«Che bello, gli zii vengono a Roma!»; «Mamma, guarda, gli zii sono in televisione!»; «Sei riuscita a capire dove gli zioni vengono a presentare il loro ultimo disco?»; «Domani escono i biglietti degli zioni, dobbiamo prenderli appena sono disponibili per stare tra le prime file!»… Stefano D’Orazio, i Pooh e le sue parole intramontabili Direttore responsabile: Claudio Palazzi
La mia adolescenza me la ricordo così, la mia prima fanciullezza era dominata da queste espressioni; se qualcuno dovesse chiedermi qual è la cosa che più ha segnato i miei anni da teenager, la risposta è pronta, ed è una soltanto: i Pooh.

Il resto degli accadimenti di quegli anni è avvolto nella nebbia: le amicizie precarie, un po’ come oggi d’altronde, le giornate passate sui libri di scuola, qualche viaggio non pienamente vissuto, un’ingombrante senso di solitudine, di malessere, di incomprensione, che a quell’età è ancora più difficile da gestire… però c’erano i Pooh, una vera rivelazione, quasi una benefica luce.

Ho cominciato ad ascoltare i Pooh all’età di tredici anni e, nel mio confuso primo approccio alla musica pop, mi imbattei nei loro brani: ne fui subito attratta, ma, inizialmente, li mescolai con altre canzoni dell’epoca, quando ancora c’era qualcosa di dignitoso da sentire.

Ripenso al mio primo concerto in occasione della tournee “Ascolta”, in quella graziosa arena estiva di Sabaudia, oggi un campo incolto manifesto di decadenza, di disinteresse per qualsiasi forma di intrattenimento: in quel lontanissimo 24 agosto 2004, su una seggiola di plastica, osservavo quel quartetto suonare, cantare, diffondere la propria arte, e la mia curiosità cresceva, benché fossi ancora inconsapevole di quanto i Pooh avrebbero influenzato i successivi anni della mia esistenza.

D’improvviso, si verificò la folgorazione e i Pooh cominciarono a pervadere le mie giornate in qualsiasi forma: poco per volta, comprai tutti i loro album, lessi la loro longeva storia, tappezzai i muri della mia camera di loro foto, imparai a menadito i testi delle loro canzoni (essendo più di trecento, non fu proprio una passeggiata…), nel mio IPod c’era solo la loro musica; dodici, tredici anni fa i social media erano pressoché inesistenti e, per tenermi aggiornata su imminenti progetti e concerti, consultavo forum di discussione, blog personali, fan club dal layout che oggi farebbe sorridere anche la persona più ignorante in materia digitale.

Mi sembra di tirare fuori un universo remoto, un baule polveroso che, malgrado la passione ininterrotta per questo storico complesso, è rimasto chiuso per un po’, perché “il mondo continua a girare” (Che vuoi che sia da Oasi, 1988) e, crescendo, si vivono nuove esperienze, di ogni tipo, ci si arricchisce di differenti stimoli.

Ma la memoria non si cancella: i Pooh sono indimenticabili, non passeranno mai di moda, e, anche se si sono sciolti nel 2016, il loro è un patrimonio artistico imperituro, ininterrotto.

Negli attuali, assurdi giorni pandemici, è arrivata una notizia inaspettata, che nessuno, fan dei Pooh in primis, avrebbe voluto apprendere: il Covid ha deciso di portarsi via Stefano D’Orazio (paroliere, poeta, flauto traverso, batterista dei Pooh dal 1971 al 2009 e nel biennio 2015-2016, autore di due libri e scrittore di musical di successo), spezzando per sempre quel fulgido quadretto che ritenevo immortale.

Poi ti ritrovi ad un funerale e, invece di chiederti “Dove sono gli altri tre” (Dove sono gli altri tre da Ascolta, 2004), come sarebbe stato bello fare e, di certo, Stefano avrebbe apprezzato, capisci che la morte non risparmia nemmeno i cari idoli della propria gioventù… non c’è immunità che tenga, né ironia che riesca ad edulcorare gli infidi giochi della sorte; si spera che alcuni momenti avvengano il più tardi possibile, ma non viene soddisfatta nemmeno questa modesta richiesta.

Un po’ frastornata, triste, ancora incredula per quanto accaduto, ho rispolverato quel baule di cui parlavo poc’anzi, uno scrigno in parte reale, in parte mentale, una nuvola gigantesca tracotante reminescenze, istanti, immagini, autografi, dialoghi impacciati, emozioni irripetibili; i Pooh non sono mai usciti dai miei pensieri e, un poco nascosti tra pecore di peluche, figurine di Frozen e articoli su Özge Gürel e Can Yaman, loro sono ancora lì: delineano l’orizzonte e lo contraddistinguono in veste di muraglia insormontabile, impossibile da abbattere, mentre svolgono il loro lavoro a tempo indeterminato, quello di donare alle anime spente un’epifania artistica che mai avrà fine, poiché sopravvive alla caducità delle stesse persone che l’hanno creata.

