Riprendiamo  il viaggio iniziato con il nostro articolo dedicato all’immagine della peste durante l’epoca antica e medievale. La tematica trionfale avrà lunga fortuna, come testimonia il Trionfo della Morte, dipinto nel 1562 da Pieter Bruegel il Vecchio, in cui permangono e si coniugano insieme tutti i temi iconografici medievali come la danza macabra, i cavalieri dell’Apocalisse e la resurrezione dei defunti. L’opera mostra il trionfo della morte sulle cose del mondo, simboleggiato dall’esercito di scheletri che devasta la Terra. Sullo sfondo appare un paesaggio brullo in cui si svolgono ancora scene di distruzione. In primo piano la Morte cavalca un cavallo rosso distruggendo il mondo dei vivi. Si tratta di una morte senza speranza di salvezza, che coinvolge tutte le classi sociali. L’IMMAGINE DELLA PANDEMIA: ICONOGRAFIA DELLA PESTE NEL 1600 Direttore responsabile: Claudio Palazzi

Pieter Bruegel il Vecchio, Trionfo della morte,1562, Madrid, Museo del Prado

La figura femminile della morte-pestilenza persisterà a lungo e ne troviamo una descrizione nell’Iconologia di Cesare Ripa nella voce Peste, ovvero Pestilenza «Donna vecchia, macilenta, e spaventevole, di carnagione gialla, sarà scapigliata, e in capo avrà una ghirlanda di nuvoli oscuri, sarà vestita di color bigio, sparso d’humori, e vapori di color giallaccio, starà a sedere sopra alcune pelli d’agnelli, di pecore, e altri animali, tenendo in mano un flagello con le corde avolte sanguinose. Come è questa figura per la vecchiezza, e color macilente, spiacevole a vedere, così la Peste, per la brutta, e maninconica apparenza universale, è horribile, e detestabile. La Carnagione gialla mostra l’infettione de’ corpi, essendo questo color solo in quelli, che sono poco sani della vita. I Nuvoli mostrano, che è proprio effetto del Cielo, e dell’aria mal condicionata. Il Color bigio è il colore, che apparisce nel Cielo in tempo di pestilenza. Le Pelli di molti animali significano mortalità, sentendo nocumento da questa infettione d’aria non pur gli uomini, ma ancora le bestie, che nel vivere dipendono da essi. Il Flagello mostra, che egualmente batte, e sferza ciascuno, non perdonando nè ad età, nè a sesso, nè a gradi, nè a dignità, nè a qual si voglia altra cosa, per cui suole andarsi ritenendo nel castigo il rispetto humano.» (Ripa 1766, pp. 375, 376). Egli unisce alla figura della donna quella del Lupo, ricordando come questi animali proliferassero nelle campagne vuote durante i periodi di peste.

Nel corso del 1500 vediamo il compenetrare di nuove iconografie nella tradizione figurativa, con le nuove immagini dedicate ai santi che avranno massima diffusione nel corso del 1600. Poiché i teologi consideravano la peste un castigo di Dio, solo i santi avevano il potere di proteggere gli uomini e calmare la collera divina. In quei giorni di angoscia si invocava innanzitutto la Vergine, il rosario recitato in suo onore appariva allora come il mezzo più efficace per lottare contro l’epidemia e si moltiplicarono le immagini ad essa dedicate. Gli artisti la rappresentano nell’atto di intercedere durante la peste, circondata dai santi che sin dal Medioevo venivano invocati per difendersi dal contagio e talvolta da altri personaggi i cui poteri miracolosi si erano manifestati in tempi più recenti (Mâle 1984, pp.327, 328).

In alcuni affreschi palermitani troviamo esempi di devozione verso i santi assurti a protettori nelle pandemie, di cui è esempio il dipinto risalente al 1530 del pittore campano Mario di Laurito per la Chiesa dedicata a Santa Venera, il cui miracoloso intervento fermò un siracusano infetto che si stava introducendo in città. Nella tavola è rappresentata una Palermo ideale della quale si riconoscono la Cattedrale con le torri scalari trecentesche e la facciata di Palazzo Sclafani. In alto i santi taumaturghi, Sebastiano e Rocco, insieme a Venera e alle Sante protettrici della città, chiedono la grazia che viene concessa dalla Vergine col Bambino.

