In quel supermercato era accaduto qualcosa. Direttore responsabile: Claudio Palazzi Doppio rimmel (seconda parte)
Una manciata di secondi avrebbe mutato per sempre il mio modo di osservare il mondo, con i suoi controversi richiami sociali.

Crebbe in me uno strano sentimento, i cui connotati non erano così inediti; probabilmente, in un futuro tutt’altro che lontano, armata di un’identità consapevole e definita, avrei chiarito tante incertezze passate, donando risposte sensate a domande che avevano tutto il diritto di essere poste.

Ogni singolo sasso gravido di dubbi stava scalfendo, poco per volta, quella fredda parete, per fare spazio a un varco che illuminasse irrisolte zone d’ombra, fino a ridurla ad un cumulo di innocui polverosi calcinacci; per quanto offuscata da quella polvere biancastra, mi accorsi che quel muro asfittico stava già irreversibilmente crollando.

No, non era una percezione labile né effimera, il passaggio estemporaneo di una cinciarella madida di pioggia; dentro di me un cormorano planava con estrema decisione, mostrando le sue ali dispiegate in segno di elegante superiorità: il suo volo era una scia abbacinante, foriera di aria libera, ormai affrancata dal triste peso di un cammino esistenziale mai pienamente percorso né vissuto, in quanto imposto, seppur involontariamente, da un sistema nemico di quelle difficili scelte umane aggrovigliate nella diversità…

Tuttavia, in quei caotici istanti, non diedi retta ai palingenetici e possenti battiti alati: nella mia pancia imperversava una tempesta senza precedenti, ero preda del ronzio assordante dei miei respiri sincopati, vittima di pensieri vorticosi e confusi; il mio corpo accaldato ribolliva tra supposizioni che si accavallavano fino alla saturazione, per poi deflagrare in un vuoto incomprensibile, che mi opprimeva fino a lasciarmi senza fiato.

Richiusi quel maledetto diario immediatamente, nell’ingenua speranza di confinarvi l’uragano incontrollato, prima che si tramutasse in un inquietante gioco da tavola pronto a dettare legge con mosse oscure; ma il quartiere circostante turbinava vertiginosamente in spaventosi giramenti di testa, intanto ansimavo disperata, alla ricerca di un regolare ritmo: ero sul punto di crollare a terra, nella vergogna, nella più che totale ignoranza del perché mi stesse succedendo tutto ciò.

Racimolai quel poco di lucidità che bastava per potermi spostare dall’ingresso del supermercato e svoltare nella traversa più vicina: perlomeno, avrei evitato di esternare a così tanta gente i vaneggiamenti di una persona ormai entrata nella completa confusione, ipnotizzata da un disordine che sbalzava in tutte le direzioni qualsiasi tipo di lavoro mentale; mi stavo confrontando con un infinito rullino di vecchi negativi, scatti recenti e proiezioni future, analizzati da una vista intorpidita.

Ero succube di un giogo malefico, portato avanti da un branco di impressioni che, oltre a non avere un padrone, agiva dietro la maschera dell’incoscienza.

Non era ancora il momento della fiera autoconsapevolezza, ma la frattura era ormai avvenuta.

Non si trattava di una drammatica rottura, ma una barriera si era infranta: un ostacolo che non solo mi impediva di vedere ciò che mi circondava, con lo sguardo autentico e senza filtri della mia anima, ma di comprendere anche i meandri più profondi del mio sentire, fino a cogliere le segrete inesplorate di me stessa, con carcerati costretti alla reclusione per ingiusta sentenza.

Ecco che quelle prigioni si spalancarono: le sbarre si disintegrarono con una tale veemenza che l’evento mi traumatizzò, tant’è che non fui capace di discernere il suo sotteso valore di rinascita; era un flusso vitale tracotante entusiasmo, un uragano di ormoni e sospiri che spingeva con crescente impazienza verso l’esterno, ostile alla lineare gradualità.

Stava esplodendo tutto quello che mi tenevo dentro da troppo tempo e, per quanto violenta potesse essere quell’esternazione, ringraziai implicitamente quell’episodio che l’aveva permessa: ora avrei potuto affrontare i miei sentimenti per quello che erano realmente, senza continuare ad ignorarli o a credere che quel forzato silenzio fosse la giusta soluzione, solo perché, all’apparenza, sembrava meno problematico.

Palesemente alleggerita da un inconscio agonizzante di segreti, alle prese con un tumultuoso materiale spirituale ormai gettato allo scoperto, rincasai quasi correndo, con il rischio di cadere ad ogni interruzione di marciapiede, contesa tra la leggiadria della liberazione e le sfide di un nuovo percorso ontologico tutto da approfondire.

Aprii la porta di casa e la richiusi in fretta, come se qualcuno mi stesse inseguendo.

In verità, erano gli affanni della mia psiche che, nel bene e nel male, desideravano intervistarmi ed io, non potendo rilasciare dichiarazioni ponderate, mi nascondevo in una taciturna meditazione; bastava l’ineluttabilità degli eventi ad assillarmi.

