Introduzione e premesse metodologiche.

L’insediamento sociale e storico degli Italiani in Australia è stato sufficientemente affrontato da numerosi studiosi. Le ricerche hanno raggiunto il loro apice negli anni Ottanta e Novanta e hanno rilevato in particolare alcuni aspetti riguardanti gli emigrati di prima generazione, quello demografico (Bertelli 1986, 1987; Ware 1981, 1988; Hugo 1990, 1993; Parimal & Hamilton, 2000), storico (Cresciani 1986, 2003; Pascoe 1987, 1992; Baggio e Sanfilippo 2011), sociologico (Storer 1979; Kelly 1983, 1985; Castles 1991, 1992; Collins 1988; Vasta 1993; Chiro e Smolicz 1997; Chiro 2003, 2008; Ricatti 2013; Smans e Glenn 2011), della sociologia delle religioni (Pittarello 1980; Bertelli & Pascoe 1988, O’Connor & Paganoni 1999) e linguistico (Bettoni 1981, 1986, 1991; Bettoni & Rubino 1996; Kinder, 1990; Rubino 1989, 1990, 1991; Leoni 1995; Tosi 1991). Interessanti studi sulle seconde generazioni, in particolare su alcune caratteristiche della condizione identitaria femminile, sono stati condotti da Pallotta-Chiarolli (1989), Vasta (1992) e Baldassar (1999, 2001, 2006). Studi intergenerazionali sono stati effettuati da Marino et. Al (2013), Marino & Chiro (2013) e [i] Il presente articolo mette in guardia contro l’eccessiva semplificazione, che può portare all’errore teorico di identificare gli italiani d’Australia come un gruppo omogeneo.

Simone Marino Emigrati Antropologia Australia Calabria

Benché molte teorie si basino su studi transnazionali (Castles & Miller 2009; McCrone and Bechhofer 2008) che promuovono una concezione identitaria culturale fluida, ove l’oggetto di studio è collocato virtualmente in uno spazio immaginario, come unico valido presupposto teorico (Bauman 2007), archiviando conseguentemente tutto ciò che riguarda il folklore come un qualcosa di ‘sorpassato’ o peggio ancora di primitivo; tuttavia bisogna considerare che ‘il passato’ non è mai passato del tutto e i processi comunicativi di trasformazione culturale non si operano con tagli netti, ma a volte sono lenti e discontinui, con resistenze e fratture. Inoltre ‘il nuovo’ è tale in rapporto a qualcosa che l’ha preceduto (Minicuci 1989). In questa sede si vuole sostenere che la conoscenza di una micro realtà è fondamentale per individuare i processi culturali e simbolici messi in atto da una particolare comunità. L’ autore ha voluto verificare se le pratiche comportamentali degli emigrati calabresi e il loro rapporto con la tradizione fossero cambiati dopo un sessantennio. L’attenzione è stata rivolta, in particolare, al microcosmo dei musicisti tradizionali.

Numerose testimonianze hanno evidenziato un sentimento comune presente nei soggetti intervistati: il sentirsi costantemente inopportuni e fuori posto sia nella società d’accoglienza che in quella di provenienza. In tanti hanno dichiarato di avere contatti con la famiglia in Italia, sia telefonici che telematici e di visitare i parenti rimasti in patria relativamente spesso. Questo confermerebbe le teorie sociologiche basate sulla tesi che le etno-comunità contemporanee facciano parte di un contesto virtuale promosso dal processo di globalizzazione (Castles & Miller 2009), tuttavia, al contrario, sembra che lo stretto rapporto con la tradizione contribuisca notevolmente a rafforzare l’identità degli emigrati calabresi di Adelaide. È proprio questo il motivo che ha spinto l’ autore a riesaminare i processi collettivi identitari della prima generazione a distanza di vent’anni dagli ultimi studi rilevanti. Questo lavoro è frutto di una ricerca etnografica svolta all’interno della comunità calabrese di Adelaide, in Sud Australia. Le testimonianze dei componenti di una delle minoranze più numerose dello Stato sono state raccolte ‘tendendo l’orecchio’ al loro paesaggio sonoro[ii] (Schafer 1977). L’autore ha inteso evidenziare un aspetto caratterizzante la prima generazione che tocca alcuni tra i temi classici dell’antropologia della migrazione: il disagio continuo e la doppia assenza[iii] del migrante; con particolare attenzione ai musicisti tradizionali, alle loro storie personali e ad una risorsa in più che essi possiedono rispetto agli altri immigrati. Tale vantaggio è costituito dalla possibilità che la musica conferisce loro di poter essere ricondotti con la memoria ai luoghi natii, permettendo loro di dimenticare temporaneamente la condizione di disagio in cui vivono.

