Il postapocalittico e 28 giorni dopo
Cos’è il postapocalittico? È un veicolo. Un veicolo attraverso il quale ripensiamo l’essenziale di ciò che è umano: la sua brutalità, ma anche la sua compassione, la sua fragilità, ma anche la sua capacità di ritrovare un senso, proprio a partire dalle piccole cose. Ciò è particolarmente vero per lo zombie horror, di cui 28 giorni dopo (2002) è uno degli esempi più riusciti. Il film non solo è divenuto un cult nella filmografia del genere, ma ha avuto un’influenza straordinaria sul suo sviluppo. Ma partiamo con ordine.
28 giorni dopo è un film del 2002, diretto da Danny Boyle e sceneggiato da Alex Garland. I due nomi sono di spessore: Boyle era già stato regista di film della caratura di Trainspotting (1998) e The beach (2000); Garland era già stato l’autore proprio del libro dal quale sarebbe stato tratto The beach¸ per poi arrivare a dirigere film quali Ex machina (2014), Annientamento (2018) e Civil war (2024). Nel 2002 esce 28 giorni dopo ed è una folgorazione: è la storia di Jim, Selena, Frank e Hannah, i quali, sperduti in un’Inghilterra dilaniata da un’epidemia terrificante, cercano di sopravvivere come possono. Lo spessore della sceneggiatura, le atmosfere lisergiche, la velocità degli zombie e le musiche che accompagnano la pellicola ne fanno un culto.
È così che un genere viene reinventato: gli zombie lenti, goffi e mangiatori di cervelli vengono sostituiti con una realtà molto più imprevedibile, dove all’orrore si sostituisce l’adrenalina, alla riflessione la reazione convulsa. Si gira a basso budget, trasformando un elemento di debolezza in punto di forza (la Londra lisergica di Boyle è la vera Londra, ripresa di mattina presto). Lo zombie horror, da ricordo del passato e poi genere di serie B, splatter e inoriginale, viene preso da Boyle e Garland, che lo riaffermano ed elevano a strumento di critica sociale. È un film punk, dirà Garland. Ne seguirà una lunga sfilza di pellicole, dal sequel 28 settimane dopo (2007) al remake di L’alba dei morti viventi a opera di Snyder. E dunque lo zombie horror è morto. Viva lo zombie horror!
Il postapocalittico nel mondo dopo l’11 settembre
Tra le spiegazioni culturali per la nascita di 28 giorni dopo, una di quelle più interessanti è sicuramente l’11 settembre. Il film, concepito prima dell’attacco di al Qaeda, sarebbe espressione di un senso diffuso di rabbia, poi esploso nel 2001. Come l’11 settembre era allora percepito come un evento senza senso, arrivato in maniera totalmente inattesa (anche se i segnali, avrebbero poi spiegato gli studiosi, erano ben presenti), Jim è colpito da una catastrofe che non comprende. L’estetica è anch’essa molto, troppo simile alle immagini di New York dopo il crollo delle torri e a quelle della war on terror: “immagini di una metropoli coperta di detriti, volantini di persone scomparse e brutalità militare”.
A colpire, con particolare forza, era anche il fatto che il virus, a differenza di altri contagi zombie, era sì una creazione dell’uomo, ma declinata in maniera piuttosto sofisticata: non un prodotto di sintesi emerso dall’onnipresente sperimentazione ad uso militare tanto in voga nel cinema dell’epoca, ma una creazione più propriamente della violenza umana: scimpanzé che, esposti alla visione continua di episodi di violenza, avevano sviluppato il virus della rabbia. Non c’è, chiaramente, nel film, il tempo necessario per spiegare il processo scientifico dietro questa dinamica – né forse essa è particolarmente chiara a Garland e Boyle – ma il messaggio è di enorme potenza. Non stiamo parlando più dello zombie che mangia cervelli, che metaforicamente fa perdere il senno agli individui, rappresentando poi nell’orda la perdita di individualità nella massa, un’ottica che se vogliamo è sottoprodotto di una psicologia delle folle leboniana; qui di Le Bon non c’è niente, perché la folla – o l’orda – non c’è: ci siamo solo noi, con la nostra viscerale, caustica, incontrollabile rabbia. E con la paura. Non sembra un caso, in quest’ottica, che la critica della violenza sia passata, nel trailer di 28 anni dopo (annunciato per il 2025), per una poesia di Kipling sull’orrore della guerra.
