Impasse italiana: opere pubbliche tra burocrazia, negligenza e malaffare Dal ponte Morandi alla funivia del Mottarone: l’Italia tra ricostruzioni miracolose e tragedie evitabili Direttore responsabile: Claudio Palazzi
L’Italia è al penultimo posto nella classifica UE per la durata di realizzazione e manutenzione delle opere pubbliche a carattere infrastrutturale. Nonostante ciò, governo dopo governo, ha fatto sempre più propria una proverbiale lentezza nel mettere a frutto i fondi europei destinategli proprio per intervenire sulle criticità di questo settore. Ad oggi mancano ancora interventi coraggiosi ed efficaci da parte della governance italiana che pare ignorare il problema nella sua urgenza e complessità. La tragedia della funivia Stresa-Mottarone ha riacceso i riflettori su quello che già il Ponte Morandi aveva ricordato: non è più una questione di orgoglio nazionale, l’inefficienza della nostra politica si tinge di una coloritura tragica
In Italia occorrono in media 815 giorni per completare l’iter di un appalto tipo: servono, cioè, circa due anni e tre mesi per riasfaltare 20 km di una strada a doppia corsia, non autostradale, con un costo di 2,5 milioni di dollari senza lavori accessori né successivi all’esecuzione. Una tempistica superiore del 34,7% alla media Ue, seconda solo a quella della Grecia. È quanto si evince dal report annuale della Banca Mondiale “Doing Business 2020” e quanto rilanciato dal Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) con una nota degli ultimi giorni. Non solo ritardi nella costruzione di nuove opere pubbliche ma, e la cosa preoccupa ancora di più, anche nella manutenzione ordinaria e straordinaria di quelle già presenti sul territorio.
Sono 640 le opere incompiute ufficialmente censite in Italia, il loro valore complessivo ammonta a oltre 4 miliardi di euro a cui si aggiungono gli oltre 27 miliardi delle 400 opere bloccate per motivi burocratici o per contenziosi civili. 1.040 opere in totale, a cui vanno affiancandosi quelle la cui integrità strutturale e la cui efficienza funzionale è seriamente compromessa dalla negligenza di chi dovrebbe intervenire con controlli periodici e interventi manutentivi.
La situazione infrastrutturale italiana deve fare così i conti con l’ingente danno economico dato, in prima istanza, dalla mancata assegnazione dei fondi europei di sviluppo e, in un secondo momento, allo spreco dei finanziamenti statali, spesso dispersi in progetti mai terminati. Lo stato di avanzamento dei lavori di molte opere pubbliche si arresta quando non è ancora possibile consentirne la fruibilità e nemmeno il loro uso ridimensionato. In qualche caso il blocco dei lavori crea discontinuità alla rete in cui l’opera è inserita, peggiorando la situazione che doveva andare a migliorare. Il danno sociale è incalcolabile: la mancata erogazione di servizi, spesso essenziali, impediscono un adeguato sviluppo del territorio nazionale e dei suoi abitanti, compromettendone le condizioni di vita e di sostentamento.
Nel periodo 2014-2020 il Fesr ha avuto in dotazione 185 miliardi di euro da stanziare tra i vari membri UE e, congiuntamente agli altri Fondi strutturali e d’investimento europei, l’Italia è stata designata come il secondo Paese destinatario per maggior numero di fondi assegnati. Eppure, a fine 2017 aveva speso solo il 9% dei 75 miliardi di euro stanziati e, a inizio 2019, la cosa non è andata poi tanto migliorando: 28 miliardi non erano nemmeno stati allocati ad uno specifico obiettivo e solo 17 miliardi su 75 erano stati spesi realmente.
