La pandemia ha fatto emergere le numerose storture e contraddizioni della nostra società. Una di queste è sicuramente quella dell’occupazione femminile e del gender pay gap, ovvero il divario retributivo tra uomini e donne. Non solo emersione, ma anche peggioramento: le donne, infatti, sono coloro che hanno più subito le conseguenze nel mondo del lavoro a causa della pandemia. 

I numeri 

L’ OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) ha infatti rilevato che tra il 2019 e il 2020 l’occupazione femminile mondiale è diminuita del 4,2% (corrispondente a 54 milioni di posti di lavoro) contro al 3% di quella maschile. La situazione in Europa segnala un calo nell’occupazione femminile del 2,5% e di quella maschile del 1,9%. E, nonostante, la crescita prevista nel 2021 supererà quella maschile non basterà a riportare i livelli di occupazione femminile a quelli precedenti alla pandemia. 

In Italia il tasso di occupazione nel 2019 era del 50% (soglia più alta mai toccata nel nostro paese), mentre nel 2020 è diminuito al 49%. Negli ultimi dati diffusi dall’Istat, risalenti al dicembre 2022, l’occupazione femminile è, tuttavia arrivata a toccare il massimo storico del 50,5%. La prospettiva, almeno in apparenza, sembra positiva. Tuttavia, se si va ad analizzare il dato in profondità, le problematiche del lavoro femminile non sembrano essere migliorate. 

Infatti, il 61,2% delle donne occupate ha contratti part time involontari (contro la media europea del 21,6%). Inoltre, l’80% dei contratti (sia maschili che femminili) registrati nel dicembre 2021 sono a termine. E anche i lavoratori autonomi continuano a diminuire: Confcommercio e Confesercenti l’hanno definita una vera e propria  “emorragia degli autonomi”. 

Una possibile soluzione: il congedo di paternità

Il numero dei contratti part time involontari è così alto perché, da stereotipo, la cura della prole e della casa è affidata alle donne. Donne che devono sacrificare le proprie aspirazioni professionali se vogliono costruire una famiglia.

Una possibile soluzione sarebbe quella dell’istituzione di un congedo di paternità di pari durata rispetto a quello di maternità per permettere una divisione più equa nell’assistenza ai figli. In Italia, tuttavia, la strada sembra ancora molto lontana. Nel 2022, infatti, i giorni di congedo retribuiti sono passati da 7 a 10, ma siamo ancora molto indietro rispetto alla media europea. Ad esempio, in Spagna, Germania e Svezia entrambi i genitori hanno pari diritti sia nella retribuzione che nel periodo di tempo del congedo parentale. 

Istruzione e occupazione giovanile femminile 

Altra problematica sembra essere quella dell’occupazione giovanile femminile. Infatti, il tasso di donne tra i 24 e i 35 anni occupate nel 2020 è pari al 33,5% con un divario di 18,2 punti percentuali rispetto alla stessa fascia d’età maschile. In ambito scolastico prima, e universitario poi, però, le donne hanno risultati migliori. Il voto medio di diploma è di 82,5/100 per le ragazze contro 80,2/100 per i ragazzi. E anche il voto di laurea è più alto: 103,9/110 per le donne e 102,1/110 per gli uomini. Se si considerano i livelli di occupazione per i laureati di primo livello a cinque anni della laurea l’occupazione maschile è del 92,4% contro l’86% per le donne a parità di titolo. 

Il divario non è solo presente nei tassi di occupazione, ma anche nella retribuzione. A cinque anni dalla laurea gli uomini percepiscono il 20% in più a livello salariale. E la disparità non è solo a parità di impiego, ma soprattutto nelle possibilità di impiego: sono gli uomini che occupano le posizioni più alte. 

Stereotipi o “differenze strutturali”?

Le ragazze, quindi, hanno risultati migliori ma il loro impegno non corrisponde al ruolo che occupano nel mondo del lavoro. In particolare, nell’ambito delle Stem (Science, technology, engineering and mathematics) la presenza femminile continua ad essere in minoranza. Da stereotipo, le donne sono considerate “meno capaci” in queste discipline, ma non esistono effettive prove a riguardo. Il problema sta nella socializzazione e nell’educazione delle studentesse. Le studentesse sono percepite in maniera diversa rispetto agli studenti da insegnanti, genitori e dagli stessi compagni e sono spinte a materie, sempre da stereotipo, “più adatte” a loro. Il risultato è quindi quello di un cane che si morde la coda. Se non si cambia il tipo di mentalità e il modo in cui vengono cresciute e indirizzate negli studi le ragazze, non cambieranno mai le loro scelte. Scelte che per una serie di motivi culturali verranno sempre influenzate dalla società.