La città muta
La scena con cui si apre il film, dopo aver spiegato la nascita del virus, è ormai nota: Jim si ritrova in un ospedale, dopo essere stato in coma, e si trascina per Londra alla ricerca di sopravvissuti.
Un intero studio andrebbe condotto sull’iconografia del risveglio di Jim, nudo e storto, attaccato a un’apparecchiatura che lo tiene in vita. Completamente vulnerabile di fronte al caos scatenato dalla sua specie, una sorta di Cristo di Cimabue, che forse deve qualcosa anche al lavoro di Boyle in Trainspotting. Altrettanto rivelatore è però ciò che ne segue.
La scelta di dedicare lunghi minuti a un mondo vuoto, prologo all’incontro con l’orrore, la non-vita brulicante degli zombie è un cliché del genere – verrà ripreso da The walking dead. Possiamo però intravedervi, di nuovo, qualcosa di più sofisticato: è l’uomo che si rivolge ai suoi simili, non trovando nessuno. È funzionale a creare uno spazio nel quale interiorizzare il vuoto lasciato dalla vita quotidiana, banale, scontata, eppure preziosissima, degli esseri umani. Quando poi Jim si rivolge, metaforicamente, alle proprie istituzioni, trova il convitato di pietra del film: Westminster, Buckingham Palace, la cattedrale di St. Paul, Piccadilly Circus, l’intero insieme di landmarks della città, ma anche l’intero insieme di riferimenti politici, militari, spirituali ed economici del paese. Il protagonista si riferisce ad ognuno di loro, trovando solo un grande vuoto.
L’io è protagonista: l’io e l’asfalto, l’io e i grattacieli. L’io e il leviatano che è la città. La città è un blocco unico, di pietra e acciaio, e un interlocutore muto nel dialogo con l’individuo. Una città che nel suo negativo, la città vuota, non è ancora una città abitata dalla morte, ma una città ricordata, una lunga eco dell’umanità. Le primissime scintille del post-apocalittico.
Il protagonista chiede solo una cosa, ripetutamente e con frustrazione crescente: “aiuto!”. Nessuno risponde, solo l’eco. L’essere solo con la città e con le sue immense risorse, l’essere finalmente solo con l’oggetto del desiderio capitalista è tutt’altro che una celebrazione. È anzi un lutto. Quando Jim si rivolge alla chiesa, a conclusione del proprio tour, vi trova prima una massa di cadaveri, poi finalmente gli zombie.
Umano (troppo umano)
È da questo primo incontro che il film cambia ritmo, ma subito, non appena compare il pericolo, ecco che entra in azione l’aiuto: si rivela anche la presenza di altri esseri umani, Selena e Mark. Nel mezzo dell’apocalisse, Jim è accolto da uno dei tratti più straordinari e irriverenti dell’uomo: l’umorismo. Le prime parole amichevoli consisteranno infatti, non in una straordinaria citazione letteraria, ma in una freddura. “Non ha senso dell’umorismo”, sentenzierà Mark. È questa l’eco dell’umano, mentre cadute sono le istituzioni – “né governo, né polizia. Né esercito”, ma anche la famiglia: “anche i tuoi saranno morti”. Jim proverà a rintracciarli, scoprendo solo due corpi e un messaggio che ci spezza tutti, personaggi e spettatori: “With endless love, we left you sleeping. Now we’re sleeping with you. Don’t wake up”. “Con un amore senza fine, ti abbiamo lasciato dormire. Ora dormiamo con te. Non ti svegliare”.
