Domenica 12 giugno 2022, oltre 51,5 milioni di elettori italiani sono stati chiamati alle urne per votare cinque referendum abrogativi sulla giustizia. Nessuno dei cinque quesiti referendari, promossi da Lega e partito radicale, ha raggiunto il quorum di partecipazione richiesto affinché i voti espressi possano essere considerati validi. Ma quali sono le ragioni di questo storico “flop”?
Andando per ordine: cosa è un referendum abrogativo?
Il referendum abrogativo è disciplinato dall’articolo 74 della Costituzione italiana. Si tratta di un istituto che permette agli elettori di eliminare, totalmente o parzialmente, una legge (o un atto avente forza di legge) in vigore. Nel caso del referendum del 12 giugno, sono stati cinque i quesiti sottomessi al voto degli aventi diritto.
Una richiesta referendaria può essere presentata da un minimo di 500.000 elettori o da almeno cinque Consigli regionali. Leggi tributarie, di bilancio, di indulto, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, non possono essere sottoposte a referendum.
Affinché la proposta soggetta a referendum sia approvata, un doppio “quorum” deve essere soddisfatto:
- la partecipazione alla votazione della maggioranza degli aventi diritto,
- ottenere la maggioranza dei voti validamente espressi in favore dell’abrogazione (votando “SÌ’”).
I 5 referendum, analisi
Come già accennato, i referendum sulla giustizia del 12 giugno erano cinque. Per ciascuno di questi, sono state associate cinque schede di diversi colori per facilitarne l’identificazione.
Referendum n. 1, scheda di colore rosso: abrogazione della legge Severino
La c.d. Legge Severino, dal nome della ministra della Giustizia del governo Monti, consiste nel decreto legislativo del 31 dicembre del 2012, n.235 intitolato “Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi”. In poche parole, la legge vieta di ricoprire incarichi di governo o di essere candidati alle elezioni politiche o amministrative, in caso di condanna in via definitiva per determinati reati. La legge si applica a deputati, senatori e membri del Parlamento Europeo condannati a più di due anni di carcere per reati di mafia, terrorismo, corruzione o concussione. La Legge è altresì valida in caso di delitti dolosi o preterintenzionali cui conseguano non meno di quattro anni di carcere. Per le cariche regionali e gli amministratori locali, il decreto Severino prevede la sospensione dalla carica, in via automatica, anche in caso di condanna con sentenza non definitiva. Il limite temporale per la sospensione è di 18 mesi. Il primo quesito referendario chiedeva se si fosse d’accordo alla cancellazione, in toto, di questa legge.
Le ragioni del sì
I sostenitori del referendum si schieravano (e si schierano tutt’ora) contro l’automatismo (di incandidabilità e ineleggibilità) che comporta la Legge Severino. Il sistema, per i promotori del referendum, sarebbe più equo se, come accadeva prima della Legge, fossero i giudici a decidere, caso per caso, se infliggere o meno la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Soprattutto, ritengono incostituzionale la sospensione degli amministratori locali e dalle cariche regionali in assenza di condanna definitiva.
Le ragioni del no
In realtà, anche coloro che si opponevano al referendum, sono d’accordo sull’eliminazione della sospensione automatica in mancanza di condanna con sentenza definitiva (per le cariche regionali e gli amministratori locali). Tuttavia, se avesse vinto il “sì”, la legge sarebbe stata abrogata nel suo complesso. Pertanto, anche ai condannati in via definitiva, sarebbe stato concesso di candidarsi o di continuare il proprio mandato, salvo diversa decisione del giudice. Questo, per i sostenitori del “no”, era ed è inaccettabile.
Referendum n. 2 , scheda di colore arancione: limitazione delle misure cautelari
Le misure cautelari sono provvedimenti provvisori e immediatamente esecutivi che limitano la libertà del singolo, prima dell’emanazione di una sentenza. Le misure cautelari possono essere personali (se incidono sulla libertà dell’indagato, ad esempio la carcerazione preventiva) o reali (quando incidono sulla libertà di disporre dei propri beni). Il codice di procedura penale, all’articolo 274, definisce le esigenze per cui si applicano le misure cautelari personali: pericolo di fuga, rischio di inquinamento delle prove, rischio di reiterazione del reato. Se avesse vinto il “sì”, sarebbe stata eliminata l’ultima parte dell’articolo 274, ossia la possibilità, per i reati meno gravi, di motivare una misura cautelare con il pericolo di reiterazione.