L’osservazione sul campo ha avuto luogo per un periodo di circa due anni, precisamente da settembre 2015 a settembre 2017, nei quartieri della città dove la presenza calabrese è numerosa e rappresentata per lo più da due ristrette aree confinanti della provincia di Reggio Calabria: la zona del versante Ionico (Palizzi, Siderno, Locri, Bianco, Platì e Benestare) e quella della Piana di Gioia Tauro (Sinopoli, Molochio, Taurianova e Sant’Eufemia). Il gruppo di studio è costituito da musicisti tradizionali maschi, la cui età media è settantasei anni, emigrati in un periodo che va dai primi Anni Cinquanta alla metà degli Anni Sessanta. Molti di loro parlano solamente il dialetto del proprio paese d’origine, includendo spesso nel discorso delle interferenze provenienti dalla lingua inglese. Comprendono abbastanza bene l’inglese ma soltanto una bassa percentuale di loro ha familiarità con l’italiano neostandard. Dei dieci suonatori intervistati, il 80% degli intervistati risiede nell’area occidentale della città, in quartieri come Seaton, Kidman Park e Findon, mentre il 20% abita nei quartieri orientali come Rostrevor e Hectorville. Gli strumenti suonati dai partecipanti sono prevalentemente l’organetto, la chitarra, la chitarra battente, il tamburello e la pipita, uno strumento di legno simile al flauto ma più lungo. Il repertorio è costituito da “sonate” tradizionali di tarantella.

  1. E. da Sinopoli (RC), che ha portato con sé organetto e chitarra, dichiara:

…e così sonu, ogni jornu… mi passu u tempo, non ci pensu…e mi scialu, puru sulu, e pensu ‘a Calabria... [….in questo  posso suonare ogni giorno, e passo il tempo, non ci penso, mi diverto anche da solo e penso alla Calabria…]

Osservando gli anziani suonatori, ascoltando le passate d’organetto e le botte di tamburello, a volte decise, altre più morbide, è opportuno chiedersi come siano riusciti ad affermare la loro presenza dall’altra parte dell’emisfero. Dalle confidenze del suonatore intervistato che affermava di suonare ogni giorno, di far trascorrere il tempo per non pensare (frase emblematica e ambigua anche perché incompleta) e di scialarsi sulu, ovvero di divertirsi anche da solo, si evince che egli si comporta come se, durante la performance, ignori la propria condizione di emigrato, la sua doppia assenza nella società d’accoglienza, quella australiana. Il disagio interiore, il dolore e la consapevolezza di sentirsi “fuori posto” vengono talvolta mitigati dal suono dell’organetto e dai colpi secchi di quel tamburello che egli ha portato con sé dalla provincia di Reggio Calabria.

L’argomento è stato approfondito in seguito alla constatazione che i musicisti vivono in maniera diversa e meno problematica la loro doppia assenza rispetto agli altri immigrati. L’ autore ha quindi cercato di capire se fosse possibile dimenticare la propria condizione di disagio attraverso una sonata, o una botta di tarantella. Dal punto di vista metodologico, la ricerca in una comunità familiare, quella di alcuni piccoli paesi del reggino, è stata agevolata soprattutto dalla familiarità con il dialetto. La condivisione di alcuni codici comportamentali inoltre, ha fatto sì che l’autore fosse percepiti come “paesano”, oltre che corregionale e connazionale. Gli intervistatori hanno preferito ascoltare, cercando di muoversi con circospezione per non rendere le proprie persone delle presenze disturbatrici che, essendo estranee, non sono mai neutre (Marino e Chiro 2014). L’ostacolo è stato superato grazie alla complicità che si crea tra musicisti, infatti uno dei ricercatori condivide la passione per gli strumenti tradizionali calabresi. Suonare la stessa musica è come parlare la stessa lingua e, probabilmente, questo ha reso i ricercatori delle presenze meno invadenti. La collaborazione degli intervistati è stata perciò massiccia, l’ansia di raccontare le loro esperienze migratorie ha fatto sì che i racconti fossero minuziosi e ricchi di particolari. L’indagine si è così svolta: dopo aver partecipato ad alcune feste patronali calabresi e individuato possibili soggetti da intervistare, essi sono stati contattati ed è stato chiesto loro di partecipare alla ricerca. Si è cercato di privilegiare il dialogo informale e l’approccio qualitativo, sebbene la somministrazione di un questionario abbia costituito, in un primo momento, la base per condurre l’intervista iniziale. Le domande erano molto semplici e a risposta aperta, ma i partecipanti rispondevano in modo rigido ed innaturale. Una volta spento il registratore e imbracciati gli strumenti musicali, la distanza intervistatore-intervistato svaniva e dopo qualche sonata, le informazioni fornite erano ancora più preziose ed interessanti. Il questionario è stato quindi solo il punto di partenza. Gli autori hanno così cominciato a frequentare con assiduità le case di queste persone; venivano invitati sovente a pranzo, a cena, ai fidanzamenti e ai matrimoni dei loro figli e nipoti. È stato così possibile praticare una sistematica osservazione partecipante, verificando direttamente le modalità di fruizione della musica tradizionale calabrese ad Adelaide e molto spesso si è preferito spegnere il registratore a favore del tradizionale taccuino di appunti, in modo da non inibire l’informatore e ottenere la percezione del quotidiano.

In questo studio saranno tracciate delle riflessioni basate sulle affermazioni dei “sonatori” e sui racconti delle loro storie di vita; verrà messa in evidenza la sofferenza dell’emigrato calabrese che vive, si percepisce ed è percepito, “fuori luogo” dall’altra parte dell’emisfero. Sarà menzionata la tesi della “doppia assenza” del migrante. Si farà cenno all’importanza dei valori tradizionali e alla cristallizzazione dell’identità culturale.

