Chi vincerà in Medio Oriente?
Dal 1979, anno della rivoluzione iraniana, Arabia Saudita e Iran si contendono il ruolo di stato guida in Medio Oriente sfidandosi negli scontri che da decenni insanguinano la regione. Le due potenze si affrontano anche in campo religioso, gli iraniani sono sciiti mentre i sauditi sono sunniti e le due principali correnti dell’Islam comprendono rispettivamente il 15% e l’85% dei musulmani. Negli ultimi anni l’Iran è arrivato ad avere una sfera d’influenza che va dall’Iraq al Libano e continua a guadagnare terreno conflitto dopo conflitto. Resta da vedere se i sauditi accetteranno la sconfitta pacificamente e, in caso contrario, cosa saranno disposti a fare per ribaltare una situazione assai sfavorevole. Il principe ereditario Mohammad bin Salman rischierà uno scontro frontale con Teheran?
Nel 2014 nello Yemen è esplosa una guerra civile che vede schierati i ribelli Houthi, un gruppo armato sciita appoggiato dall’Iran tramite l’Hezbollah, contro le forze governative locali spalleggiate dall’Arabia Saudita. Lo Yemen è una pedina importante nello scacchiere mediorientale poiché è strategicamente collocato all’imbocco di Bab al-Mandab, stretto da cui passa il 40% delle forniture mondiali di petrolio.
Il 4 novembre le forze armate saudite hanno intercettato e poi abbattuto, nei pressi dell’aeroporto della capitale, un missile balistico lanciato dai ribelli Houthi che secondo fonti ufficiali non ha causato danni né feriti. Non è la prima volta che i ribelli lancialo un missile su suolo saudita, tuttavia il regno ha deciso di reagire in modo sorprendentemente audace: ha definito l’attacco una “aggressione militare diretta da parte del regime iraniano” a cui Riyad “si riserva il diritto di rispondere”.
Lo stesso giorno il premier libanese Saad Hariri, leader del movimento sunnita “Il Futuro”, si è inaspettatamente dimesso mentre si trovava in Arabia Saudita. Hariri pochi giorni prima aveva incontrato alcuni alti funzionari dell’intelligence e il ministro degli Affari del Golfo Thamer al Sabhan. Le motivazioni del premier non sono chiare ma Hariri ha parlato di minacce alla sua incolumità e, una volta tornato in patria, ha affermato di essere pronto a ritirare le sue dimissioni a patto che l’Hezbollah stia fuori dai conflitti regionali e che non si intrometta troppo nella vita politica libanese.
Secondo molti analisti dietro a tutto ciò ci sarebbe il tentativo da parte del principe ereditario Mohammed bin Salman di indebolire e isolare l’onnipotente organizzazione politico-militare degli sciiti libanesi. L’obiettivo è chiaro a tutti ma non si capisce ancora se ci sia una vera e propria strategia o se, come sostiene l’esperta di Medio Oriente Emile Hokayem sul New York Times, l’Arabia Saudita non sappia bene come comportarsi né come limitare l’influenza iraniana nella zona.
In fondo il legame tra l’Iran e l’Hezbullah, che in Libano è ora anche un partito politico, è stretto e noto da tempo. A tal proposito il segretario generale Hasan Nasrallah ha affermato: “Noi otteniamo sostegno morale, politico e materiale in tutte le forme possibili e disponibili dall’Iran dal 1982”. In seguito alle rivolte del 2011 il suo potere si è moltiplicato e l’organizzazione ha combattuto in Siria in Iraq e nello Yemen, regioni in cui ha addestrato e ispirato altri gruppi di combattenti. Questo coinvolgimento in prima linea è alla base della tensione che si è creata con i sauditi che hanno ufficialmente affermato di considerare l’Hezbollah un gruppo di terroristi.
Ad avvalorare la tesi espressa da Emile Hokayem c’è una curiosa alleanza strategica israelo-sunnita che, sebbene sia momentanea e pensata per affrontare la minaccia iraniana, appare a dir poco surreale. Ma arabi e israeliani condividono più di un nemico e si trovano uniti anche nell’avversione nei confronti dell’Hezbollah che ha combattuto contro Tel Aviv durante la seconda guerra del Libano. In quel frangente ha creato ulteriori attriti con i sauditi tentando di impadronirsi di uno dei capisaldi del loro soft power tra i paesi arabi sunniti: la leadership sulla questione palestinese. Questo paradossale avvicinamento ha stupito la stampa internazionale che ha documentato i sempre più frequenti incontri pubblici tra esponenti del governo e esercito israeliani e sauditi. Nel 2013 Netanyahu ha affermato di fronte alla knesset, il parlamento israeliano, che “Israele non è più il nemico degli arabi e che abbiamo un fronte comune su molti punti”.
Guardando all’alleanza israelo-sunnita alla luce di quanto successo negli ultimi sessant’anni si rischia di arrivare a conclusioni troppo affrettate. L’Arabia Saudita è ormai una potenza in declino che per disperazione passa al vaglio ogni possibile alleanza che possa guarirla dalla sua condizione. Israele, dopo il riavvicinamento del 2015 tra l’Iran e gli Stati Uniti suggellato dall’accordo sul nucleare, teme di perdere la sua posizione di alleato privilegiato degli americani e che una futura egemonia della repubblica iraniana possa comportare un tragico (per parte israeliana) compromesso territoriale con i Palestinesi. Le differenze sono troppe e gli obiettivi comuni non sono sufficienti a convalidare un’alleanza innescata dal sovrapporsi di conflitti regionali.
A conti fatti il regno saudita non si mostra in grado di affrontare da solo il suo principale avversario né, al momento, può contare su una salvifica alleanza che funga da antidoto alla sua inevitabile perdita di potere. Al momento l’unica flebile speranza per l’Arabia Saudita è che il principe ereditario riesca a elaborare una strategia più convincente.