Le ragioni del sì
Per i promotori del referendum, negli ultimi anni si è abusato delle custodie cautelari, violando spesso il principio della presunzione di innocenza.
Le ragioni del no
Chi sosteneva il “no”, sottolineava che l’abrogazione della legge avrebbe reso difficile predisporre misure cautelari per reati di stalking, corruzione, estorsioni, rapine e furti. Inoltre, affermava che il referendum non avrebbe eliminato il rischio di mettere in carcere persone innocenti. Questo perché le misure cautelari sarebbero rimaste in vigore per le altre motivazioni (pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione per reati di particolare gravità, come quelli commessi con armi o altri mezzi violenti o di criminalità organizzata). Si fa notare anche che lo stesso articolo 274 prevede dei limiti all’applicazione delle misure cautelari in caso di pericolo di reiterazione. Infatti, la custodia cautelare può essere disposta solo per delitti cui consegue un periodo di carcerazione non inferiore a quattro anni. Se la custodia cautelare è in carcere, può essere predisposta solo in caso di delitti per cui è previsto un periodo di reclusione di almeno 5 anni.
Referendum n.3, scheda di colore giallo: separazione delle funzioni dei magistrati
I magistrati si dividono in due grandi categorie sulla base di una distinzione funzionale: funzione giudicante e funzione requirente. La funzione giudicante è la funzione svolta dai giudici che, per l’appunto, giudicano e quindi decidono sulle controversie loro sottoposte. La funzione requirente è esercitata dal pubblico ministero (c.d. PM) che esercita l’azione penale e formula l’accusa. Il PM svolge una funzione requirente, ossia formula richieste o pareri ogniqualvolta si rapporta con il giudice. Quest’ultimo deve decidere sulle sue richieste (ad esempio, se accogliere o meno una richiesta di applicazione di misura cautelare).
Il quesito referendario (il più lungo tra tutti e cinque) chiedeva agli elettori se volessero eliminare tutte quelle (numerose) disposizioni che consentono ai magistrati di passare da una funzione all’altra (dalla requirente alla giudicante o viceversa). La normativa esistente prevede dei limiti a questa possibilità: il passaggio è consentito per un massimo di quattro volte. Se avesse vinto il “sì”, i magistrati avrebbero dovuto scegliere la loro funzione a inizio carriera, senza la possibilità di cambiare idea.
Le ragioni del sì
I sostenitori del “sì” ritenevano (e ritengono) che separare nettamente le due funzioni, consenta una maggiore imparzialità, equità e indipendenza dei magistrati.
Le ragioni del no
I sostenitori del no, viceversa, affermavano che l’istituto del referendum non sia lo strumento adatto a modificare così radicalmente il sistema. Considerando che il Titolo IV della Costituzione, dedicato alla magistratura, contiene principi uguali per tutti i magistrati, indipendentemente dalla funzione che svolgono, si porrebbe un problema di incompatibilità con la Costituzione. Pertanto, sarebbe più opportuna una revisione della stessa. Chi si opponeva al referendum vede, in generale, la possibilità di passare da una funzione all’altra come un bene. Al contrario, separare definitivamente le due funzioni renderebbe i magistrati isolati e quindi più suscettibili a un controllo del governo.