La crisi di presenza

Quando certe abitudini secolari spariscono, o sono minacciate dall’esperienza migratoria, capita con frequenza che si produca una crisi d’identità (Lévi-Strauss 2003). L’esperienza della migrazione, a seguito dell’abbandono degli affetti e dei luoghi, può essere definita come frammentazione biografica, in quanto interrompe drasticamente una continuità, ed è da intendersi come trauma. È il trauma di chi, spostandosi in un nuovo contesto socio-culturale, è costretto a convivere e confrontarsi con soggetti che, non essendo stati socializzati allo stesso senso comune, non possono dargli conferma dell’adeguatezza in assoluto del suo bagaglio di saperi (Floriani 2004 74). È a questo punto che l’identità di un individuo potrebbe essere messa in discussione. Il concetto di spaesamento, come condizione molto rischiosa in cui gli individui temono di perdere i propri riferimenti domestici, che fungono da “indici di senso”, viene affrontato da De Martino (1977) nella sua idea di presenza. Gli studi demartiniani sull’argomento sono ampi e profondi, ed è con le dovute cautele che chi scrive si allaccia al suo pensiero nel descrivere la crisi di presenza come condizione in cui l’individuo, al cospetto di particolari eventi o situazioni (malattia, morte, conflitti morali, migrazione), sperimenta un’incertezza, una crisi radicale del suo essere storico, della possibilità di esserci in una storia umana, in quel dato momento, scoprendosi incapace di agire e di determinare la propria azione. L’esperienza migratoria rende il soggetto depersonalizzato e gli fa percepire l’ambiente circostante con un senso d’irrealtà, disancorandolo dall’approccio di spontaneità del suo corpo che non riconosce lo spazio, in cui anche gli oggetti sono alterati e il tempo vissuto si frammenta. Da tale frammentazione nasce l’estraneamento dei ricordi, lo stato melanconico, la solitudine. Perdendo di consistenza il mondo dei ricordi, anche il corpo altrui cessa di essere elemento di relazione. De Martino (1977) nel testo postumo La fine del mondo, riprende il concetto di depersonalizzazione, definendola come la condizione in cui l’essere corpo e l’intenzionalità del corpo vengono messi in crisi da limitazioni di varia natura. Il senso di smarrimento, la paura di perdersi, il rischio di “perdita della presenza”, non erano sconosciuti alle persone del mondo contadino tradizionale. L’inquietudine dei primi emigranti, in questo caso dei calabresi emigrati dalla provincia di Reggio Calabria, è anche giustificata dall’inesperienza diretta o indiretta dei viaggi oltreoceano. La maggior parte di questa gente non aveva mai visto il mare, in quanto proveniva dalle zone interne ai piedi dell’Aspromonte, alcuni non erano mai usciti dal paese, pertanto la consapevolezza di sentirsi proiettati in un altrove spaziale, temporale, mentale e culturale aggravava lo smarrimento, lo spaesamento e quella sensazione di essere stranieri in tutti i luoghi (Teti 1983). Per allontanare il dolore o la nostalgia di casa, F. V., emigrato nel 1963 da Cirella, una piccola frazione di Platì (RC), con due organetti e una chitarra, tra i più giovani di una famiglia di nove figli, suona da solo ogni giorno:

E chi ‘navimu a fari, maestru?, sonamu, sonamu sempri, ogni sira prima i mi curcu, mi pigghju l’organettu e sonu. Sulu, sulu, mi passu u tempu, mi scialu….penzu a Calabria..a quand’eru ‘nta campagna, mangiavamo assiemi….tutti ‘nto u stessu piattu….jocavamu cu scieccu, chi ‘ i crapi…e ogni vota mi doli u cori… [E che dobbiamo fare, maestro? Suoniamo, suoniamo sempre, suono ogni sera prima di andare a dormire, prendo l’organetto e suono. Solo, solo, mi passo il tempo, mi diverto… penso alla Calabria… a quando abitavamo in campagna e mangiavamo tutti insieme, tutti nello stesso piatto, giocavamo con l’asino e con le capre… e ogni volta mi fa male il cuore…].

  1. S. di Palizzi Superiore (RC), accoglie gli autori nella sua casa di Adelaide con un affetto sorprendente. Prima di cominciare l’intervista mostra con orgoglio le pareti ricoperte di fotografie della sua famiglia e del suo paese. Confessa di aver lasciato il cuore e la testa a Palizzi, anche se lì ormai non ha più nessuno, poiché i suoi famigliari si sono sparpagliati per il mondo. Domanda della sua Calabria, dei paisani, sembra non rendersi conto della smisurata quantità di tempo trascorsa dalla sua partenza (vive in Australia da circa sessanta anni). Chiede notizie di alcuni personaggi emblematici palizzesi, chiamandoli con la ‘njuria[iv]: Ceciu l’Orbu, u Corpu i Giuda, a Monaca, u Sanguinazzu, gente già anziana al tempo della sua partenza e quindi scomparsa da decenni. Si ha l’impressione che la sua memoria voglia mantenere persone e luoghi immutati nel tempo. L’uomo domanda della piazza, l’unica di Palizzi Superiore (RC), della chiesa di Sant’Anna, vuole sapere se durante la festa patronale è sempre gremita di paesani:

