Era cominciata come una giornata piena solo di vecchi triti slogan, equidistribuiti tra Governo Monti, BCE e Austerity. Al di là dei tanti vuoti giochi di parole, quindi, nulla di ché. Qualche coro, tanti striscioni e interviste sporadiche. Questo fino al momento in cui, come sistematicamente accade, finisce per scoccare la scintilla. Tale momento non rimane nel vago, ma anzi può essere definito con precisione, indicando un tempo e un luogo, senza lasciare che qualche amabile discorso istituzionale finisca per confondere le acque, che poi fa comodo un po’ a tutti.

Innanzitutto va sottolineato come alla manifestazione di oggi abbiano partecipato molti studenti delle scuole superiori, oltre che professori. Entrambi hanno dimostrato, almeno a parole, molto più buonsenso degli universitari: parlano di ingresso dei privati nelle scuole, di motivi per restare e non scappare da questo disastrato paese. Anche Alessandro Mustillo, Segretario del Fronte Giovani Comunisti dice, intervistato, cose molto più razionali della maggior parte degli slogan urlati col megafono. Il tutto si svolge in Piazzale Aldo Moro, ubicazione dell’entrata centrale della Sapienza. E’ qui che convergono gli studenti delle varie facoltà, dopo che gli accessi a Fisica, Giurisprudenza, Lettere e Scienze Politiche sono stati (più o meno efficacemente) inibiti.

Lentamente accorrono studenti, fino all’avvio del corteo, attorno alle 11.15. L’evento, sul momento, non attira che l’attenzione di qualche turista e pochi vigili urbani, anche se da sopra l’elicottero della polizia continua a monitorare la situazione. I problemi, al solito, arriveranno più tardi.
I caschi sono pochi, le bandiere quasi assenti, ad eccezione di qualche immagine dei No Tav: Il corteo non appare nulla di più che una enorme passeggiata per Roma, alimentata da musica e cori poco sensati, a metà tra chi è rimasto agli anni ’70, dichiarando di voler occupare Montecitorio, chi risale agli anni ’40, promettendo di essere antifascista, e chi proprio non è uscito dall’ottocento,
spingendosi addirittura verso l’anticapitalismo. Solite questioni da corteo, naturalmente. Nulla di roseo, specialmente se si pensa all’effettiva propulsione intellettuale che le università dovrebbero assicurare. D’altra parte, però, non si può certo parlare di istinti terroristici o velleità di ghigliottinare il Re.
Di certo, comunque, non appare bava alla bocca degli studenti, quando si passa di fronte all’ITC

“Leonardo da Vinci”, scatenando una sorta di red carpet per gli allievi della scuola.

La manifestazione arriva poi a Piazza Venezia, e anche lì prevale un misto tra gita scolastica e cori alquanto generici, ad essere generosi. Nel mezzo dei monumenti la manifestazione scorre in una lentezza (per i giornalisti) esasperante, quindi per qualche minuto prevale la necessità di comprare da mangiare o di dissetarsi ad una fontana.

La gita, come presto tutti scopriranno, è però finita. Sono quasi le due quando il corteo si inserisce in un collo di bottiglia pericoloso, visto il numero di manifestanti. Siamo arrivati sul Lungotevere, e qualcosa sta per cambiare. La tattica di contenimento adottata fino allora dalla Polizia – arretrare lentamente al fine di non creare attriti con gli studenti – è finita. Attorno alle due e mezza del pomeriggio l’atmosfera improvvisamente si gela: secondo molti giornalisti una folta rappresentanza di criminali armati e con la spasmodica necessità di ammazzare
o farsi ammazzare si sarebbe materializzata dal nulla. Ciò è, ovviamente, totalmente improponibile.

