Doppio rimmel (prima parte)

La facoltà di lettere e filosofia si trovava a ridosso del centro storico: un edificio basso, anch’esso di distinto pregio architettonico, ad un paio di traverse di distanza dal Neue Rathaus di Bamberga.

In realtà, mi sembrava di vivere due realtà lontanissime: ogni mattina scendevo per recarmi in Maximilianplatz, pullulante di voci vivaci, di passi energici, di tutti quei gesti mattutini che infondono ottimismo e serenità all’intera giornata; entravo da Müller per comprarmi i biscotti integrali ai semi di sesamo e il cappuccino confezionato di latte d’avena, poi passavo da Alfons, che apriva di buon’ora il suo banchetto davanti a Deichmann, per fare scorta di mele, fragole e frutti di bosco.

Successivamente, ripiombavo nel silenzio universitario, svoltavo l’angolo e la strada era pressoché vuota; mi soffermavo per qualche istante davanti alla vetrina del mio negozio di giocattoli preferito, finché arrivavo al civico giusto: salivo le scale del condominio, varcavo la soglia di casa e posavo i miei limitati acquisti.

Non rimanevo molto tempo in quell’appartamento: gli arredi anonimi, l’assenza di un balcone, le piastrelle bianche alle pareti della cucina mi facevano sentire in gabbia; d’altronde, quella era solo una sistemazione temporanea e non casa mia, un luogo privo di familiarità e di vissuti veri.

Andavo a lezione tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, e all’ora di pranzo, alla conclusione dei corsi, raccattavo l’occorrente libresco e mi trasferivo nel bosco cittadino: una vera e propria selva, perfettamente integrata all’ambiente urbano e al clamore delle attività umane.

Adoravo quell’esperienza di Erasmus in Germania, ma la nostalgia di Roma e la squallida stanza che mi era stata assegnata mi avevano resa ancora più riflessiva e solitaria; inoltre, il tedesco non era una delle lingue più facili da imparare in poco tempo, e ciò moltiplicava le mie difficoltà di comunicazione, il mio disagio nell’interazione con gli altri.

Di conseguenza, per sfuggire alle carenze del mio impacciato inglese, attraversavo il Geyerswörthsteg, il ponte di legno che si inchinava alla beltà dell’Altes Rathaus affrescato, e proseguivo lungo il fiume Regnitz, alla confluenza del Meno, nel silenzio alberato di quel lodevole esempio di foresta europea in terra tedesca, in assoluto equilibrio con la città che la ospitava.

I libri, con tutta la loro sopraffina eloquenza, con quel loro bagaglio sovrabbondante di informazioni quasi mai noiose, erano i miei migliori amici: studiavo i rudimenti della linguistica romanza, la letteratura leggendaria che ispirò i capolavori wagneriani, indagavo sulla profondità psicologica della borghesia narrata da Mann; mi immergevo nel rigoglio scenografico di d’Annunzio, per poi lasciarmi adulare dal malessere interiore di Montale, così vissuto, così sofferto, da farlo in parte mio…

Una spina si conficcò nella mia mente, ma non permisi alla malinconia di pungermi: alzai gli occhi al cielo e mi accorsi che era molto più grande di una maglia rotta; il sole, che lo rendeva ancora più limpido di speranza, possedeva la forza rigenerante di centinaia di limoni.

Stanca per il tanto studio e le complesse riflessioni, sovente mi prendevo delle pause: facevo qualche decina di metri per cambiare panchina, mi dondolavo per un po’ sull’altalena, mentre assistevo divertita a qualche pazzo bamberghese che si tuffava in acqua senza problemi, nonostante il fiume avesse un aspetto tutt’altro che cristallino.

Approfittando dell’avvento dell’ora legale, con pomeriggi un pochino più lunghi e gradevoli, concentravo in un tempo più ristretto lo studio nel verde: prima del tramonto, salivo all’altura della Residenza Nuova e, dal piccolo roseto antistante l’immensa costruzione barocca, mi godevo il panorama della città, sfidando la foga dei turisti, impazienti di fare foto o di raggiungere l’arcata giusta dalla quale cogliere l’angolazione perfetta.