Referendum n.4, scheda di colore grigio: partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari
Ogni quattro anni, il Consiglio superiore della magistratura (CSM), valuta i magistrati sulla base di pareri motivati, ma non vincolanti, del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari. Il CSM è l’organo di garanzia dell’indipendenza esterna dei giudici ordinari. La Corte di Cassazione si pone al vertice della giurisdizione ordinaria e a chiusura del sistema come giudice di ultima istanza. I Consigli giudiziari sono costituiti presso ciascun distretto di Corte d’Appello e sono organi “ausiliari” del CSM. Il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e i Consigli giudiziari hanno una composizione mista (come il CSM). Vi sono membri che ne fanno parte di diritto, poi vi sono i magistrati e infine i membri laici. Questi ultimi sono sostanzialmente avvocati e professori universitari in materie giuridiche. I membri laici non partecipano alla formulazione dei pareri sulla cui base il CSM giudica professionalmente i magistrati.
Se avesse vinto il “sì”, anche i membri laici avrebbero partecipato alla valutazione dei magistrati.
Le ragioni del sì
I sostenitori del referendum ritenevano che la partecipazione della componente laica, avrebbe permesse una valutazione dei magistrati più oggettiva ed equilibrata, che altrimenti rimane molto autoreferenziale.
Le ragioni del no
Chi era contrario al referendum, sottolineava che gli avvocati, in un processo, sono la controparte dei PM. Dunque, permettendo a questa componente laica di valutare i magistrati, si espone il sistema al rischio di pareri prevenuti o ostili. Secondo poi, verrebbe meno la terzietà dei PM, che si potrebbero dover confrontare con gli avvocati chiamati a valutarli.
Referendum n. 5, scheda di colore verde: abrogazione di norme in materia di elezione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura
Nel CSM, l’organo di autogoverno della magistratura, siedono, di diritto, il presidente della Repubblica, che lo presiede, il Primo presidente della Corte di Cassazione e il Procuratore generale presso la stessa Corte di Cassazione. Gli altri membri sono elettivi: due terzi sono eletti da tutti i magistrati ordinari (e divengono i c.d. membri togati del CSM), un terzo dal Parlamento in seduta comune (e divengono i c.d. componenti laici del CSM). Un magistrato che voglia candidarsi a membro del CSM, deve raccogliere almeno 25 firme (massimo 50) di altri magistrati.
Il referendum chiedeva l’abrogazione della legge del 24 marzo del 1958, n. 195 intitolata “Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura”, propria dove richiede l’obbligo di raccolta firme per potersi candidare come membri del CSM.
Le ragioni del sì
I promotori del referendum, sostenevano (e sostengono) che la raccolta firme determina la “fidelizzazione” dei candidati alle varie correnti politiche interne al CSM. L’obiettivo del referendum, era proprio eliminare una dinamica per cui le cariche vengono ripartite sulla base dei diversi orientamenti politici. Chi sosteneva il “sì”, voleva che ci si focalizzasse esclusivamente sulla professionalità dei magistrati.
Le ragioni del no
Chi sosteneva il “no”, affermava come la raccolta firme non sia di per sé negativa. In primis, permette di scremare le candidature. Per di più, le correnti non sono qualcosa di diabolico e losco, ma solo raggruppamenti di persone con in comune ideali e principi. Gli oppositori al referendum, sottolineavano anche che se proprio si volesse ridurre il potere delle correnti, sopprimere l’obbligo di presentare le firme non è una soluzione determinante.
Il “flop”
Come sopra specificato, affinché una proposta referendaria venga approvata bisogna soddisfare il doppio quorum. Il primo, consiste nella partecipazione della metà degli aventi diritto; il secondo nell’ottenere la maggioranza dei voti espressi per il “sì”. Nel caso dei referendum sulla giustizia, nessuno dei cinque ha raggiunto il quorum di partecipazione necessario. Secondo i dati che ci pervengono dal Ministero degli Interni, l’affluenza si attesta intorno al 20.9%, ben lontana dalla soglia del 50% più uno degli aventi diritto.
Sempre in base agli scrutini ufficiali, il sì ha prevalso in tutti e cinque referendum. Tuttavia, solo negli ultimi tre quesiti referendari si registra una vittoria schiacciante:
- Abolizione della Legge Severino: il sì prevale solo per il 53.97%.
- Limitazione delle misure cautelari: il sì prevale solo per il 56.21%.
- Separazione delle funzioni dei magistrati: il sì prevale nettamente con il 74.01%.