A chiazza e u campanili, furu l’urtima cosa che vitti, quandu, partendo, mi sono votai pe salutari u paisi… [La piazza e il campanile furono le ultime cose che vidi, quando, partendo, mi voltai per salutare il paese…]

Tale affermazione richiama alla mente il Campanile di Marcellinara citato da Ernesto De Martino (1977). Lo studioso parla del campanile del paese inteso come “centro del mondo” e del senso di smarrimento e di ansia che vive l’individuo quando si allontana. La chiesa, gli spazi antistanti e circostanti la piazza, anche nei piccoli paesi, erano situati in una posizione centrale e costituivano un punto di riferimento sociale, culturale e mentale per la comunità (Teti 1989). Proprio per questa ragione spesso rappresentano l’ultimo fotogramma nella memoria visiva, quello che, lasciando il paese, il migrante porterà con sé nel luogo di accoglienza. F. S. confessa che sebbene l’Australia gli abbia dato “u pani e a casa”, lui non si sente a casa, e quantunque ora parli un discreto inglese, in questo Paese non è a suo agio. Ancora oggi, dopo circa sessanta anni, si sente solo, sperduto e qualche volta ha ancora paura. 

La doppia assenza del migrante

È opportuno tenere presente, come premessa a quanto verrà esposto nelle prossime pagine, che tutti gli intervistati sono stati costretti ad emigrare da motivi economici e hanno raggiunto, a prezzo di innumerevoli e duri sacrifici, uno stato di benessere che in Italia mai sarebbe stato da loro immaginabile. F. V., suonatore di organetto, emigrato da cinquant’anni in Australia da Platì (RC), dopo aver mostrato agli autori alcune fotografie di famiglia, esordisce:

…..non mi trovu, ancora non mi trovu, e passaru cianquant’anni! No staju bbonu cu ‘i kancaruni e mancu all’Italia quando tornu, ogni annu…[non mi trovo, ancora non sono a mio agio, benché siano passati cinquanta anni! Non sto bene né qui con gli Australiani e né in Italia, quando ci torno, ogni anno].

F.S., giunto ad Adelaide nel 1960, dichiara: 

Non staiu bbonu cca, e mancu dda, sugnu vecchiu…figuratevi se tornu ‘dda aundi non avi nenti…pozzu fari na prova, tantu sugnu rretired… [non sto bene qui e nemmeno lì, sono vecchio… figuriamoci se torno lì dove non c’è niente…. posso fare una prova, tanto sono pensionato].

 

Malgrado siano passati moltissimi anni dalle loro partenze, F. S. e F.V. si sentono ancora doppiamente assenti, fuori posto, sperduti e smarriti. Queste testimonianze rispecchiano la tesi sostenuta da Sayad (2002): doppiamente assente, nel luogo d’origine e nel luogo d’arrivo, vivendo una condizione disagiata, nel corpo e nello spirito, il migrante è atopos, un curioso meticcio privo di posto, uno “spostato”, nel duplice senso di incongruente e inopportuno, intrappolato in quel settore ibrido dello spazio sociale in posizione intermedia tra essere e non-essere. Ecco come né cittadino, né straniero, né veramente dalla parte del Se, né totalmente dalla parte dell’Altro, l’immigrato si situa in quel luogo “bastardo”, alla frontiera dell’essere e del non essere sociale. La difficoltà che si ha nel pensarlo – anche da parte della scienza che riprende spesso, senza saperlo, i presupposti o le omissioni della visione ufficiale – non fa altro che riprodurre l’imbarazzo creato dalla sua inesistenza. L’individuo appare ingombrante, ormai è come se, ovunque egli sia, si percepisca e venga percepito di troppo, nella sua società d’origine ma anche in quella d’accoglienza, ciò obbliga a rivedere da cima a fondo la questione dei fondamenti legittimi della cittadinanza e della relazione tra il cittadino, lo Stato, la nazione e la nazionalità. Gli immigrati hanno dei corpi percepiti come “fuori luogo”, privi di un posto appropriato all’interno dello spazio sociale, diventano di troppo, sia nella società di origine che in quella di arrivo, sono doppiamente assenti. Intervistando gli emigrati Calabresi di prima generazione, il loro senso di spaesamento è lampante. Una emblematica confessione di “doppia assenza” è la seguente:

«…e noi calabresi in viaggio, non ci sentiamo sempre altrove? Non siamo sempre fuori posto? Non ci pensiamo spesso in un luogo diverso da quello in cui viviamo?…noi calabresi in viaggio malediciamo il paese quando siamo in paese e sogniamo il paese quando siamo in giro per il mondo…» (Teti 1989:52)