Come al solito, essendo stata lì già decine di volte, mi accontentavo del punto più nascosto e tranquillo: da quella prospettiva riuscivo comunque a vedere tutto il centro storico, con le imbarcazioni transitanti sui canali, le gru dei cantieri in costruzione, molto simili a quello che circondava le quattro torri del Duomo alle mie spalle; ammiravo il frenetico formicaio di persone devoto al suo continuo andirivieni tra botteghe artigiane, negozi, gelaterie, ristoranti di specialità della Franconia… un coacervo di destini incrociati, troppo indaffarati e di fretta per cogliere ogni umana possibilità.

Preferendo la compagnia discreta di una cinciarella o i passi delicati di una lucertola alle urla sgraziate di un ubriaco, mi incamminai celermente verso casa, prima che la luce dei lampioni si sostituisse alle tinte sanguigne e violacee della sera; ero consapevole della mia ignoranza relazionale, ma mai avrei barattato i miei corroboranti silenzi, seppur prolungati, con una realtà soffocata dalle forzature, che non mi apparteneva.

Avrei continuato a vagare nello spazio dell’esistenza, ma con una meta precisa: sostenere soltanto quei suggerimenti in grado di risvegliare sinceramente un’interiorità sopita del mio essere, magari scoprendone una nuova sfaccettatura, ancor più bella perché inaspettata, svelata senza meditati pregiudizi; ero certa che il tempo e l’esperienza mi avrebbero dato le risposte giuste…

Successivamente, coinvolta dal clima sempre più primaverile dei primi di aprile, abbandonai quelle bizzarre considerazioni di qualche sera prima, relegandole alla semioscurità di un polveroso inconscio; prima o poi, chissà, sarebbe bastata una folata di vento per destarle.

Intanto, forse per colpa dell’influenza dell’inverno appena trascorso, un pomeriggio di pioggia spezzò quella sequenza di giornate gradevolmente tiepide: un forte nubifragio mi costrinse a rimanere in quel monolocale deprimente e semivuoto, dove uno sciatto lampadario, dalla luce diafana, rendeva l’ambiente ancora più inospitale.

Mi rifugiai nella camera da letto, l’unica alla quale avevo aggiunto qualche tocco personale: le lenzuola colorate raffiguravano un prato scozzese di erica, mentre ad un’anta dell’armadio avevo incollato, con il nastro adesivo, un poster di Frozen II; i muri erano spogli, fatta eccezione per un quadro raffigurante Ludwig II di Baviera ancora giovane e per un piatto in ceramica di Cracovia, dai caratteristici motivi bianchi e blu, comprato l’anno precedente.

Presi posto alla scrivania, illuminata da un’originalissima lampada a forma di pecora, e, per distrarmi, svuotai una cartellina che definivo “passatempo”; per me quello era un momento di isolamento dal mondo esterno, un modo per rimestare nel passato, ma anche per cogliere indizi latenti su un ipotetico futuro.

Dopo aver collocato nella giusta direzione il flusso luminoso della lampada, osservavo e immaginavo, mentre fuori impazzava il temporale: la grandine rintoccava sulla grondaia di rame, improvvisando un’insensata melodia metallica basata su un martellante ticchettio; ogni goccia disegnava sui vetri appannati un messaggio dall’idioma incomprensibile.

M’imbattei in un cartoncino nero, sul quale era stampato il profilo stilizzato di un topo: era l’etichetta del peluche di Olaf che avevo comprato a Disneyland Paris l’estate scorsa e che custodivo gelosamente sul mio letto; scovai un acquerello della Chiesa di San Martin di Landshut, lasciata in bianco e nero per differenziarla dallo sfondo, dipinto, invece, con i colori dell’arcobaleno, ed, accanto, un biglietto scolorito dell’autobus, tratta Füssen – Castello di Neuschawstein.

Curiosai ancora tra le “scartoffie”: una foto un po’ sfocata raffigurava l’affollato Viale dell’Indipendenza di Istanbul, dove, tuttavia, non ero mai stata; c’era da chiedersi cosa ci facesse lì quell’immagine, ma prestai poca attenzione a quel quesito spontaneo, e proseguii nell’analisi dell’altro materiale.