Ho conservato tutto, veramente tutto dei Pooh: un vecchio raccoglitore custodisce foto scaricate da internet, classifiche, inserti di giornale, i biglietti, alcuni perfino scoloriti, delle decine di loro spettacoli a cui ho assistito, poster accuratamente ripiegati e tanti altri appunti su alberghi, teatri, date in ordine sparso; ripercorro un tempo ricchissimo, reso ancor più prezioso dalla sua distanza ma di cui, a ragione, non se ne scorge la finitezza.

Riaffiora la foto più buffa di tutte: avevo diciassette anni e mia mamma mi immortalò davanti al Palalottomatica di Roma, in attesa del concerto (era la tournee del 2008, in occasione dell’album Beat Regeneration) mentre tenevo aperto tra le mani un colorato striscione di carta, dove stava scritto “Pooh forever”, con due grossi cuori rossi al posto delle “o”; indossavo non soltanto un cappellino con il logo dei Pooh in bella vista, ma anche un sorriso estatico, veramente contagioso, spontaneo, perché sapevo che fra qualche ora li avrei visti suonare sul palco, e mi sarei scatenata, emozionata come non mi era mai capitato prima di allora.

Per ben tre compleanni, i Pooh sono stati il soggetto indiscusso delle mie torte e, ad essere sincera, per quanto il sapore non fosse dei migliori, non ho più avuto delle torte di compleanno così belle, senza gli zii

Già, gli zii.

Questo soprannome non è un’esagerazione, né un patetico eccesso di devozione: per me i Pooh erano parte integrante della mia famiglia e, dopo aver avuto l’opportunità di incontrarli di persona e di parlarci più volte, il mio legame umano con loro si rafforzò ulteriormente; la mia vita era un tutt’uno con la loro musica e ascoltarli, vederli, anche soltanto in televisione, mi faceva volare, mi trasportava in una dimensione parallela che non si distingueva dalla mia quotidianità, nonostante gli scherni, spesso anche offensivi, dei miei coetanei.

Come direbbe Stefano, il tempo “trascorre ma non passa” (50 primavere da Il cielo è blu sopra le nuvole, 1992): gli entusiasmi adolescenziali si sono chetati, nel mio stesso interesse ho imparato a separare la fantasia dalla realtà, a comunicare i miei sogni ad occhi aperti con compostezza e riflessiva maturità; i sentimenti, qualunque sia la loro origine, si sono evoluti, ma non hanno perso in veridicità né in spessore.

Ora, realtà e fantasia sono uniti soltanto da un sottile ponte tibetano, che, in verità, utilizzo molto poco, per evitare ingarbugliare ancora di più l’intricata matassa che ho nella testa: mi affaccio dal mio mondo per vedere che aria tira, riconfermo le mie riserve sulla contemporanea, avariata società; magari faccio entrare qualche raggio di sole, se è presente, poi, appena si avvicina l’imbrunire, chiudo immediatamente le imposte.

Non uso più il nomignolo zii tutti i giorni, ma non ho mai smesso di chiamare i Pooh in questo modo: in tre lettere è sotteso un affetto che, dall’esterno, risulta incomprensibile, impossibile da decifrare; si tratta di uno stato d’animo dalla carica infinita, capace di sopravvivere anche quando si congeda, per alcuni periodi, dall’anima stessa.

Continuo a rovistare tra i pensieri e i ricordi materiali: quello striscione di dodici anni fa è ancora dietro la libreria, insieme a quelli realizzati consumando tutte le lenzuola bianche di nonna; e poi quelle conversazioni nelle hall degli hotel fino a tarda notte, con altri fan, con gli zii in persona, frammenti di vita che mi hanno dato tantissimo, che travalicano qualsiasi sipario chiuso, qualunque morte terrena

Ma adesso basta indugiare nella nostalgica rievocazione del passato: è arrivata l’ora di focalizzarsi sulle parole, che Stefano sapeva adoperare così magnificamente da creare testi di una sensibilità rara, semplice e profonda al tempo stesso, con pochissimi rivali nel panorama musicale; sono strofe indelebili, ammantate di eternità, ma in grado di intercettare le percezioni dei singoli tramutandosi ogni volta, tirando fuori la loro indole poliedrica, polisemica, perché ogni racconto in musica di Stefano D’Orazio, al di là del significato letterale, può racchiudere decine di storie e interpretazioni differenti, tutte autentiche in egual misura.