Insieme alle buste della spesa, poggiai con noncuranza le chiavi in cucina, sul tavolo di truciolato laccato di bianco; ero talmente turbata che quel suono, un po’ metallico, un po’ fibroso, mi scosse.

Avevo esigenza di distrarmi con delle azioni meccaniche e poco impegnative, così cominciai a sistemare la spesa, con la mia consueta dedizione per l’ordine: nel frigo, posizionai il tofu e le fettine di seitan nel ripiano più alto, insieme ai capperi e ai pomodori secchi, poi mi concentrai sul ripiano intermedio, disponendovi il formaggio alle lenticchie e l’hummus di ceci e melanzane, stracchino di soia e carciofini sott’olio; infine, collocai tutte le verdure nei cassetti in basso, lasciando fuori un po’ di cicoria e qualche carota per il pranzo.

Era il turno degli scaffali: misi i barattoli di legumi e le marmellate nel mobile accanto al forno, mentre, nei pensili sopra il lavandino, i cibi erano severamente divisi in dolci e potenzialmente salati: biscotti, cereali e fette biscottate da una parte, farina, riso e pasta dall’altra.

Nell’illusione di poter sorvolare sulla faccenda in maniera sbrigativa, indugiai nel ruolo di casalinga mettendo a cuocere le verdure per condire la pasta.

Nel frattempo che queste ultime rosolavano a fuoco basso, presi la borsa appesa alla sedia e me ne andai in camera: dovevo trovare lo scontrino del supermercato, per tenere il conto delle spese mensili, ma l’avevo accartocciato e scaraventato in borsa con giustificata negligenza.

Mi sedetti ai piedi del letto ed iniziai a frugare in quell’accozzaglia di oggetti, foglietti e monetine sparse, tra i quali persino la carta d’identità era trattata alla stregua del volantino che pubblicizzava, con quasi tre mesi di anticipo, la festa di fine anno accademico; il marasma recluso in quella tracolla era la più evidente dimostrazione di quanto il mio attaccamento all’ordine fosse solo la più esterna delle coperture: avvolto da numerosi strati divergenti, si nasconde il caos che sbilancia la quiete, ma che dà anche una fiera scossa all’esistenza.

Stufa di ritrovarmi tra le mani biglietti usati dei mezzi pubblici e boccette di smalto per unghie ormai secco, gettai la sacca a terra e rimasi seduta a contemplare l’irritante incomprensibilità di quel momento: da principio parevo calma, immobile, sopraffatta dall’inerzia quotidiana, con cenni del capo che si compivano alla velocità di un bradipo; dopo tanto subbuglio interiore, il mio corpo avvertiva il bisogno di rilassarsi, con le gambe allungate, gli occhi semichiusi, le dita delle mani che si stiracchiavano dolcemente.

Ogni movimento si fece disteso, ma quella condizione, com’era prevedibile, fu di breve durata e, involontariamente, osservai la borsa sul pavimento, dalla quale spuntava il diario: quel malaugurato diario orfano di una foto, fomentatore di disagio per novelle sensazioni mai considerate né accettate.

Mi ritrovai nuovamente ostaggio dei miei impulsi emozionali, sempre più invadenti, sempre meno gestibili; un fiume in piena mi sommergeva, risucchiandomi tra le sue acque, bramose di dissetare la rinsecchita indole della mia più intima natura, desiderose di detergere l’animo tetro, annerito dalla cieca certezza del dover dare tutto per scontato: il problema della confusione era secondario, rispetto alla presa di coscienza di quanto sia privo di autenticità seguire un modo di essere sbagliato, selezionato automaticamente dalla superficialità e dalla comune convenienza.

Le dita delle mie mani, fino a poco prima circonfuse di immota rilassatezza, presero a tamburellare nervosamente, pareva quasi che volessero sfondare il materasso; le mie labbra serrate si arricciarono in uno spasmo di esaurimento.

Stavo per mettermi ad urlare quando un odore spiacevole ma provvidenziale mi fermò, riportandomi alla fattualità del presente, scevra dalla pericolosa seppur indispensabile sovrastruttura dei pensieri; spalancai gli occhi e scattai in piedi, spaventata per il fumo biancastro che proveniva dalla cucina: delle verdure che avevo messo a cuocere erano rimasti foglie bruciacchiate e dadini riarsi, neri come la pece, non più commestibili.

Preso atto del pranzo saltato, svuotata di forze fisiche e mentali, ripulii le tracce del fumoso danno e aprii la finestra per far uscire l’acre puzza di bruciato: mi affacciai e l’aria esterna, non più assolata come qualche ora prima, ma fresca e inodore, mi alienò dalle preoccupazioni, ritemprandomi.

Poiché il meteo volgeva verso un imminente acquazzone, me ne tornai in camera e indossai il pigiama; per quel giorno non sarei più uscita, nemmeno sotto tortura.