Ad oggi la situazione è cambiata: l’Europa si avvia alla gestione dei nuovi fondi stanziati per lo sviluppo della coesione regionale per il periodo 2021-2027 e tutti gli investimenti precedenti non destinati o non concretamente spesi sono stati disimpegnati e riassorbiti dalla Banca Centrale Europea. Tuttavia, resta per ora una forte ambiguità sulla stima dei fondi inutilizzati dai vari Paesi, in quanto le procedure ufficiali prevedono “tempi supplementari” prima del ritiro e scadenze posticipate a causa del covid. L’Italia si attesta comunque, dagli ultimi dati disponibili, in forte ritardo nella destinazione dei fondi europei con più di venti miliardi di euro non ancora allocati alla prima metà del 2020 e con solo il 6% dei programmi conclusi.
L’Italia, dunque, fa più fatica degli altri paesi europei a spendere i fondi comunitari e, qualora i soldi vengano impiegati, i tempi di realizzazione dei progetti sono di gran lunga più lenti degli altri membri UE. Al contempo proprio i finanziamenti che fatica a mettere a frutto sono quelli necessari per intervenire sulle criticità del proprio sistema infrastrutturale. Come uscire da questa impasse?
Parlare del sistema infrastrutturale del nostro Paese non è più una questione di orgoglio nazionale, l’inefficienza della nostra politica si tinge di una coloritura tragica. La mancanza di infrastrutture adeguate ed efficienti sul territorio comporta l’inasprirsi delle disuguaglianze socioeconomiche tra regioni diverse ed il radicalizzarsi dei conseguenti fenomeni di impoverimento e spopolamento tristemente caratteristici di alcune regioni. Laddove queste infrastrutture sono presenti spesso sono irrimediabilmente compromesse nella loro integrità strutturale a causa dei mancati interventi di manutenzione. Ce lo ricorda la tragedia del ponte Morandi a cui sembra far eco la drammatica vicenda della cabina funicolare della funivia Stresa Mottarone. Se nel caso del viadotto di Genova si è potuto accusare la carenza di manutenzione, la tragedia trentina ha però tutt’altra causa.
Il 23 maggio scorso doveva essere la “domenica della ripartenza”: i casi di Covid diminuivano e le misure restrittive andavano allentandosi con l’ingresso della regione Piemonte in zona bianca. Poco dopo mezzogiorno la cabina 3 della funivia del Mottarone precipita a terra in un’area boscosa da un’altezza di 25 metri. Tredici persone muoiono sul colpo, tra cui un bambino di due anni, mentre un secondo di nove muore all’ospedale Regina Margherita di Torino. Sin da subito appare chiaro ai soccorritori che qualcosa non ha funzionato, un presentimento diventato ben presto un dato di fatto grazie alle indagini della Procura di Verbania: quando il cavo traente che sosteneva in aria la cabina si è spezzato, il sistema di sicurezza a ganasce che le avrebbe impedito di precipitare al suolo non è entrato in funzione.
Ad oggi sono iscritti nel registro degli indagati il gestore dell’impianto, Luigi Nerini, il direttore di esercizio, Enrico Perrocchio, e il capo servizio, Gabriele Tadini. L’accusa è di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose gravissime, falso in atto pubblico e rimozione dolosa di sistemi di sicurezza. Ai tre arrestati gli inquirenti contestano fatti di “straordinaria gravità” per la “deliberata volontà” di eludere gli indispensabili sistemi di protezione dell’impianto di trasporto. Sono cioè stati bloccati i freni di emergenza “per ragioni di carattere economico e in assoluto spregio delle più basilari regole di sicurezza finalizzate alla tutela dell’incolumità e della vita” dei passeggeri. Lo scrive la Procura di Verbania nel decreto di fermo dei tre, sottolineando come il capo servizio della funivia abbia “ammesso di avere consapevolemente e ripetutamente inserito i dispositivi blocca freni (forchettoni), disattivando il sistema frenante di emergenza”. Le normative vigenti vietano espressamente l’utilizzo dei “forchettoni” in presenza di persone a bordo eppure il direttore di esercizio e l’amministratore locale “avvallavano tale scelta” non agendo, per di più, “per consentire i necessari interventi di manutenzione che avrebbero richiesto il fermo dell’impianto, con ripercussioni di carattere finanziario”.