Mario di Laurito, Madonna col Bambino e i Santi Rocco, Sebastiano, Venera, Cristina e altri Protettori di Palermo contro la peste, 1530, Palermo, Museo Diocesano

Quarantacinque anni dopo, nel 1575, un’altra epidemia colpì la città, tuttavia venne parzialmente arginata grazie alla fortunata presenza del protomedico del Regno di Sicilia, Giovan Filippo Ingrassia (1510-80), originario di Regalbuto, formatosi a Padova e docente a Napoli. Egli, chiamato a intervenire, individuò degli strumenti utili alla limitazione del contagio, tra i quali l’isolamento degli ammalati, la quarantena e la disinfezione dei beni degli infermi per mezzo del fuoco, accorgimenti che resero possibile il contenimento del numero dei decessi. Nonostante tali provvedimenti, si moltiplicarono le devozioni religiose al fine di ricevere la grazia. L’epidemia del 1627 decimò soprattutto l’Italia settentrionale.

A testimonianza di come l’evento non venne facilmente cancellato dalla memoria collettiva, Manzoni nei Promessi Sposi (1868, pp. 456, 357, 434) restituirà, quasi due secoli dopo, una descrizione puntuale della situazione milanese e del pensiero comune durante quel periodo. La peste colpisce senza rispettare alcuna gerarchia e la sua azione livellatrice determina l’idea dell’uguaglianza nei vivi come la falce che «pareggia tutte le erbe». Nella descrizione manzoniana ricorrono nuovamente i tòpoi citati, si imputa agli untori lo spargere polveri e unguenti: «i forestieri, sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia», e viene descritto l’incedere di Renzo in una città deserta.

Nel giugno del 1624, una nave berbera entrò nel porto palermitano procurando lo scoppio dell’epidemia alla quale si riuscì a porre rimedio solo per il salvifico intervento di Santa Rosalia, che da quel momento venne riconosciuta quale massima protettrice contro le pandemie. Anton van Dyck, presente nel capoluogo siculo in quei frangenti, fu autore di numerose raffigurazioni della Santa che contribuirono a forgiarne la classica iconografia che la vede incoronata dagli angeli, come nella più celebre versione conservata nella Galleria Regionale del Palazzo Abatellis e nella Madonna del Rosario e i santi Vincenzo Ferrer, Domenico, Caterina da Siena, Agata, Oliva, Cristina, Ninfa e Rosalia.

Anton van Dyck, Madonna del Rosario e i santi Vincenzo Ferrer, Domenico, Caterina da Siena, Agata, Oliva, Cristina, Ninfa e Rosalia, 1625-1627, Palermo, Oratorio del Rosario di San Domenico

Anche a Napoli, nel 1656, nel popoloso rione del Lavinaio, parte più bassa della città che sorgeva nei pressi del porto, si verificarono le prime morti giudicate anomale per l’età, per numero e modalità. In una Napoli ancora profondamente scossa dall’eruzione del Vesuvio avvenuta appena un ventennio prima, la situazione precipitò velocemente, provocando una strage senza precedenti. Per i pittori la peste divenne un pretesto per rappresentare scene affollate. Domenico Gargiulo, noto come Micco o’ Spadaro, pittore cronista degli eventi più drammatici dell’epoca nella città partenopea, nell’opera Largo Mercatello durante la peste del 1656, oggi conservata nel Museo di San Martino, restituisce un’immagine del sentimento drammatico della vita collettiva, del carattere sociale del morire, in una Napoli traboccante di moribondi e cadaveri abbandonati che vengono portati via dai monatti.

Domenico Gargiulo, Largo Mercatello a Napoli durante la peste del 1656, 1656, Napoli, Museo Nazionale di San Martino

Una testimonianza analoga ma meno tragica ci è tramandata da Carlo Coppola nel dipinto Scena della peste del 1656, ugualmente conservata presso il Museo Nazionale di San Martino.