Quelli che giocano alla guerra
Quelli che giocano alla guerra

Basterebbe un semplice confronto tra gli scudi mostrati orgogliosamente a Piazzale Aldo Moro e quelli invece contrapposti alla Polizia sul Lungotevere: sono palesemente gli stessi. Vi capeggiano Lenin, Orwell, Steinbeck, Keruac. A questo punto, considerati i discorsi che, sperando che qualcuno li stia a sentire, aleggiano nelle varie facoltà, le possibilità sono fondamentalmente due. La prima è che dalle dichiarazioni di pace sia alla fine permeata una più realistica volontà di dimostrare di fronte a tutti un proprio miserevole potere, cedendo ad elementi pronti a far partire la sassaiola, senza alcun interesse per quelli che, come sempre, si sono trovati in mezzo.
Oppure andrebbe capito quanti di quelli che si sono andati a scontrare con la Polizia armati dei propri bei caschi abbiano a che fare con i Collettivi che da un po’ già ci martellano con blandi slogan, cercando di convincerci che davvero loro pensano a noi, invece che a se stessi.

Pensano a se stessi perché in quel famoso mezzo, con il rischio di farsi ammazzare dagli uni e dagli altri, rimangono giornalisti, fotografi, ma soprattutto proprio quegli studenti delle superiori che erano venuti a festeggiare una liberazione, senza per questo avere nei propri progetti quello di essere pestati per il divertimento di collettivi e polizia. Piove infatti di tutto, dalle pietre, alle bottiglie di vetro ai petardi, creando il panico, una volta dato il permesso di sciogliere i macellai delle forze anti-sommossa. E’ così sotto le cariche della Celere che diventa necessario fuggire, tra esplosioni, sassi e nubi di lacrimogeni.

Le forze di Polizia scelgono la via più umana, naturalmente, e quindi le cariche sono portate utilizzando come arieti le autoblindo. Lascio solo immaginare gli effetti in una strettoia come quelladel Lungotevere. Dove però le autoblindo non arrivano, giunge il fanatismo allucinato della Polizia, tra urla roche, occhi spalancati e manganelli in costante posizione di minaccia a chiunque si trovino
di fronte.

Dalla minaccia dei criminali di una fazione ci si ritrova sotto l’egida, il potere assoluto delle forze antisommossa, violenti della stessa specie, anche se al di là della barricata. Fanno ridere, a posteriori, le parole di un agente in borghese, seraficamente convinto che un ipotetico scontro non sarebbe stato che una “guerra tra poveri”. Assolutamente no. Volendo dare il proprio nome alle cose, questa è stata
una guerriglia tra gruppi paramilitari, ugualmente non solo inutili, ma dannosi per il nostro paese. I

Gli effetti di un incontro con la Polizia
Gli effetti di un incontro con la Polizia

poveri in tutto ciò non centrano nulla, al limite stanno lì a prendersi le botte da chi vive permassacrare, qualsiasi altro discorso non regge alla prova dei fatti di oggi.
E’ molto più veritiera l’immagine dei giornalisti con indosso l’adesivo Press, solitamente atto ad indicare che quello che si muove laggiù non è un nemico a cui sparare, ma un elemento della stampa. Scritte analoghe, per rendere l’idea, potevano essere viste in Bosnia ai tempi della guerra civile, o in Kosovo durante il massacro perpetrato dalle truppe di Milosevic.
Oggi, naturalmente, non si spara. Il sangue non è una buona pubblicità, specialmente se si tratta di un giornalista. I criminali che oggi hanno portato indegnamente un simbolo di protezione della popolazione come quello della Polizia hanno però mandato chiaro il loro messaggio. La politica attuata consta di tre atteggiamenti standard da adottare a proprio piacimento nei confronti dei manifestanti.