- Valutazione dei magistrati da parte dei membri laici dei consigli giudiziari: il sì prevale nettamente con il 71.94%.
- Elezione dei componenti togati del CSM: il sì prevale nettamente con il 72.52%
Ciò nonostante, non essendo stato raggiunto il quorum, il conteggio dei voti espressi è privo di valore.
Le cause del fallimento
Le ragioni per cui il referendum non ha raggiunto la soglia di partecipazione necessaria sono multiple.
Troppi tecnicismi e poca informazione
Uno dei motivi principali per cui il referendum non ha allettato gli oltre 51.5 milioni di elettori chiamati a esprimersi, è probabilmente il carattere altamente tecnico dei quesiti referendari. Il referendum è stato molto settoriale, con ad oggetto tematiche giuridiche che non hanno suscitato un forte richiamo nella popolazione. Considerati dai più come affari lontani dal cittadino di comune, molti elettori si sono disinteressati, fin da subito, dei cinque quesiti referendari. Inoltre, sia le campagne per il “sì” che quelle per il “no” sono state molto deboli, persino da parte degli stessi promotori dei referendum. Tutto ciò ha portato una certa confusione in capo agli elettori, alcuni dei quali ignari di essere chiamati a esprimersi fino a qualche giorno prima della votazione. Non dimentichiamo inoltre, che con una guerra persistente ai confini orientali dell’Unione Europea, quella tra Russia e Ucraina, l’appeal di cinque referendum sulla giustizia diviene ancora più scarso.
Riforma Cartabia
Un altra considerazione da fare sul fallimento dei referendum sulla giustizia, chiama in causa la c.d. Riforma Cartabia. Dal nome del Ministro della giustizia che l’ha proposta, Marta Maria Carla Cartabia, la Riforma, a metà strada in Senato, risponde a tre dei cinque quesiti referendari: elezione dei membri togati del CSM, valutazione della professionalità dei magistrati e separazione delle funzioni.
Nel caso delle modalità di elezione dei membri del CSM, per ridurre il peso delle correnti interne, si prevede un sistema di elezione misto, maggioritario e proporzionale. In linea con il quesito referendario, la Riforma elimina l‘obbligo della raccolta firma.
Per quanto riguarda la valutazione dei magistrati, la Riforma stabilisce che ad esprimere pareri sulla loro professionalità siano sono gli avvocati, escludendo quindi, a differenza del referendum, i docenti universitari.
Sulla separazione delle funzioni dei magistrati, la Riforma consente un solo passaggio tra funzione giudicante e funzione requirente (e viceversa), entro i primi dieci anni di carriera. Il referendum invece, eliminava completamente la possibilità di cambio.
Probabilmente, per prendere atto del (non) risultato dei referendum, verranno proposti emendamenti alla Riforma Cartabia.
Strategia elettorale
Se è vero che l’affluenza al referendum è stata talmente bassa da essere un record; se è altrettanto innegabile il disinteresse per questa tematica così tecnica; non si può tuttavia dimenticare che non votare un referendum con un quorum di partecipazione è una strategia. Molti elettori, contrari a tutti e cinque i quesiti referendari, hanno preferito non andare a votare di modo da impedire il raggiungimento della soglia in entrata. La scarsa affluenza al voto, è stata annunciata giorni prima della votazione. Perciò, molto semplicemente, svariati elettori, sfavorevoli ai referendum, hanno pensato: “perché scomodarsi?”.
Considerazioni finali: il solito menefreghismo?
Il “fiasco” dei referendum del 12 giugno, è stato più volte spiegato come disinteresse dei cittadini a tutto ciò che è vita politica. Questa considerazione, sembra totalmente in linea con un trend che vede, da diversi anni, diminuire la percentuale di elettori che si recano alle urne per votare i referendum abrogativi. In realtà, quasi certamente, tematiche a carattere più politico e/o sociale, avrebbero riscosso molto più successo. Appare dunque, una valutazione piuttosto superficiale ridurre tutto alla noncuranza degli elettori. Non su tutte le questioni, l’elettorato preferisce delegare le decisioni ai propri rappresentanti.