Finora non abbiamo parlato molto degli zombie, vero? Non è casuale. Gli zombie si vedono poco, nel film, anche per ragioni di suspance. Tuttavia, le ragioni sono anche altre. In 28 giorni dopo (e, con minor intensità, in The walking dead), l’orrore non è fine a se stesso, ma è uno specchio, un negativo con il quale ci confrontiamo, confrontando con esso anche il nostro mondo. Non a caso, nelle musiche emerge d’improvviso un Ave maria, o la meravigliosa An ascending di Brian Eno: sono le piccole cose che ti fregano, avrebbero poi cantato i Linkin Park. Anche nelle tragedie. Le piccole cose che acquisiscono intensità proprio nel buio, come un picnic tra le rovine – non troppo diverso dalla splendida, analoga scena di Easyrider o quella altrettanto potente di Il settimo sigillo – o una figlia che scherza col padre. Le piccole cose che faranno ammettere a Selena che “mi sbagliavo a dire che il meglio che possiamo fare è sopravvivere”.
Benvenuti a Zombieland riprenderà il tema, facendo ammettere al protagonista che i suoi compagni di viaggio potessero essere la sua nuova famiglia. Così come riprenderà, in chiave ironica, l’idea che non ci possono essere luoghi sicuri. I protagonisti di 28 giorni dopo lo scopriranno loro malgrado, finendo in un incubo, intrappolati in una stazione militare i cui soldati sono ormai fuori controllo.
La rabbia e noi
Nella villa occupata dai militari – i rimandi a Resident Evil qui sono chiarissimi – Jim si troverà a sfuggire fortuitamente a un’esecuzione. Un’esecuzione che è, tra le altre cose, un’immagine lucidissima dell’immaginario postapocalittico: un’anarchia istituzionale della violenza, dove emerge la pura lotta per la sopravvivenza e l’uomo è (anche per cliché) il vero nemico, ma anche un’ossessione martellante per il futuro: “Gli ho promesso le donne. Perché una donna vuol dire futuro”. Questo scatenerà la violenza contro Selena e Hannah, questo scatenerà la rabbia di Jim, everyman alla fine del mondo.
Ne uscirà una sequenza di uccisioni violentissime, a un soffio dallo splatter, ma incardinate alla perfezione nella narrazione. Ne seguirà, però, anche il ricongiungimento tra Jim, Selena e Hannah. Jim è ormai indistinguibile da uno zombie, ma non importa. Selena, che gli aveva in precedenza giurato che l’avrebbe ucciso “in un soffio”, se l’avesse visto trasformarsi, esita a farlo. A chiudere tutto, come era iniziato, l’umorismo: “È durato più di un soffio”, commenterà Jim. La rabbia, come gli eventi che a noi sono apparsi apocalittici, non erano che una piccola, tragica storia, in una trascurabile, tragica epidemia limitata alla Gran Bretagna. Gli aerei volano ancora, e dunque si può finire la storia all’inglese, in un cottage sul lago, in attesa dei soccorsi. Keep calm and carry on, che anche l’apocalisse passerà.
Si ritorna così a Romero, e alla sua rappresentazione degli zombie, eco delle tensioni razziali di fine anni Sessanta. Boyle, dopo tutto, voleva parlare di noi, della sua epoca paralizzata dalla rabbia, ma anche della nostra rabbia. Ci parla, però, forse a differenza di Romero, anche di speranza, di quella che si annida nelle piccole cose, in un picnic tra le rovine, in quella forma di socialità che forse potremmo ricondurre alle comunità di destino:
La evidente crisi dei legami orizzontali e verticali che caratterizza le società contemporanee richiede dunque un cambiamento della prospettiva, e in particolare un passaggio dalle origini al destino comune come contenuto e ragione dell’appartenenza alla comunità politica. La “comunità di destino”, in questo caso, non va intesa nella chiave del nazionalismo del Novecento, ma esattamente in senso opposto, definito da Étienne Balibar: “una comunità senza comunità, o senza una previa sostanza condivisa”, che si genera nel fronteggiare insieme situazioni critiche.[1]
Tale sembra la condizione dei protagonisti di 28 giorni dopo. Tale appare, oggi, la nostra comune condizione.
[1] G. Moro, Cittadinanza, Mondadori, Milano 2020, p. 113.