Tradizione e identità. Conclusioni

Dalle dichiarazioni dei partecipanti e dalle osservazioni dei ricercatori è emerso che la strategia attuata dagli emigrati calabresi per superare lo spaesamento conseguente al trauma dell’emigrazione e la doppia assenza che da anni li accompagna, è, indubbiamente, l’attaccamento alla tradizione. Quest’ultima è intesa come l’osservazione di determinati codici comportamentali (l’assidua frequentazione delle feste religiose, alleanze famigliari, il mantenimento del dialetto e forte solidarietà tra compaesani e corregionali). Tale attaccamento alla tradizione costituisce l’elemento che rafforza e mantiene viva l’identità. In aggiunta, questo mantenimento della tradizione è risultato essere molto forte per quanto riguarda i suonatori tradizionali. I musicisti continuano a riprodurre il repertorio e le modalità di esecuzione in maniera identica a quanto avveniva nei paesi di origine a metà del Novecento e le contaminazioni sembrano pressoché inesistenti. Quello che i suonatori riescono a raggiungere, tramite le loro performances, è il superamento della condizione d’inadeguatezza sia nel Paese ospite che in quello di provenienza. Costoro hanno un elemento in più, oltre alla lingua e ai codici comportamentali, rispetto agli altri immigrati che contribuisce a mantenere l’identità nel paese d’accoglienza. La riproducibilità della propria arte li favorisce anche nei rapporti con gli altri corregionali, in quanto essi partecipano continuamente alle feste patronali e sono apprezzati dal pubblico per le loro capacità interpretative. Le frequentazioni tra musicisti tradizionali sono assidue e continuative anche al di fuori delle festività religiose o di puro svago, rafforzando continuamente quella solidarietà comunitaria fondamentale al mantenimento dell’identità culturale. Per rendere sopportabile la sofferenza, il viaggio, i sacrifici, le lacrime, ma soprattutto la doppia assenza, questi uomini non hanno mai smesso di suonare. Una volta ritornati in Calabria, gli autori hanno mostrato i filmati raccolti ad alcuni esperti di musica tradizionale calabrese, musicisti e costruttori di strumenti. M. Morello, B. Marzano, F. Zappia e S. Giorgi si sono trovati concordi nell’affermare la cristallizzazione dei modelli esecutivi. Tale staticità, nella comunità di Adelaide, risulta evidente non soltanto nella musica tradizionale, ma anche in tutti gli altri aspetti socioculturali, al punto da far apparire questa tradizione anacronistica. Non bisogna dimenticare che i soggetti intervistati sono andati via dall’Italia negli anni Cinquanta e Sessanta e che hanno portato nel nuovo Paese il contesto culturale in cui vivevano. Pertanto, la staticità anacronistica è il risultato di una trasposizione spazio-temporale (dell’Italia contadina di metà Novecento) che ha subito un processo di cristallizzazione nel contesto australiano (Carsaniga 1994; Ciliberti 2007; Cirese 1971; Marino, 2012).

La sensazione di sentirsi continuamente inopportuni e “fuori luogo” accompagna la prima generazione della comunità calabrese di Adelaide sia nel contesto australiano che in quello italiano. La sua doppia assenza sembra essere il maggior motivo di attaccamento alla tradizione e l’elemento che la spinge a operare in un ambiente familiare, quello della etno-comunità. I risultati delle indagini condotte portano inevitabilmente alla conclusione che l’essere esecutori di musica tradizionale, indipendentemente dalle occasioni in cui si svolgono le performances, contribuisce in maniera rilevante al superamento sia della doppia assenza che del trauma conseguente allo sradicamento. Tramite la meticolosa riproduzione di modelli culturali tradizionali, ricostruendo la scansione del tempo e la domesticazione dello spazio secondo i paradigmi praticati e condivisi dal gruppo, i partecipanti si difendono dai rischi connessi all’emigrazione (Alimenti in Di Carlo 1986; Signorelli, 2006). Essi continuano a sognare l’appartenenza ad uno spazio-tempo irreale (l’Italia rurale e contadina degli anni Cinquanta e Sessanta) che è stato da loro trasposto nel contesto in cui vivono e dove si colloca la loro identità. Dopo più di mezzo secolo di vita in Australia e non senza contatti con il Paese di origine, i soggetti intervistati hanno mostrato un forte legame con quelle che sono le pratiche comportamentali “tradizionali”.

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Rubino, A. ‘‘The Use of English among Italo-Australian in Sydney’’. Australian Review in Applied Linguistic, 14 (1): 1991. 59-89. Print.

Sayad, A. La doppia assenza. Milano: Cortina Editore, 2002. Print.

Schafer, M. R. Il paesaggio sonoro. Milano: Ricordi-Unicopoli, 1977. Print.

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Ware, H. ‘‘Post-war Italian Immigration’’, J. Jupp (ed.), The Australian People: An Encyclopaedia of the Nation. Sydney: Angus and Robertson, 1988. Print.

[i] Con questo elenco non si intende offrire una lista esaustiva degli studi effettuati sugli Italiani in Australia, ma si vuole piuttosto orientare il lettore verso la consultazione delle principali ricerche effettuate sull’argomento in questione.

 

[ii] L’espressione paesaggio sonoro, traduzione dall’inglese soundscape, fu coniata dal compositore Raymond Murray Schafer e definisce un qualsiasi campo di studio acustico, una composizione musicale, un programma radio o un ambiente. L’autore si riferiva in primo luogo all’ambiente acustico naturale, consistente nei suoni delle forze della natura e degli animali, inclusi gli uomini. La teorizzazione del paesaggio sonoro venne sviluppata dal World Soundscape Project, un progetto di ricerca condotto negli anni Settanta da Schafer alla Simon Fraser University di Vancouver.