Scostai l’istantanea ed emersero altre due foto, che immortalavano rispettivamente i miei attori preferiti, entrambi bellissimi: in una, lui indossava una camicia azzurra, nell’altra, lei sfoggiava un vestito rosso di seta; erano così affascinanti che decisi di metterli tutti e due nella mia agenda, tra pagine differenti, così da poterli contemplare quando mi sentivo triste.

Distolsi un poco lo sguardo, verso la sveglia: il primo pomeriggio era trascorso da un pezzo, così mi diressi in cucina per cuocere al volo un hamburger già pronto di seitan e zucchine; in quella casa mi era passata persino la mia atavica voglia di cucinare.

Depressa per il meteo avverso, presi gli ultimi fogli che ancora non avevo visto della cartellina “passatempo” e mi infilai sotto le coperte: erano le pagine di un racconto che avevo scritto durante il rovinoso ed oscuro periodo della recente pandemia, tramutatasi, per fortuna, in ricordo; probabilmente in preda ad una nevrosi da clausura forzata, avevo intitolato quello scritto “La mia casa è un castello”, magari questa casa assomigliasse ad una reggia, anche soltanto per la gamba di una sedia, dissi tra me, guardandomi intorno, in quella stanza pulita ma algida nell’animo e umida nei soffitti.

Provai a leggere qualche riga, e l’incipit pareva in piena sintonia con il grigiore di quella giornata prossima a concludersi, ma andai poco oltre: assuefatta dal tintinnio della gradine, che percuoteva imperterrita la grondaia, il sonno mi inghiottì, proteggendomi da quella mesta memoria.

Il mattino seguente il cielo era schietto, vivido di rinnovata azzurrità; i garofani fucsia sul mio davanzale angusto odoravano di rugiada.

Non mi presentai a lezione: per quel giorno, non sopportavo l’idea di stare ancora al chiuso ad ascoltare la genesi del Placito Capuano, così ne approfittai per fare una seria spesa.

In una traversa della Luitpoldstrasse, non lontano dalla stazione ferroviaria, il Denn’s Biomarkt era il supermercato biologico più grande e fornito di tutta Bamberga: vi trovavo sempre la pasta integrale e tanti prodotti di aziende alimentari italiane; inoltre, quella mattina avevano appena scaricato la verdura fresca.

Dopo aver preso un mazzo di carote, broccoli scuri e abbondante cicoria di campo, mi spostai all’indietro senza vedere dove andassi e, per poco, non feci, anzi facemmo, cadere il bancale dei legumi, impilati in una precaria piramide di barattoli.

Ci voltammo insieme pronunciando un entschuldigung all’unisono, poi anche gli occhi si incontrarono: uno scintillio divampò da un suo battito di palpebre, le ciglia delicatamente allungate, seriche di rimmel, scatenando in me un tremito; in quella manciata di secondi si concentrò lo splendore dell’eterno.

Spingemmo i carrelli in direzioni opposte, decise a proseguire il giro degli scaffali, ma qualcosa ancora ci tratteneva: la sua lunga gonna a pieghe era rimasta impigliata alla lampo della mia borsa e, nel condiviso tentativo di liberare la stoffa dalla chiusura, le dita si sfiorarono; fui di nuovo scossa da un’insolita quanto bellissima sensazione.

Ci guardammo un’ultima volta, quasi con vergogna; poi, finalmente, continuammo gli acquisti in autonomia, ma ormai non possedevo più un briciolo di concentrazione.

Mi affrettai alla cassa perché avevo bisogno di una boccata d’aria, ma ero talmente frastornata che, per trovare il portafogli, dovetti rovesciare la borsa con tutto il suo contenuto, che si sparse alla rinfusa sul banco; raccattai le buste della spesa con il resto dei miei effetti personali ed uscii velocemente all’esterno, inconsapevole del perché mi sentissi così turbata, ma anche euforica

Tra le mani mi era rimasto il mio diario-agenda, che portavo sempre con me e dove, la sera prima, avevo riposto le due foto con i miei attori preferiti.

Lo sfogliai, per riprendermi da quell’improvviso shock emotivo, ma restai ancora più sconcertata: la foto di lui era scomparsa.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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