Fin dagli albori del mio amore per i Pooh, dopo aver conosciuto attentamente tutte le loro canzoni, ce n’è una che mai cesserà di essere la mia preferita: sono stata rapita da La ragazza con gli occhi di sole (da Oasi, 1992) fin dal primo ascolto, l’avrò sentita decine, forse centinaia di volte, e non riesco a capacitarmi di come sia stato possibile comporre un capolavoro simile, che proietta in un’atmosfera senza tempo, quasi fiabesca, spingendo l’ascoltatore ad immedesimarsi nell’innamoramento platonico del protagonista per questa ragazza, tanto eterea quanto concreta; traspare una tale delicatezza dal racconto, sostenuto da una musica ugualmente sublime, che ci si sente travolti da un’emozione superiore, non paragonabile ai sentimenti ordinari.

In appena quattro minuti di brano si viene invasi dalla luce di un amore puro, dalla bellezza senza volto, eppure così tangibile, immediata nel suo palesarsi senza canoni ideali né reali, della fanciulla, da un contesto che compenetra l’immanenza della periferia con le aspirazioni evanescenti di chi ama.

Qui sta il miracolo creativo: nobilitare ciò che è banale e trasformare l’incorporeo in qualcosa di vivido, palpabile, e, assistendo a questo prodigio, con la voce di Stefano che intona le sue meravigliose parole, la lacrima scende facilmente…

I sentimenti e le ambientazioni prendono forma senza fatica, la storia narrata da Stefano, il suo amore giovanile, coinvolge e dischiude tante altre letture esegetiche, più o meno personali; oltre all’immagine di un rapporto amoroso a distanza, all’inizio mi identificavo con la fanciulla, poi, con il passare degli anni, si pongono nuove questioni: e se la “ragazza con gli occhi di sole” fosse il desiderio, l’implicita prefigurazione di qualcun’altra?

Nuovamente, si incappa in un quesito irrisolto, che solo le esperienze future, forse, riusciranno a chiarire: è come quell’aborigeno australiano che, ne La leggenda di Mautoa (da Boomerang, 1978), udendo la sua voce riecheggiare, pensa, sbagliando, di aver trovato un amico e delle certezze; il nostro amato poeta tratteggia un affresco sulla solitudine individuale che, in fondo, rappresenta il disagio esistenziale dell’intera umanità, un malessere rimasto invariato per più di quarant’anni.

Un altro testo che parla di emarginazione, avvalendosi di una metafora ancora più sopraffina, è Storia di una lacrima (da Poohlover, 1976), una vera e propria sceneggiatura che, verso dopo verso, nonostante abbia ascoltato anche questo brano decine di volte, mi lascia attonita, per la dolcezza e per la diversità con le quali viene affrontato l’argomento: una lacrima, fiera della sua libera individualità, si congeda dal viso di una bambina e inizia a vagare per il mondo, alla scoperta della sua strada, in cerca di un orizzonte da far proprio; le sue ambizioni verranno spezzate dagli eventi, dalla massa omologante di tante gocce disperse nella pioggia, tradita dal sole e da quegli stessi cieli che tanto amava solcare, indomita.

E l’esigenza di approdare su nuove terre, di spingersi verso altri confini non così marcati, “verso orizzonti facili”, riemerge in Rubiamo un’isola (da Viva, 1979): il protagonista della storia ha un cocente bisogno di affrancarsi da una vita che non dona più stimoli, magari avvalendosi della compagnia di una persona che moltiplichi questa energia, consapevole che l’oggi ci mette poco a diventare ieri: ogni parola ci invita a mollare tutto, a separarci dalla noia, dai dubbi che ci trattengono, per scoprire finalmente se stessi e il “sole dentro l’anima”.

Tuttavia, non tutti i viaggi interiori, formativi, sono accompagnati dall’entusiasmo: i cambiamenti costano fatica, talvolta possono condurre nella direzione sbagliata, e intanto i giorni si susseguono senza sosta in una “vita da inseguire”, costantemente incrinata dal “futuro che spaventa i nostri giorni”, da quell’ansia atavica di perdere “proprio tutto”, perché alla fine, presi dai problemi della routine, piccoli o grandi che siano, non si riesce più ad apprezzare nulla; resta soltanto la vacua speranza “di imparare a stare al mondo”, confidando in una “strada per tornare”, ma piena di buche di rimpianti.

Senza musica e senza parole (da Musicadentro, 1994) è l’ennesimo gioiello testuale di Stefano, una pura dichiarazione di poetica del suo modo di vedere l’universo e l’essere umano, al punto che potrebbe essere considerato un modello archetipico di tutta la sua attività di paroliere, in quanto contiene ed esprime al meglio tre concetti, fondamentali e ricorrenti in quasi mezzo secolo di parole impegnate e corsare: universalità, trasversalità ed empatia.