Insomma una “condotta sconsiderata” che ha portato alla morte di quattordici persone e a lesioni gravissime ad un minore di cinque anni. Un gesto “consapevole” per ovviare ai problemi tecnici della funivia ed evitare di comprometterne l’esercizio dopo il lungo periodo di chiusura necessitato dalla crisi sanitaria. Bloccare il freno di emergenza evitando interventi più decisivi e radicali è stata una decisione ben ponderata e non un’omissione occasionale o una dimenticanza. La tragedia del Mottarone sembra risolvere i suoi misteri nella negligenza di chi non è intervenuto su un problema strutturale conosciuto già da tempo quando avrebbe dovuto.
Troppo spesso l’aspetto economico fa passare la sicurezza delle infrastrutture in secondo piano: la tragedia della funivia Stresa-Mottarone testimonia proprio come il fattore umano risulti sempre più dirimente all’accertarsi delle cause di incidenti di questo tipo. Proprio l’Italia invece dovrebbe incentrare le sue risorse nella manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere infrastrutturali. La maggior parte delle opere del nostro paese sono state costruite più di cinquanta anni fa quando gli strumenti per pensare e costruire erano profondamente diversi da quelli oggi in nostro possesso. La loro durata si attesta così a circa cento anni, ma senza adeguate manutenzioni il loro ciclo di vita si abbassa drasticamente. Bisogna affiancare agli sforzi di rinnovamento del parco delle infrastrutture italiane anche un’attenta manutenzione di quelle già presenti sul suolo nazionale, molto spesso preda della dimenticanza e dell’incuria.
Il ponte Morandi è stato costruito tra il 1963 ed il 1967, poco più di cinquantacinque anni fa. Noto in tutto il mondo sin dagli anni della sua progettazione per le sue soluzioni ardite, è tristemente salito alla ribalta della cronaca nostrana il 14 agosto 2018 quando il pilone 9 della sua struttura è crollato. Sono morte 43 persone e nei mesi successivi al disastro 556 abitanti dei quartieri di Genova sottostanti l’area del cedimento sono rimasti sfollati. Se per la funivia del Mottarone si è parlato della negligenza operata dai gestori dell’impianto, per il viadotto ligure la questione si complica.
Le indagini hanno portato sul banco degli imputati il gestore del viadotto Polcevera, ovvero Autostrade per l’Italia (ASPI, che fa capo alla famiglia Benetton), e la SPEA, una società appartenente allo stesso gruppo che si occupava della maggior parte dei controlli alla struttura. Anche il Ministero delle Infrastrutture è stato coinvolto nelle indagini in quanto l’intervento di rinforzo degli stralli del pilone 9 era stato approvato poco tempo prima della tragica vicenda dalle strutture ministeriali in tempi non rapidi e senza che i periti statali si accorgessero dell’urgenza dell’intervento. Il 31 luglio 2019 i tre periti nominati dal gip (Gianpaolo Rosati, Massimo Loso e Renzo Valentini) accertano le condizioni in cui si trovava il viadotto prima del crollo, riscontrando “corrosione diffusa in diverse parti della struttura”, come riportato alla procura. A determinare il cedimento hanno contribuito in maniera rilevante “i controlli e le manutenzioni che, se fossero stati eseguiti correttamente, avrebbero impedito il verificarsi dell’evento”, in quanto “la mancanza e/o l’inadeguatezza dei controlli e delle conseguenti azioni correttive costituiscono gli anelli deboli del sistema; se essi, laddove mancanti, fossero stati eseguiti e, laddove eseguiti, lo fossero stati correttamente, avrebbero interrotto la catena causale e l’evento non si sarebbe verificato”.