Carlo Coppola, Scena della peste del 1656, 1656-1660, Napoli, Museo Nazionale di S. Martino

Luca Giordano nel capolavoro per la chiesa di Santa Maria del Pianto, oggi al Museo di Capodimonte, ci mostra una tipica organizzazione su un doppio registro, con in alto la porzione miracolistica dove San Gennaro è nel pieno della sua attività di protettore della città, mentre nella parte più bassa della composizione riporta il fatto di cronaca con il dettaglio straziante, che ebbe fortuna per oltre un secolo, di un bambino abbandonato al suo destino dalla madre appena morta mentre cerca disperatamente nutrimento dal suo seno.

Luca Giordano, San Gennaro intercede presso la Vergine, Cristo e il Padre Eterno per la peste, 1656-1660, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte

Ebbe particolare rilevanza anche la figura di San Giovanni Di Dio, protettore dei malati abbandonati, degli incurabili che muoiono senza speranza. Il Santo è riconoscibile dall’attributo della corona di spine che aveva il compito di rappresentare la virtù della sofferenza e di ricordare l’episodio biografico in cui la suddetta corona gli venne posata sul capo dalla Vergine e da San Giovanni, evento che lo spinse ad inoltrarsi con eroico coraggio sulla via del sacrificio (Mâle 1984, pp. 93, 94). Egli si dedicò in vita alla cura dei malati, dei poveri e delle prostitute, fu fondatore dell’ordine del Fatebenefratelli, congregazione che si fece carico del tentativo di limitare la diffusione del morbo, sfruttando il naturale isolamento garantito dalla posizione dell’isola Tiberina e dal Tevere, durante l’ultima gravissima pestilenza che colpì Roma nel 1656.

Una testimonianza dell’epoca riporta: Come si vede nell’immagine, a Roma i medici compaiono quando sono chiamati presso i loro pazienti nei luoghi colpiti dalla peste. I loro cappelli e mantelli, di foggia nuova, sono in tela cerata nera. Le loro maschere hanno lenti di vetro, i loro becchi sono imbottiti di antidoti. L’aria malsana non può far loro alcun male, né li mette in allarme. Il bastone nella mano serve a mostrare la nobiltà del loro mestiere, ovunque vadano.

È facile immaginare come la figura del medico della peste avesse un forte impatto nell’immaginario collettivo, associato all’idea della morte, divenne egli stesso rappresentazione della pandemia, come testimonia l’acquaforte del 1656 realizzata da Paulus Fürs Il medico della peste,  dove vediamo un medico abbigliato con una tunica nera lunga fino alle caviglie, guanti e occhiali protettivi, un paio di scarpe, un bastone, un cappello a tesa larga e una maschera a forma di becco dove erano contenute essenze aromatiche quali fiori secchi, lavanda, timo, mirra, ambra, foglie di menta, canfora, chiodi di garofano, aglio e, quasi sempre, spugne imbevute di aceto e paglia, con funzione di filtro.

Paulus Fürs, Il medico della peste, 1656

La peste ebbe un impatto nell’immaginario collettivo così forte che se ne trovano rappresentazioni anche in momento in cui l’epidemia non rappresentava più un pericolo. La peste di Roma, opera di Jules Elie Delaunay, risalente al 1869, venne forse ispirata dalla visita della chiesa di San Pietro in Vincoli, dove è conservato un affresco del 1476 raffigurante un’epidemia di peste. Il pittore francese rievoca l’immagine attraverso la trasposizione figurativa di un passaggio tratto dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine e che narra la storia di San Sebastiano in cui si legge: «Apparve allora, in tutto il suo splendore, un angelo buono il quale ordinò a quello cattivo, armato di un punteruolo, di battere sulle case di modo che, tanti colpi riceveva una casa, tanti sarebbero stati i suoi morti».

Jules Elie Delaunay, Peste a Roma, 1869, Parigi, Musèe d’Orsay

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