E hanno fatto a lungo discutere negli scorsi mesi le parole di Alessandro Barbero a proposito. Il professore universitario ha parlato di “differenze strutturali” tra uomo e donna e del fatto che le donne manchino “di quella aggressività,  spavalderia e sicurezza di sé che permettono di affermarsi”. Anche in questo caso il problema è relativo al modo in cui le bambine, poi ragazze e donne, vengono cresciute. Le donne non sono poco aggressive e spavalde per motivi biologici, ma piuttosto perché viene insegnato loro che è sbagliato essere aggressive e spavalde. E, le donne che provano a sovvertire questo paradigma (che per gli uomini è positivo) vengono colpevolizzate perché non abbastanza docili.   

Oltretutto, in ambito universitario il divario non è presente solo nelle Stem, ma anche nelle facoltà umanistiche. Lo stesso Barbero, professore di storia, non si interroga sul perché, in facoltà a maggioranza femminile, coloro che intraprendono la carriera universitaria sono per la maggior parte uomini. 

Lockdown e lavoro femminile

Ma come mai questo divario si è così accentuato durante la pandemia? Il lockdown ha fatto emergere un aumento dell’impegno familiare che ha riguardato di più i soggetti femminili. Le donne quindi, durante il lockdown, hanno dedicato il loro tempo sia al proprio lavoro, sia al lavoro domestico. Pasti, pulizie, attenzione all’igiene, supporto e assistenza ai figli per la fruizione delle lezioni con la didattica a distanza. Tutto ciò ha contribuito a rinforzare i vecchi stereotipi di genere. 

Tuttavia, l’idea che il lavoro femminile vada sacrificato per la cura familiare non è una novità. La pandemia non ha fatto altro che peggiorare la precedente situazione in cui il lavoro delle donne risulta sacrificabile perché rappresenta, nella maggior parte dei casi, l’entrata minore per molte famiglie. E il salario è minore a causa del divario di genere nella retribuzione: anche qui siamo di fronte ad un ciclo che deve essere spezzato.

Siamo tutte Kim Ji-Young

Un libro molto interessante che offre una prospettiva completa e complessa sulla situazione è Kim Ji-Young, nata nel 1982 di Cho Nam-Joo (edito da La Tartaruga in Italia). Il libro offre uno specchio della società sudcoreana, ancora fortemente patriarcale. Tuttavia, la sua ambizione è universale: tutte le donne possono riconoscersi nei panni di Kim Ji-Young (nome molto comune in Corea) e nei piccoli soprusi che ogni giorno deve affrontare. La donna, dopo aver partorito, inizia a soffrire di un forte stato di dissociazione dalla realtà, assimilabile a quella che potremmo chiamare depressione post partum. Kim Ji-Young, infatti, dopo essersi laureata inizia a lavorare. Tuttavia, è trattata in maniera diversa dai suoi colleghi sul posto di lavoro e non le viene concessa una promozione. Dopo essersi sposata, rimane incinta ed è costretta a licenziarsi da un lavoro che le piace perché nessuno può occuparsi della figlia.

La domanda, in questo caso, è: è giusto dover rinunciare alle proprie aspirazioni professionali o alle proprie aspirazioni familiari? Perché le donne devono, quasi sempre, sacrificare una delle due opzioni?

Possibili soluzioni e Recovery Fund

Come si può cercare di risolvere questo problema? L’OIL , con il suo brief “Costruire un mondo più equo: i diritti del lavoro per le donne al centro delle strategie di ripresa dal COVID-19” indica alcuni sforzi da compiere per cercare di appianare il gender gap. Investire nell’economia della cura, attivare una rete di protezione sociale che coinvolga le donne, promuovere la parità di retribuzione e l’accesso alle carriere ed eliminare le molestie e le violenze sul posto di lavoro sono alcuni dei cambiamenti strutturali che dovrebbero essere messi in atto. 

E in Italia come ci si sta muovendo? Alcuni dei fondi stanziati con il Recovery Fund sono destinati al lavoro femminile. Si va dall’aumento dei fondi per gli asili nido, a quelli per le piccole e microimprese femminili, fino all’istituzione di un “Sistema nazionale di certificazione sulla parità di genere”. Le imprese che hanno risultati positivi nella certificazione riceveranno degli incentivi. Tuttavia, nonostante le misure economiche siano essenziali, ancor più essenziale deve essere un cambiamento sociale ed educativo. Infatti, il rischio è che questi incentivi siano solo una toppa che cerca di risolvere un problema molto più grande.  Bisognerebbe sovvertire il paradigma patriarcale che regge la crescita e l’educazione di uomini e donne per far sì che il divario di genere non esista già “in partenza”.

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