La situazione è grave. L’avrete sentito dire e forse ve ne sarete anche convinti. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare però il problema è ad oggi scarsamente avvertito nella sua reale dimensione. Accade alla classe politica, ma anche alla popolazione che guarda comunque con un occhio di timore ad una situazione complessa e contraddittoria.
La vera immagine di queste elezioni è quella di Pierluigi Bersani, che dopo una lunga e inguardabile latitanza rivela quello che ormai tutti sapevano: il PD non ha vinto. Già, perché la spasmodica corsa a queste storiche elezioni si è conclusa in maniera alquanto interessante, piuttosto simile a quando si è in procinto di congratularsi con una signora chiedendo la data del lieto evento e poi ci si accorge appena in tempo che è solamente ciccia. Sono queste, elezioni in cui non ci si prodiga nel dichiarare di aver vinto, ma più realisticamente di non aver perso. Al limite ci si affaccia timidamente per sottolineare che l’importante è partecipare. Prima di essere sommersi da fischi, sia chiaro.
Il punto è infatti che -come si sottolinea da tempo- con il Porcellum la trasformazione dei voti in seggi nella Camera funziona troppo, nel Senato troppo poco. Ci si ritrova quindi con la prima inflazionata di rappresentanti del centrosinistra (340 in tutto), mentre la seconda boccheggia, con addirittura 113 senatori PD, SEL e Crocetta contro i 116 della lista Berlusconi. Il che significa sostanzialmente l’impossibilità di assicurare un degno iter legislativo, figurarsi un governo relativamente stabile. Ed è qui che la cosa si fa interessante. Si prospetterebbe in questo caso una serie di manovre possibili al fine di assicurare la maggioranza al senato, oppure per andare ad elezioni rafforzandola con il voto.
La prima possibilità è evidentemente l’avvicinamento del PD ad altre liste presenti in Senato, pur se decimate dalla improbabile soglia minima dell’8%. In questo caso le opportunità non sono molte: M5S o Lista Monti. Per quanto riguarda Monti, la scelta intelligente di presentarsi da soli lasciando fuori FLI e UDC ha dato i suoi frutti, permettendo l’accesso al Senato. In caso contrario, come dimostrano i risultati della Camera, i partiti di Fini e Casini avrebbero attirato parte dei consensi, rischiando di far scendere Monti sotto la soglia senza riuscire essi stessi ad entrare. I 18 seggi raggranellati non sono certamente però un peso sufficiente per sbloccare il sistema.
Per quanto riguarda il Movimento 5 Stelle, è improbabile che un’alleanza si prospetti per un prossimo futuro. Più incerta è invece l’ipotesi di un “compromesso storico”, capace di scivolare nel nostro caso in una soluzione più fluida, capace di mantenere il carattere d’indipendenza sul quale il Movimento si fonda, agganciandolo però inevitabilmente al centrosinistra. Ed è questo un elemento da non sottovalutare. Il M5S infatti, pur nelle sue derive e nella sua tendenza allo slogan, continua a fondarsi su dinamiche prevalentemente orizzontali. Non si evidenzia infatti al suo interno la genesi di una nomenklatura né quella di un’intellighenzia. Rimangono fuori quindi sia quadri decisionali refrattari, sia intellettuali di partito. Un allineamento a sinistra opererebbe in qualche modo come forza d’attrazione degli sforzi dei movimentisti -nome più appropriato di “grillini” o “attivisti”- per il quale si pagherebbe uno scotto nella tendenza alla disintermediazione fino ad oggi propugnata. Il rischio che figure atte alla costruzione di un’ideologia appaiano durante questo processo è infatti probabile. L’analogia con il PCI del compromesso -in tale proiezione ipotetica- si riempirebbe allora di una valenza differente, ad oggi esclusivamente nell’essere entrambi ascrivibili alla categoria dei partiti anti-sistema.
L’idea che però tale dinamica possa anche solo avviarsi rimane al momento ampiamente improbabile. Non solo perché, checché ne dica Berlusconi il Movimento non è certo un covo di elementi da centri sociali, ma soprattutto perché una volta riconosciuto il successo sarebbe alquanto bizzarro vederli recedere dalla prospettiva di giungere ad un ulteriore voto ulteriormente rafforzati.
