Al quarto scrutinio il Presidente della Repubblica è ancora perso tra le nebbie dei compromessi tra partiti. Nel bel mezzo di questo processo, con l’ipotesi Prodi fatta fuori dai franchi tiratori del PD, il centro-sinistra affronta la sua più grave crisi sin da tangentopoli, sull’orlo dell’implosione. A testimonianza del dramma vissuto attorno al segretario Bersani può essere agevolmente riportato proprio come vi abbiano fatto fronte politici come la Finocchiaro o Matteo Renzi. Che questa sia l’ora più buia non solo per il PD ma più in generale per il paese lo dicono gli sguardi attoniti, le espressioni allibite quando il neo-candidato del partito alla presidenza, Romano Prodi si schianta appena oltre la soglia dei 390 voti, contro un quorum fisso a 504.
Il differenziale che oggi fa tremare le nomenklature del centro-sinistra è oggi, in pieno paradosso, ancor più pesante dell’ormai classico spread capace di spazzare via l’ultimo governo Berlusconi. Nulla di imprevedibile, anzi, nonostante dopo aver massacrato il segretario i principali esponenti del PD abbiano fatto scomparire le tracce delle proprie responsabilità per la chiusura ad una qualsiasi possibilità di cambiamento. Lasciando oltretutto sulle spalle di Bersani le mazzate (e la conseguente erosione di voti) da parte di PdL e M5S.
Ciò che invece stupisce è la rapidità con la quale la voragine apertasi all’interno del partito si sia allargata fino a portarsi dietro l’intero paese. Qui sì che la parabola disegnata dalle elezioni del Presidente della Repubblica sorprende per gravità, ben oltre il limite dello psicodramma. In un’esplosione improvvisa si sono riaperte le ferite tra PD e PdL, tra PD e M5S, tra bersaniani e renziani, tra Bersani e i propri colleghi alle primarie, ma anche tra il partito e la sua base. Inevitabile che presto attorno al dramma si intreccino anche i già tesi rapporti tra parlamento e cittadini.
Fa pensare al riguardo quanto incommensurabili siano alcune dinamiche politiche. Passati per una crisi finanziaria finita con lanci di monetine al premier, per l’escalation di una crescente guerra economica intestina, evidentemente qualcosa si è spezzato quando di fronte alla limpida onestà di Stefano Rodotà è stata contrapposta l’immagine -pur rispettabile- di Franco Marini. E si è spezzato proprio dentro l’elettorato del PD, ormai devastato da anni e anni di harakiri. Inevitabile, a questo punto pensarla come Travaglio, che o sono veramente inetti o straordinariamente furbi. Così com’è inevitabile chiedersi come andrà a finire, se finalmente il PD concentrandosi riuscirà a fare la scelta giusta, almeno stavolta che ad insorgere si sono congiunti sia la base sia la nomenklatura (in maniera, va detto, piuttosto sospetta).
L’impressione, da un punto di vista politico è che lo scarso decisionismo del Partito Democratico l’abbia ridotto nella critica situazione di “combattere sui due fronti”. Se infatti il terrore di dipendere dal Movimento 5 Stelle è reale, di certo riuscire ad accomunarlo al PdL nell’unico carattere di poter succhiare voti da un PD in punto di morte ha del sublime in senso kantiano, un “orrido dilettevole”. Un italiano di fronte a ciò non può -in effetti- che prorompere in una smorfia a metà tra la risata e lo shock, qualcosa di simile ad una paralisi da ictus morale, derubato anche del privilegio di poter commentare con rancoroso sdegno. Lasciato lì a penzoloni su una strana malinconia di ciò che poteva essere ma per qualche strano destino non è stato. Non siamo nuovi d’altronde ad un senso di straniamento al limite dell’apolidia, compressi tra lo schiacciante egotismo di un ex-premier avido di consenso e un Partito Burocratico troppo intento a farsi i propri comodi affarucoli per pensare al paese. Inutile dire che la pagheremo, questa nostra ora più buia.