A livello formale, il processo introspettivo è coadiuvato dalla focalizzazione interna, già presente in Rubiamo un’isola, da quel “noi” che sollecita il pubblico spontaneamente, e la scelta di iniziare il verso con l’ultima parola della frase precedente crea una spirale che fagocita, un discorso continuo che trascina fino al punto finale.

Gli scorci di vita narrati da Stefano, come si è già potuto vedere ne La ragazza con gli occhi di sole, sono parimenti intensi, densi di significato anche sul versante romantico: Che ne fai di te (da Rotolando Respirando, 1977) è un grazioso dipinto di una storia ormai finita, nella quale, di conseguenza, si palesa una vena malinconica; ritornano i giorni che scivolano via, il rimpianto “di un amore speso per metà”, le idee che si “affollano” e che tentano di costruire nuove sicurezze, innanzitutto psicologiche.

In Se c’è un posto nel tuo cuore (da Asia non Asia, 1985) si assiste ad un’esplosione combinata di sensualità e speranza propositiva: facendo tesoro del passato e prendendo in mano le redini della propria identità, si possiede la serena consapevolezza che “c’è ancora tutto da inventare” e, nonostante “cambieranno le parole”, o il destino porrà sulla via innumerevoli ostacoli, “bufere, vento e sole”, ci sarà “ancora e ancora amore” e, forse, l’abbraccio caldo e partecipe dell’amato sotto il cielo seducente della notte.

Sfido chiunque a trovare un testo che, ugualmente, riesca a dare risalto ad una vicenda amorosa così insolita: il protagonista, in disparte, osserva, con inconsueto rispetto, la sua dolce metà dormire, ma già la immagina ad affrontare nuove sfide, a vivere inedite avventure, magari altri amori e, dopo che entrambi avranno “volato e navigato”, ognuno avrà fatto la sua parte, seppur minuscola, nella società; a distanza di un anno, potranno tornare reciprocamente ad amarsi, più forti, più sicuri di sé e, a dispetto del “vento che cambia”, un posto nel cuore accoglierà un sentimento limpido, rinnovato.

Se si dovessero analizzare e commentare tutte le parole partorite dalla geniale mente di Stefano, probabilmente non basterebbe un libro per farlo a dovere; figuriamoci un articolo destinato alla fruizione online, i cui spazi ristretti sono assolutamente insufficienti.

Voglio chiudere questo viaggio nella letteratura musicale di Stefano D’Orazio con altri due brani, forse meno conosciuti, perché contenuti in due differenti “Best of”.

Con E arrivi tu (da Best of the best, 2001) si ripropone la tematica del tempo che corre, che viene sprecato nell’attesa, perdendo di vista le cose belle e importanti che già si hanno, e ritorna anche la speranza costruttiva, quella che supera le avversità e riaccende gli animi feriti; “ma se qualcosa ci farà tornare, impareremo a chiamarlo amore”: si intravede una luce, non tutto è perduto e l’augurio di una riconciliazione in amore si sovrappone ad un messaggio, più ampio, di non disperdersi mai in un’incomunicabilità che non sa sognare.

Destini (da La grande festa, 2005) è un altro compendio ontologico, che ricalca gli argomenti affrontati in Senza musica e senza parole, ma in maniera più esplicita.

“Sono destini, sono appesi ad un filo

e stanno lassù, più su del cielo.

Sogni lontani, desideri vicini,

tutti i domani sono destini.

Tanti destini.”

Dopo simili parole, non c’è molto da aggiungere: l’universo è popolato da infiniti destini, alcuni solo ipotetici, altri effettivi, ma tutti dotati del mutevole motore della fantasia fino al loro incontrovertibile verificarsi.

In alcuni casi, purtroppo, è la sorte a scegliere e nessuno può vantare un cambio degli attori in scena in extremis, anche se determinato: il Covid ha sottratto la vita a Stefano D’Orazio, nella terribile solitudine di un ospedale, come sta accadendo a molti in questo periodo, vanificando gli ottimismi e ogni disperato tentativo di opporsi al male; la musica non sarà più la stessa.

Ho ripreso ad ascoltare gli zii con i ritmi della mia adolescenza: metto un album, qualche traccia la risento più di una volta, poi si conclude; faccio partire un altro album, mi rendo conto che lo so ancora a memoria, e intanto termina anch’esso, ma sono già al secondo ascolto.

Mi prendo una pausa e accendo la radio, arrivo a malapena a dieci secondi e la spengo: la musica non è più la stessa da un pezzo.

Adesso sono finite anche le parole.

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