M5S e Monti appaiono quindi l’uno blindato, l’altro inefficace. Prevarrebbe di conseguenza l’ipotesi di una legislatura “di servizio”, atta esclusivamente a realizzare tre obiettivi: legge elettorale, elezione del Presidente della Repubblica, applicazione della ricca strategia “prega e spera” (ridiscutere con l’elettorato le quote di voto, tamponare in qualche modo il panico della borsa, cercare alleanze in parlamento). Se però fino ad ora si era nel kafkiano, si sfocia ora nel parossismo. Perché secondo dettame costituzionale, lo scioglimento delle camere toccherebbe a Napolitano, il quale non può agire in tal senso negli ultimi sei mesi del proprio mandato, qualora non si tratti contemporaneamente degli ultimi sei mesi di legislatura. Sarebbe quindi necessario eleggere un nuovo Capo di Stato e -sorpresa- la maggioranza in parlamento è risicata. Certo, va ricordato come i rappresentanti della camera bassa siano il doppio di quelli del Senato, quindi sarebbe relativamente più agevole un accordo, trattandosi di una votazione in seduta comune. Questa strategia è però rilevante sotto un diverso punto di vista.
Siamo infatti adusi a compromessi relativamente pietosi, quindi non ci stupiremmo certamente di fronte ad un uso strumentale del potere di elezione che il Parlamento detiene. Non è improbabile infatti che a capo dello stato venga scelto un uomo del partito satellite in questa legislatura, e venuti meno M5S e Monti l’ipotesi più probabile sarebbe di conseguenza quella di una grande coalizione, pur se per un periodo relativamente breve. Il principale indiziato è in questo senso il PdL, le cui mire sul Quirinale sono ben note. Eh, già. Sorpresi, vero? L’eterno ritorno di B. giungerebbe quindi alla sua straordinaria conclusione in rima baciata. Ma c’è di più. Come infatti hanno sottolineato più osservatori, l’ipotesi di riunire nuovamente centrodestra e centrosinistra significherebbe l’implosione di un Partito Democratico inesorabilmente segnato dall’infausta alleanza, oltretutto senza poter contare su dinamiche personalistiche capaci di compattare l’elettorato. Se si giungesse quindi allo scenario prospettato il PdL immetterebbe nel suo principale competitor un poderoso cavallo di Troia, potendo inoltre contare sulla permanenza del proprio leader nel settennato.
E’ facile immaginare in tale ipotesi quale rigetto potrebbe originarne tra i cittadini, a quel punto ormai convinti che i partiti facciano cartello contro le riforme. E non si tratta neanche di una possibilità propriamente remota. Il vero dramma è infatti non tanto nel pareggio, ma nel modo in cui esso si è formato. Contiamo nel senato infatti due blocchi antitetici, nessuno dei quali più contare su alleati rilevanti. Ne deriverebbe quindi che ben poco si possa spostare in ulteriori votazioni, perché di certo un elettore PD non vota PdL e viceversa. La grande coalizione si impone quindi come strumento risolutorio. Ma è anche ad oggi il vaso di pandora dei partiti tradizionali, destinati -per una strana nemesi storica- a bloccare il parlamento ora o a perderlo domani.
Risulterà quindi chiaro quanto la situazione sia di gran lunga più grave di quanto comunemente percepito. Ma la vera chiave del nostro prossimo futuro è in realtà profondamente più antica. Non c’è -come scritto- nulla di nuovo sotto il voto. E il “non nuovo” è che siamo soli. Manca il governo, manca il parlamento, ma mancano anche il Presidente della Repubblica e, dulcis in fundo, il capo della Polizia. Uno scenario da colpo di stato, ed è una fortuna non avere oggi una qualche Alba Dorata nei dintorni di Montecitorio. Il colpo di stato non ci sarà, quindi, ma ad essere più o meno sicura è invece una certa dose di anarchia. Ed è ironico che a dirlo poi sia Kathimerini, ad oggi il primo strumento per monitorare dall’estero il tanto paventato scenario greco: che i greci guardino a noi con preoccupazione ha un che di straniante, più o meno un Dante occhieggiato con fare consolatorio da Ugolino. O almeno così la cosa ci è stata presentata.
Di certo la mancanza di punti di riferimento costringe una volta tanto i cittadini a muovere finalmente le proprie terga dalla poltrona, quella dove solitamente si adagiano una volta abbandonato il voto nelle mani dei partiti. La genesi dell’umano è infatti la morte dei simboli, perché è lì che vengono scatenati degli esseri liberi, ora responsabili di se stessi. Siamo soli, ma continuiamo pur sempre ad essere, proprio perché stavolta le promessine da politicante ingelatinato sono scomparse in una elegante nuvoletta ed un altrettanto elegante “puff”. Non è insomma più possibile starsene a guardare il paese che affonda. Siete padroni del vostro destino, fate la grazia di non giocarvelo nuovamente in biglietti della lotteria. Siamo tutti interconnessi.