 

[iii]Con doppia assenza ci si riferisce qui all’accezione riportata in Sayad (2002), ovvero alla sensazione dell’emigrato di sentirsi assente sia nel paese di origine che in quello di accoglienza.

 

[iv] La ‘njuria, che tradotto letteralmente significa ingiuria, in alcuni paesi dell’area ionica non assume connotazione dispregiativa, ma indica un soprannome usato per identificare gli individui o l’intera famiglia, spesso viene tramandato di generazione in generazione come il cognome. Ancora oggi, a volte, i vicini di casa non conoscono il cognome del dirimpettaio ma la sua ‘njuria.

 

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Simone Marino
Antropologo ed etnomusicologo. Il suo campo di studio è l’identità etnica. La sua ricerca metodologica ambisce nel cogliere il punto di vista “dell’altro” e quei piccoli particolari su campo, che sono cruciali per l’antropologia interpretativa, applicabili grazie all’osservazione partecipante. Simone ha svolto numerose ricerche in Calabria, in Nepal ed in Australia, che hanno in comune il tema dell’emigrazione, quello dell’identità etnica, e le strategie culturali che, in una dimensione diasporica, gli attori sociali utilizzano per superare i loro “fatti sociali” e/o crisi identitarie. Tra le sue ricerche emerge quella sui calabresi di Adelaide, Sud Australia, in cui sono state evidenziati alleanze familiari di comparatici, l’importanza dei “networks” sociali ed economici e le pratiche culturali, inter alia, il ruolo social della festa.

59 Commenti

  1. Caro Simone, è davvero di ampio respiro questo tuo nuovo lavoro. E sarà destinato ad aumentare ulteriormente il numero di estimatori che da anni segue con grande attenzione le sue ricerche antropologiche.

  2. Questo articolo è anche un’occasione per trasmettere lo spaccato della nostra realtà calabrese di emigrati, coinvolta suo malgrado in eventi che ci rendono ‘famosi’ all’estero.
    Bravo Simone!

  3. Meritevole di essere letto e approfondito lo studio del Dott.Marino per l’umanità che traspare nell’articolo sui calabresi di Reggio emigrati al di là del mondo come nelle Americhe nel secolo scorso. Argomenti molto attuali in Italia.

  4. L’opera del dr. Marino, a mio modesto parere, si pone come acuta analisi dell’introspezione umana appartenente ad una data generazione calabrese emigrante. Un lavoro davvero curato, un’indagine antropologica che deve far riflettere sullo stato emotivo, sentimentale, a volte interiormente afflittivo, che caratterizza gli emigranti. Complimenti all’autore.

  5. Molto ben documentato, quest’articolo lascia lo stupore di poter essere stato scritto da un giovane come Simone Marino, evidentemente molto dotato in questo campo. C’è da aspettarsi grandi cose!!

  6. L’opera del dr.Marino,è una lettura approfondita,acuta e soprattutto attuale del fenomeno migratorio,Lessa vuole essere un lavoro osservazionale importante,la musica stessa fa tornare alla mente la terra e gli affetti abbandonati,ma secondo me non vuole essere un lamento,ma spesso essa è musica di gioia,di essere di appartenere

  7. La parola “Emigrazione” evoca ricordi amari e nostalgia carogna, perciò tema ad alto rischio se non si tiene ben fermo il timone al fine di evitare cadute nella retorica, perciò bene ha fatto il Dottor Simone Marino ad affrontare l’argomento esclusivamente sotto un profilo rigorosamente scientifico, illustrando aspetti poco conosciuti, per esempio quello della doppia assenza che significa, sostanzialmente, perdita dell’orientamento: “non appartenere né al paese d’origine, nè a quello ospitante”.
    Che fare allora?
    Farsi coraggio tra disgraziati, ovvero tra individui colpiti dalla stessa malasorte.
    E come?
    In tutti i modi possibili: partecipando rumorosamente alle feste tipo quelle del paesello lontano, oppure…
    Oppure? Oppure sfogare la nostalgia carogna al suono dell’organetto, della chitarra e di qualsiasi altro strumento, esattamente come continuano a fare amici e parenti nel paesello lontano.
    Ma Simone Marino analizza il tema con rigore scientifico e lo viviseziona con straordinaria efficacia, segno evidente della padronanza della materia e dello spessore della sua preparazione.

  8. Ho letto con piacere le parole e l’analisi che il dr marino ha fatto su un argomento alquanto complesso e che tocca nel profondo tante persone che si sono dovute confrontare con quel senso di doppia identità che annulla il senso di appartenenza ad una determinata cultura. La sensibilità dimostrata e le conoscenze che le appartengono faranno di lei il portavoce di quei popoli che vivendo una sorta di limbo sapranno orientarsi verso chi come lei crea la luce con la sapienza della cultura.Matilde

  9. Articolo molto interessante che attraverso il fenomeno musicale ricostruisce il fenomeno socio-antropologico dell’emigrazione, in particolar modo degli emigranti calabresi. Interessante il fatto che in un’epoca in cui internet e la telefonia non erano diffusi, attraverso gli strumenti musicali gli emigranti mantenessero un legame col territorio d’origine.