Mi rifugiai in bagno e mi fissai allo specchio senza dire nulla: avevo l’espressione nel complesso sollevata, ma c’erano delle incrinature agli angoli degli occhi, ai bordi della bocca, come quelle di chi, benché distrutto, si ostina a meditare su certe situazioni.

Forse speravo che il riflesso più profondo di me stessa, di Giselle Di Maggio, colori nordici e sangue romano, provasse almeno a proferir parola, anche soltanto un cenno di conforto, un minimo indizio verso la giusta via; ma mi arresi alla stanchezza, alla franchezza della solitudine, fautrice indefessa di scoperte complicate.

Nonostante fosse acerbo pomeriggio, sembrava già notte fonda: aveva ripreso a piovere, una pioggia accompagnata da lampi, che accendevano il cielo con un’energia di migliaia di lampadine a incandescenza, e da raffiche di vento, le quali deviavano la caduta delle gocce, tramutandole in schegge impazzite.

Accontentandomi di quel magro svago, presi posto vicino alla finestra della camera, la più grande: con un cucchiaio in una mano e il barattolo della crema d’arachidi nell’altra, consumai quel pasto alternativo con l’attenzione rivolta al temporale; per la prima volta trovai quello spettacolo gradevolmente emozionante, mentre vi assistevo con beata passività.

Non durò a lungo: il vento si placò e le nuvole si diradarono in brandelli quasi invisibili; l’umidità pungente e le pozzanghere giù in strada restarono i soli segni del maltempo, insieme agli ombrelli fradici e agli impermeabili gocciolanti, lasciati ad asciugare sui balconi del palazzo di fronte.

Il sole, non più robusto come quello del pieno mattino, bussava timidamente alle imposte, non lontano dal sopore violaceo del tramonto.

Approfittando di quegli ultimi tiepidi raggi di luce naturale, apparecchiai il tavolo da cucina con il re dei giorni dal sapore ancora invernale: un puzzle da 1500 pezzi, raffigurante una stradina stretta e tortuosa, che si perdeva tra le verdeggianti torbiere del Connemara; era un paesaggio deserto, vivido di selvaggia natura, con un cielo perennemente screziato, nel quale era facile immergersi e trarne refrigerio.

Scombussolata per le contraddittorie emozioni della giornata e per la successiva noia temporalesca, mi applicai su quei piccoli pezzi di cartone pressato; volevo lasciarmi cullare dall’armonia del panorama irlandese.

Tuttavia, quei molteplici fili d’erba smeraldina si intrecciavano e confondevano in una massa indistinta, impossibile da organizzare: forse ero riuscita a far combaciare al massimo duecento pezzi, quelli più semplici, dove la viuzza intersecava le digradanti colline erbose, prive di alberi; ne emergeva uno scenario a buchi, incompleto, difettoso, instabile

Ero proprio stufa di pezzi che non combaciavano e cambiai idea in un attimo: mi vestii ed uscii a fare una passeggiata, poiché dovevo sfogarmi camminando.

Accompagnata dall’imbrunire, raggiunsi il centro storico in pochi minuti, procedendo lungo la Karolinenstrasse; tra i negozi già chiusi, spiccava la celeberrima vetrina di Käthe Wohlfahrt, ammantata di perenne spirito natalizio, tra schiaccianoci finemente decorati e tipiche piramidi in legno: per un istante riuscii a pensare ad altro, ai festosi mercatini dell’Avvento, all’aroma speziato del Glühwein, alle bancarelle piene di casette portacandele in terracotta e gingilli di vetro dipinti a mano…

Quella deliziosa visione non bastò a svuotarmi il cervello: l’ideale sarebbe stato alzare un po’ il gomito, probabilmente con qualche goccio d’alcool in più sarei riuscita ad astenermi dai miei contorti ragionamenti; tuttavia, ubriacarmi mi avrebbe resa soltanto più vulnerabile e schiava di un violento mal di testa.

Invece, seguii un’altra tattica: inspirai a fondo la frescura preserale, licenziai gli occhi da ogni sforzo visivo, lasciandoli sospesi tra il tenue crepuscolo e le luci offuscate dei lampioni, le orecchie si abituarono al vociare ovattato dei ristoranti; l’atmosfera era troppo tranquilla, il presente era troppo spontaneo e limpido per essere disturbato da ipotesi sprovviste di collocazione temporale.

D’altronde, ciò che mi stava accadendo non era un’orribile tragedia: la novità mi aveva destabilizzata, ma, nel profondo, stava nascendo qualcosa di sinceramente bellissimo; le risposte si sarebbero palesate, come l’urgenza di quel sentimento, i dubbi si sarebbero polverizzati.

Osservai la città intorno, quella Bamberga notturna, prezioso angolo di Franconia: in mezzo alla folla sempre uguale a se stessa, il mondo si era capovolto, eppure non mi sentivo a testa in giù; la mia mente era serena, in accordo con la vita che cambia e si evolve.

E in tutto quell’annoso tribolare, quella giovane convinzione mi strappò un sorriso.

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