Le attività ispettive hanno fatto emergere come i ritardi burocratici nell’attuazione degli interventi di manutenzione aggravino solamente le criticità a cui l’opera è stata esposta, sottolineando l’inadeguatezza complessiva del progetto di mantenimento in buono stato della struttura. In un documento di 5000 pagine redatto dagli specialisti coinvolti nelle indagini emerge come a partire dalla costruzione del ponte “sono state via via trascurate negli anni le indicazioni del Progettista con particolare riferimento al degrado degli acciai da precompressione costituenti i cavi dei tiranti”.
In accordo con la tecnologia dell’epoca, infatti, il carico a cui erano sottoposti i cavi primari del ponte era parzialmente redistribuito sui cavi secondari adottando il sistema della precompressione. Questi ultimi però sin dal 1985 hanno mostrato un diffuso stato di ammaloramento a causa di un difetto costruttivo proprio nell’ultimo tratto poi crollato nell’estate del 2018. La perizia del Primo Incidente Probatorio accerta l’ultimo intervento di manutenzione strutturale al 1993 e la totale insufficienza degli interventi di restauro eseguiti nell’arco della vita dell’opera per arrestare il processo di degrado, in special modo delle estremità dei tiranti.
“Le stime della corrosione eseguite nel 1993 –spiegano i periti- , con riferimento alle pile 9 e 10, risultavano rispettivamente pari al 8,6% e al 20,54% e sono in palese contraddizione con quelle riportate nel progetto di retrofitting (datato 2017 ndr) condotto da SPEA. Infatti esso attesta un deterioramento del 10%-20% indistintamente per le due pile, implicando il completo arresto del progredire del fenomeno di corrosione in un quarto di secolo, assunzione chiaramente assurda e inaccettabile”. La responsabilità degli attuali gestori fa del ponte Morandi un caso particolare che unisce in sè la negligenza degli enti preposti al buon mantenimento delle opere a loro affidate a una burocrazia che rallenta ancora di più i pochi interventi attivati su una struttura le cui fragilità sono note sin dalla sua progettazione.
Negligenza, burocrazia e fragilità strutturali. Basta questo per rappresentare adeguatamente le criticità del complesso panorama infrastrutturale italiano?
Ebbene no. Il settore delle opere pubbliche, nonostante i più recenti interventi legislativi, continua a vivere uno stato di profonda emergenza che la crisi sanitaria non ha fatto che acuire. Gli appalti pubblici tra ritardi e indolenze si trovano a far fronte agli interessi delle mafie, che permeano nei bandi di gara mettendo in atto importanti fenomeni corruttivi per giungere all’utilizzo delle risorse statali. Prassi consolidate come il ricorso sempre più indifferenziato a criteri di aggiudicazione altamente discrezionali e il formarsi di ingenti extraprofitti rendono particolarmente appetibile questo settore alla criminalità organizzata. I costi accessori dati dalle continue revisioni del progetto iniziale in corso d’opera aumentano esponenzialmente gli oneri a carico dell’amministrazione appaltante e garantiscono entrate maggiori agli speculatori.
Le infiltrazioni mafiose aggiungono alla lentezza del sistema burocratico italiano un implemento delle tempistiche necessarie alla realizzazione del progetto, comportando anche importanti rischi contrattuali alle società coinvolte nei lavori. Lentezza, contenziosi giudiziari, mancanza di fondi fanno così naufragare gli appalti. Il nuovo codice dei bandi di gara è volto proprio a superare tali criticità, favorendo un sistema più flessibile e plurale al rigido regolamento unico precedente. Una diversificata mole di strumenti normativi e amministrativi mira a semplificare la normativa comprimendo tempi e costi delle procedure, riducendo il numero di stazioni appaltanti e standardizzando le procedure attraverso bandi tipo pienamente informatizzati.
Rimane comunque molta strada da fare per una profonda revisione e semplificazione delle normative in materia di opere pubbliche. Un complesso dedalo di 160.000 norme si confondono e spesso si contraddicono nella regolazione degli adempimenti amministrativi e fiscali, nell’ambito della sicurezza e deposito degli atti. La Francia ne ha 7.000, la Germania 5.500, il Regno Unito 3000 e ciò gli permette di abbattere i costi per la gestione di tali assolvimenti, che per l’Italia ammontano a 57 miliardi di euro.