Gli uomini incappucciati, quelli armati di spranghe che non trovano un senso alla giornata se non fanno a botte con “le guardie”, quelli lì vanno isolati e massacrati fino a farli sanguinare. Una volta
ottenuto il potere più assoluto su di loro, rannicchiati per terra, l’eccitazione è portata ai massimi
livelli trascinandoli e facendoli sparire dentro un furgone, aggiungendo quel tanto di violenza
necessario per raggiungere l’acme dell’adrenalina quotidiana.
I manifestanti indifesi, quelli che è possibile terrorizzare fino alle lacrime, raggiungendo anche qui

Studenti a rischio pestaggio, senza alcun motivo

il massimo di una virilità frustrata, specie di fronte a ragazzine di 16-17 anni, quelli vanno chiusi in mezzo a tre “compagni di brigata”, aspettando solo che qualcuno si ribelli per poterlo meglio schiacciare, dimostrando la propria potenza.
A giornalisti e fotografi, infine, si deve intimare, gli si deve gridare contro, con il manganello sempre alzato, magari sussurrando che se continuano a documentare i loro abusi potrebbero ricevere una manganellata in faccia. Li si può inseguire assieme a qualche compagno, sbatterli contro il muro premendo il casco sulla loro faccia, intimando che non devono fotografare. Magari pestando i piedi a chi si sta allontanando dai loro manganelli, per far capire che lì a comandare sono loro.

La Polizia minaccia un fotografo

Inutile dire che oggi tutto questo è stato fatto in maniera sistematica.

Il colpo da maestro giunge proprio alla fine, quando ormai i manifestanti indietreggiano,
continuamente caricati senza alcun motivo apparente dalle forze dell’ordine (come fatto, d’altronde, fin dall’inizio). L’ultimo atto intimidatorio ha luogo presso il Ponte Sublicio. Nessun atto di dominio può prescindere dall’unione tra violenza fisica e copertura giuridica dei propri atti. Se si permettesse il pensiero di poter ricorrere di fronte allo Stato al fine di veder riconosciuti i propri diritti, allora non avrebbe senso mettere una divisa a dei comuni macellai, sarebbe più comoda la banda armata: meno formalità.
Poco prima che dal Lungotevere si arrivi al ponte, giova sottolinearlo, la strada si divide: una corsia continua normalmente, l’altra scorre verso il basso, per poi risalire e ricongiungersi con la prima. Lo spazio di manovra si riduce ulteriormente, quindi molti, tra cui alcuni giornalisti e fotografi, optano per la corsia più in basso, allontanandosi dai manifestanti. A quel punto, però, l’idea provvidenziale che non sfugge all’acuta mente dei poliziotti buoni, quelli che non si sporcano le mani, è quella di bloccare la strada più avanti del blocco dei manifestanti, al fine di prendere in mezzo tutti coloro che, non avendo molta voglia di giocare alla guerra, si sono allontanati dal corteo. E’ così che il trattamento da riservare ai giornalisti e quello da riservare ai più deboli si fanno un’allegra rimpatriata, finendo per fermare contro il muro (dietro una più che simbolica ringhiera) alcuni incauti vagamente ancora fiduciosi nelle forze dell’ordine.
Il bottino, tra ordini intimati di sedersi, di stare zitti e di non chiedere, è esaltante: un tentato praticante giornalista (il sottoscritto), un fotografo, decine di studenti e due ragazzi trovati in possesso di un temibilissimo tirapugni. Per il resto c’è una ragazza che piange inconsolabile, ma ai macellai da manifestazione è stato dato un giochino divertente con cui dilettarsi, finché non ne esce un morto non è un problema.
Nel frattempo, dopo aver lasciato per un’ora piede libero ai propri cani da caccia arrivano i poliziotti buoni, quelli che fanno burocrazia dopo le minacce e i colpi subiti. Dicono che non ci sarà alcun problema, ma intanto l’idea è permeata a fondo, specie in chi di lotte studentesche magari non ha neanche la minima cognizione, così da educare ancora prima di colpire: non vi è permesso manifestare. Basta
la minaccia, fintanto che gli studenti, in mezzo, sono abbastanza per permettere a professionisti della violenza di spolparsi la carcassa. L’importante, in fondo, è che nessuno veda.

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