  10. Bellissimo e coinvolgente articolo dott. Simone Marino!!! Hai toccato dei punti strategici che fanno davvero la differenza, continua così che sei grande cugino, ti auguro di cuore tanti successi!!! Un abbraccio…❤

  11. Studio molto interessante. Anche i miei genitori che erano di Palizzi hanno abbandonato il paese vivendo un po’ il dramma di chi non è più ritornato. Grazie infinite all’autore.

  12. Una lettura che fa compiere un salto nel passato ad ognuno di noi che ha parenti sparsi nei continenti del mondo, facendo rivivere belle tradizioni che loro, i parenti, sono molto legati. .. ..complimenti!!!!

  13. Simone oltre ad essere un caro amico, sei un gran professionista. Sono sicuro che saprai essere un ottimo ambasciatore ed un grande musicista in una terra che ha molto da invidiare alla nostra. W Palizzi. Un abbraccio

  14. Lo studio e ricerca dello spaccato introspettivo che, oramai consolidato anche per le seconde generazioni, evidenzia il senso di malessere che viene alleviato per il tramite della musica prodotta con strumenti semplici e quasi esclusivamente etnici, espone con dovizia e qualificata conoscenza antropologica, il senso, quasi di frustrazione, che pervade l’intimo “dell’esule” per lavoro.

  15. Although my family origins are not Calabrese, you have managed to transmit the essence of the migratory experience in such a salient way. Our second & third generations in my Italian family have such a strong identity with their parents & grandparents’ image & memory of their “homeland” & traditions. As you know, often these memories & cultural traditions are frozen in time & may no longer be the reality in modern Italy. Many of us have never set foot in Italy yet feel that sense of connectivity & identity that you discuss. Thank you for putting it in words so beautifully. I look forward to reading more of your work. Complimenti!

  16. A fascinating article on a particular community within the city of Adelaide.
    Although not Italian myself, as an immigrant to Australia, I can draw comparisons with the sentiments of home culture, language, religion and shared attributes of the immigrant. That we value these qualities and align ourselves with people that we perceive to have similar points of view is how we give ourselves a point of reference. This point of reference within a particular culture allows us to function within the many different levels of communities and categories that we find ourselves communicating with each other.
    Particularly interesting in the ethnography is the description of Age, gender, language, culture and music to reflect the attitudes of the interviewees and their values within the perceived home culture, their understanding of neo-Italian language and their interactions within a monolingual Anglophone society.
    Well done to the author and I look forward to reading more contributions. Complimenti

  17. Complimenti carissimo Professore. Pensando alle nuove sfide che ti attendono, ricordati sempre che si è più coraggiosi di quello che si crede, più forti di quanto sembra e più intelligenti di quanto si pensa!

  18. La ricerca rivela profili antropologici e sociologici dell’emigrazione calabrese che ignoravo del tutto. Devo ammettere di essere rimasto piacevolmente colpito.

    Grazie per di cuore all’illuminante dott. Marino

  19. il tuo impegno in questo articolo traspare… come e quanto quello per la musica, chi ti conosce ti apprezza chi no dovrebbe iniziare a farlo !!!

  20. L’ analisi sulla condizione degli emigrati calabresi rivela una singolare sensibilita’ da parte dell’ autore.Colpisce lo stato d’animo di persone che pur emigrate da mezzo secolo sono riuscite in un luogo totalmente estraneo a mantenere intatta l’identita’.
    L’ accostamento con garbo e competenza alla condizione di persone che si sono realizzate con immensi sacrifici e’ indice di elevata professionalita’. Complimenti

  21. Complimenti per l’ impegno e trasparenza dello studio fatto e da una straniera ospite da vari anni in Italia comprendo tutto ed è proprio cosi come hai scritto … A buon rendere !!!
    Fara

  22. Complimenti Simone hai fatto una analisi perfetta non mi stupisce ti conosco da quando eri bimbo e sei sempre stato un bravo ragazzo e oggi un serio professionista. Pino B

  23. Molto interessante,in particolare con riferimento alla nostalgia devastante che accompagna la vita dell emigrato,straniero in patria e nella nuova terra che lo ha accolto più o meno volentieri.
    Complimenti Simone !!!

  24. Molto interessante,in particolare con riferimento alla nostalgia devastante che accompagna la vita dell emigrato,straniero in patria e nella nuova terra che lo ha accolto più o meno volentieri.
    Complimenti Simone !!!

  25. Ottimo studio quello del dr Marino. Non è semplice capire e spiegare la condizione dell’emigrato. La competenza con cui è stato trattato l’ argomento denota una grande professionalità ed un importante lavoro di ricerca.
    Complimenti!

  26. Ho trovato questo lavoro molto interessante e capace di proiettarti in una realtà che trapela in modo semplice
    ma profondo le sofferenze della nostra gente costretta suo malgrado ad emigrare.

  27. Lo studio approfondito e l’analisi puntuale della storia riferita alla ns migrazione fa di questo scritto un punto di riferimento per chi oggi strumentalmente sventola la parola immigrazione per incutere incertezza e paure. Bravo e acuto dott.Marino.

