il mistero del bambino scomparso”, invitava i genitori qualora avessero riconosciuto loro figlio, di presentarsi presso la redazione per ritirare un premio in denaro. Scopo del giornale era, oltre quello pubblicitario, anche di dimostrare l’interesse verso le famiglie bisognose e gli abitanti della periferia parigina.
L’illustre fotografo fu anche assistente del regista Jean Renoir. In uno dei filmati presenti all’Ara Pacis sullo sfondo, prima dell’inizio della ripresa leggiamo “Una partie de champagne” 1936, in cui Cartier-Bresson fa la comparsa. Veste i panni di un giovane prete che si distrae guardando delle ragazze che vanno sull’altalena e viene così redarguito da uno dei preti più anziani con cui sta passeggiando.
Per restare in tema di pellicole, all’Ara Pacis è presente anche un estratto del suo film del 1936 sulla Guerra di Spagna “Victorie de la vie”.
Ma tornando ai negativi, tra le foto più toccanti ce ne sono nove. Tutte in sequenza, dalla didascalia leggiamo “In un campo di profughi una collaborazionista viene riconosciuta dalla donna che aveva denunciato” 1945 Dessau, Germania. Le foto rappresentano un solo attimo, quello della donna denunciata che schiaffeggia la collaborazionista. Nonostante le foto siano ben nove, nella mente restano unite come se fossero un unico scatto che ci racconta l’intera vicenda.
Nel 1947 fonda l’agenzia Magnum Photos e questo sancisce anche l’inizio del vero e proprio impegno di fotografo soprattutto verso il genere del reportage. Dal 1946 fino agli anni 70, per volere delle riviste per cui lavorava, Cartier-Bresson comincia a fare scatti a colore, sebbene lui amasse e preferisse il bianco e nero. Una teca mette in mostra le sue foto a colori sulle riviste Illustrated e Life. Ed è proprio per Life che nel 1948 Bresson va in India ed assiste e fa scatti durante il funerale di Gandhi.
Nel 1954 si reca in URSS, dopo la morte di Stalin, e fotografa la vita quotidiana dei russi. Nel 1957 fotografa la “Sei giorni”, celebre gara ciclistica.
Sempre per la rivista Life, nel 1963 è a Cuba, quando Castro è al potere durante la Crisi dei Missili.
Nel 1968 fa un vero e proprio reportage della Francia, alla mostra è esposta questa stupenda foto, scattata a Brie nel medesimo anno, con fitti alberi che fanno ombra sulla strada quasi a formare un passage.

Arriviamo così agli anni Settanta, quando il fotografo depone la sua “arma” per riprenderne un’altra, la matita. Ricomincia infatti a disegnare e tanti sono i suoi autoritratti, ma non solo, che lo testimoniano. Una foto, questa volta non scattata da lui ma a lui dalla sua seconda moglie e membro anch’ella della Magnum Photos, Martine Franck, che immortala Cartier-Bresson intento a mirarsi allo specchio per poi disegnarsi.

Henri Cartier-Bresson, artista poliedrico, pittore, fotografo e in età avanzata disegnatore, quasi un ritorno alle origini. Nonostante ciò, è conosciuto ai più come uno dei più grandi fotografi del XX secolo. Proprio lui che non desiderava altro che dipingere, infatti frequentò l’Accademia di André Lhote. Eppure nel 1929 inizia la sua carriera fotografica, spinto dall’ammirazione per il fotografo surrealista Eugène Atget, morto nel 1927, le sue prime foto ritraggono vetrine con manichini e insegne di vecchi negozi. In molti scatti di questo periodo è visibile, volutamente, il riflesso sulle vetrine del cavalletto della sua macchina fotografica, proprio come faceva Atget. Ma è più precisamente di ritorno dall’Africa nel 1930 che Cartier-Bresson prende atto pienamente della sua volontà di divenire fotografo. In Africa, infatti, a differenza di altri occidentali, preferisce fotografare bambini intenti a giocare o uomini che lavorano.

Un attimo di distrazione. I ragazzi del liceo seguono adesso silenziosi ed ordinatamente la guida, un signore fingendosi indifferente li segue in disparte per ascoltare anche lui la spiegazione.
Dopo l’Africa e la presa di coscienza, Cartier-Bresson viaggiò moltissimo, Francia, Italia, Ungheria. Tipiche di questo periodo le foto che si ispirano alla “Nuova Visione” che una scritta posta su una delle pareti spiega essere una corrente nata dal Costruttivismo russo. Le foto di questo periodo sono scattate dall’alto o dal basso, si perdono i punti di riferimento. L’attenzione alle figure geometriche ereditata dal periodo all’Accademia di Lhote. Nessuna figura umana è in posa, Cartier-Bresson coglie l’attimo in cui figura geometrica e figura umana si fondono in quel momento che lui stesso chiama “coalizione istantanea”. Tutto questo è visibile nella foto che porta la didascalia “Madrid – Spagna 1933”. Un passante con cappello viene immortalato proprio mentre cammina davanti a un cerchio disegnato su dei pannelli alle sue spalle.

Impossibile riuscire a parlare in modo esaustivo di tutti i percorsi di vita o di tutte le opere di questo grandissimo Artista, senza dubbio l’unico modo per saperne di più è andare alla mostra e trascorrere qualche ora in compagnia di Henri Cartier-Bresson.