I ritardi della burocrazia si ripercuotono su tutti i momenti della costruzione o della manutenzione di un manufatto. Tanto nella pubblicizzazione del bando di gara quanto nel pagamento dell’impresa appaltatrice i tempi impiegati dalla Pubblica Amministrazione sono lunghissimi, rallentando irrimediabilmente l’avvio dei lavori e la loro esecuzione fino al completamento. Da ciò risulta una vertiginosa crescita dei costi che devono far fronte a tempistiche più lunghe e a cui si aggiungono ulteriori spese accessorie impreviste, rendendo insostenibile la prosecuzione dei lavori e comportando il disimpegno automatico dei fondi europei impiegati.
Le amministrazioni sono lente nella progettazione degli interventi, nei controlli e nella certificazione della spesa. Accanto alla complessità dei regolamenti italiani ed europei pesa la scarsa capacità progettuale e amministrativa proprio degli enti pubblici, fortemente impreparati. Solo il 31% dei dipendenti statali è laureato e l’età media del pubblico impiego è passata dai 44 anni del 2001 ai 52 anni del 2018.
Servono risorse umane competenti che colmino la cronica carenza di tecnici e una riforma della coordinazione delle competenze, ad oggi frammentate tra Stato, amministrazioni locali e Agenzia per la coesione. Solo così sarà possibile rendere il “miracolo italiano” delle ricostruzioni in regola e in tempi record una prassi consolidata e reiterata.
A quasi due anni dal crollo il “modello Genova” ha permesso la ricostruzione del ponte Morandi e la sua seconda inaugurazione, dimostrando come sia possibile superare tutte le criticità del settore infrastrutturale italiano. Marco Bucci, imprenditore prestato alla politica e sindaco di Genova, nonché Commissario Straordinario per la ricostruzione del viadotto, ha basato il suo lavoro sull’efficienza e sull’efficacia della compenetrazione delle competenze. Nella ricostruzione ha coinvolto tutti gli attori disponibili a tale impresa, coniugando pubblico e privato in un connubio felicemente riuscito. Per fare ciò si è avvalso dell’art. 32 del Codice di Appalti Europeo che permette in situazioni straordinarie l’attuazione di procedure che evitino ritardi o rallentamenti nell’assegnazione del contratto esecutivo e nella realizzazione dei lavori.
Ora non resta che convertire lo straordinario in ordinario, superando il quadro della tragica emergenzialità e riportando il “modello Genova” nella quotidianità delle regolamentazioni italiane. Come più volte rilanciato dal presidente dell’Ordine degli Ingegneri genovesi Maurizio Michelini, mente giuridico-legale degli strumenti normativi impiegati nella ricostruzione del viadotto, e dallo stesso Marco Bucci, il miracolo genovese si è avverato grazie all’utilizzo del Codice di Appalti europeo invece di quello italiano.
Le infrastrutture giocano un ruolo determinante nelle vite di ciascuno di noi: configurano gli spazi, governano gli ambienti e le atmosfere, gestiscono i flussi. Le infrastrutture disegnano il mondo in cui viviamo e le possibilità che esso ci offre. Così tralicci dell’alta tensione, autostrade, fognature, rotaie e programmi informatici danno forma alle nostre vite, garantiscono le possibilità materiali ed immateriali delle nostre esistenze.
Il mondo non ci circonda, ci attraversa. È arrivato il momento di ripensarci. Ripensare noi e l’ambiente in cui viviamo. Un ambiente sempre più globale e interconnesso, che ci arricchisce delle esperienze altrui e a cui non si può più essere indifferenti. Ecco la soluzione all’impasse in cui si trova l’Italia: rileggersi in un contesto più ampio e plurale, quello europeo, da cui non può più prescindere e, anzi, che le dischiude la possibilità di essere nuovamente protagonista del proprio futuro.