  28. Grande Simone! Ti ricordo ragazzo nelle strade di Palizzi bello come il ” sole”. Ti ritrovo “Uomo” ancor piu’ bello! Bella e’ la tua anima introspettiva che, con generosa acutezza, scruta nei sentimenti dei nostri paesani emigrati. Coglie il dolore dovuto all’inevitabile sdradicamento delle proprie origini, quando si e’ costretti a lasciare il paese in cui si e’ nati. Coglie lo spaesamento di quando ti senti di non essere di qui (nuova destinazione), ne di la (luogo di provenienza). Che dire… Le tue opere rappresentano lo specchio, la testimonianza dei miei sentimenti e delle mie emozioni provate, quando da ragazza, per motivi di lavoro,, ho lasciato il paese. Grazie per avermi capita…

  29. Ottima disamina. Nella sua lettura mi ha portato indietro nel ricordo dei nonni e delle loro tradizioni. Complimenti

  30. Bellissimo. Sono siciliano e vorrei che qualche mio concittadino avesse la stessa passione nella ricerca delle proprie radici e dello stato d’animo che si prova allontanandosi dalla propria terra. Grazie per l’emozione. Bravi

  31. Che magnifica ricerca è questa fatta dal dr Marino!
    Il fenomeno migratorio è molto complesso, oggi, soprattutto, occorre parlarne con cognizione di causa e con una certa “delicatezza” per non incorrere nella retorica o, ancor peggio, nel pregiudizio e la xenofobia.
    Quello italiano è stato un popolo di emigranti, in Europa i più “fortunati”, in Canada, Argentina e Australia, Paesi così lontani da cui molti non sono più ritornati…
    Come affrancarsi dalla nostalgia, dal dolore per il distacco da famigliari mai più rivisti…molto di questo spiega nel suo studio il dr Marino, con una lucida analisi ed, appunto, con la “delicatezza” dovuta.
    Grazie.
    Bettina

  32. Da calabrese mi fa piacere pensare che, dall’altra parte del mondo, il dr Simone Marino appeso negli oggi penzolo nei domani, cura con orgoglio e professionalità la nostra cultura.
    Bravo!
    Franco

  33. Il caro Simone, Stimato Studioso Antropologo, professore emigrante in terra delle multietnie con la passione per la musica ed amore per la propria terra natia, rievoca sentimenti filantropi remoti, presenti e futuri, che accomunano tantissimi esseri umani sparsi per il globo in cerca di fortuna… Eccelso richiamo… Argomento eccellente. Filippo

  34. What a fantastic read. It was fascinating to understand the outsider/’fuori posto’ perspective of Calabrian immigrants through the lense of traditional music. Art truly tells so much about ones identity. It was lovely to read and compare songs with Calabrian dialect to standard Italian. I have Calabrian heritage, but am more connected to my Neopolitan relatives. However, this article gave me a longing to become closer connected to Calabiran culture and tradition. A beautiful article that still resonates with third generation Italian-Australians (such as myself). Bravo. Antonia

  35. Ho conosciuto molti emigranti partiti da ragazzi e tornati da anziani, anche dopo 30 o 40 anni, nei paesi di origine e si leggeva nei loro occhi quel senso di non appartenenza ad alcun luogo, nè quello natio nè quello in cui hanno trovato il benessere. E’ un argomento complesso, doloroso leggendo questo scritto ho rivissuto le emozioni suscitate dai racconti di chi ha vissuto da migrante…..bellissimo lavoro.

  36. Complimenti all’autore per questa complessa ed approfondita analisi di un tema nuovo quanto interessante. Scritto in un italiano eccellente ed elegante -a proposito di conservare lingue e tradizioni…- ma la contempo scientifico ed accurato, questo articolo si legge con piacere e spero possa essere la base per ulteriori lavori di approfondimento.
    Un caro saluto,
    Massimiliano

  37. Veramente interessante il lavoro svolto da Simone Marino la cui arte musicale e l’impegno umano conosco da molti anni.
    Complimenti e auguri sinceri per sempre maggiori successi.
    Alberto Tucci Milano

  38. Studio antropologico ben fatto e ben articolato, frutto di passione e sacrificio.
    Complimenti vivissimi.

  39. Dottor Marino saro’ breve;le auguro un glorioso cammino per il suo impegno dimostrato. Lodevole e meritevole il suo impegno per il suo grande lavoro. Ho una grande stima per il suo carattere nell’approfondimento di lavoro svolto al servizio dell’umanità.

  40. Interessante analisi di una tematica antica che ritorna nella sua attualità. La passione del ricercatore e la maturità dello studioso permettono di tradurre in documento le diverse esperienze di vita. Altro notevole lavoro del Dott. Marino

  41. Complimenti al Dott. Marino autore dell’articolo che oltre ad essere ben sviluppato dimostra una grande attenzione per il tema dell’emigrazione, tutt’ora di forte attualità. Lo studio svolto denota professionalità, continua così!!!!!

  42. A great read Simone.
    We have a shared interest in the Calabrian diaspora.
    It is evident in your writing that you have compassion and understanding towards the interviewees in your research as a fellow musician. I was moved especially by FV’s emotional recounting of the sense of loss, longing and nostalgia for his hometown of Cirella.
    Bravo!

  43. Mi sono imbattuto casualmente su questo articolo. Complimenti all’Autore, interessante da più punti di vista, cordialità.

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