La rilevazione Eurostat per l’anno 2021, pubblicata a maggio 2022, relativa alla percentuale di laureati nei vari paesi UE tra i 25 e i 34 anni, traccia un quadro impietoso per l’Italia.
Il Bel paese si colloca al penultimo posto nella classifica europea per percentuale di laureati tra i 25 e i 34 anni. Solo un 29% della popolazione italiana in quella fascia di età ha conseguito un titolo di studio superiore a quello secondario, un dato nettamente inferiore rispetto a paesi come Francia e Germania (rispettivamente 50% e 35%) e superiore solo a quello rumeno (23%).
Sono dati, questi, che impongono riflessioni concrete e che mettono in seria discussione il raggiungimento degli obiettivi europei per il 2030, quando si dovrebbe raggiungere la quota del 45% di laureati per quella fascia di età.
Da dove partire? Le opinioni politiche sono varie e se ne sente parlare spesso. Questa volta, invece, abbiamo provato a chiederlo ai diretti interessati. Abbiamo intervistato Federico Gargano e Aldo Navarra Silverii, entrambi studenti di Giurisprudenza, il primo all’Università di Bologna, il secondo all’Università di Pavia, e abbiamo raccolto le loro opinioni.

Basandoti sulla tua esperienza, cosa pensi del sistema universitario italiano? Cambieresti qualcosa?
FG: In primis, credo che debba cambiare la visione della vita, per poter cambiare l’Università.
Prima di tutto, sono per l’abolizione del valore legale del titolo di studio.
Poi sostengo una valutazione progressiva, in ingresso, del voto della maturità, soprattutto ai fini della contribuzione del primo anno di iscrizione. E così si darebbe pure qualche valore aggiunto al diploma, e più ancora all’esame di maturità stesso…
Penso poi – anzi, prima di tutto – che gli studenti abbiano bisogno di un sostegno psicologico costante, pervasivo, e ultra-accessibile.
Per quanto riguarda la questione della “competizione” e della “competitività”, cui ormai si tende quasi in esclusiva in sede accademica: le ritengo due importanti valori e obiettivi, ma da sole non bastano; anzi, direi che prima di tutto sia necessario propugnare la fondamentale importanza della solidarietà, anche perché è con la solidarietà che emerge la persona “migliore”. Penso che l’Università debba tendere allo sviluppo integrale della persona umana, quindi sì, è vero, in questo il lavoro è essenziale, ma deve essere accompagnato, formato; non penso possa bastare riferirsi solo al “mercato” del lavoro. Il concetto del “mercato del lavoro” mi sta bene, ma non basta. Insomma, “Università” è una parola olistica, e ha una tendenza universalistica.
Poi penso che si debba sviluppare l’edilizia abitativa per gli studenti fuorisede, investendovi; stessa cosa per l’edilizia scolastica – nel senso dei luoghi di lezione e studio. A tal proposito, penso sia utile aprire sempre più aule studio, con il maggior grado di servizi integrati. Le aule studio siano destinate allo studio individuale, ma anche a quello di gruppo. Penso che – nell’ottica della valorizzazione della solidarietà – sia bene incentivare il lavoro di gruppo. Ma esso necessita di spazio, appunto.
Mi riferivo ai servizi integrati: penso alle mense. È necessario investire nell’edilizia dedicata alle mense, e nei servizi che essa richiede ed estendere, quindi, i suoi orari di disponibilità ed accessibilità a tutti i pasti della giornata. Bisogna ampliare l’assegnazione dei buoni pasto: secondo criteri di merito e di reddito. Aumentare la soglia di no tax area. Questo valga anche per le tasse di iscrizione.
In diverse facoltà – e io posso far riferimento alla mia personale esperienza di studente della Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Bologna – si parla troppo e si scrive poco. Bisogna estendere, dunque, la scrittura: riformare gli esami in chiave saggistica scritta, e dunque la loro preparazione nello stesso senso. Da giurista dovrò scrivere, i processi vanno sempre più cartolarizzandosi…
E soprattutto, bisogna uscire: bisogna viaggiare, visitare, osservare.
ANS: Partiamo da un semplice presupposto: ogni esperienza universitaria è, come tale, un’esperienza personalissima. Temo, dunque, di non poter giudicare un intero sistema sulla base della mia singola sperimentazione, che a me appartiene, e senza conoscere le migliaia di diverse, uniche e personalissime esperienze che ad altri appartengono.
Tuttavia, alcune domande, in questi cinque anni, me le sono poste: in un sistema educativo in cui già nelle fasi inferiori si avverte una spasmodica esigenza di avviare al lavoro, a livello universitario c’è un riscontro idoneo in termini di insegnamento della “pratica”? Oppure ci si limita troppo spesso alla fredda “teoria”? In altre parole, la nostra università è in grado di preparare egualmente bene i propri studenti all’accademia e al mondo del lavoro?
Mi è sorto anche un dubbio più sinistro e, per certi versi, opposto: non è forse che proprio questa “fretta anticipata” di alternare istruzione e lavoro nel corso delle scuole superiori possa avere il deteriore effetto di scoraggiare il proseguimento negli studi?
E, infine, una provocazione d’attualità. Siamo in tempo di elezioni. Non sembra paradossale che il prossimo 25 settembre sarà garantito il diritto di voto per corrispondenza a 6 milioni di italiani all’estero, mentre gli studenti fuorisede saranno costretti a viaggi e spese per poter esercitare il loro diritto-dovere costituzionale?

Stando all’ultimo report Eurostat, l’Italia si colloca al penultimo posto tra i paesi UE per percentuale di laureati nella fascia di età 25-34 anni, al di sopra soltanto della Romania. Secondo te, quali sono i fattori che determinano questo scarto così evidente con gli altri paesi UE?
FG: Finora, quindi anche adesso, i percorsi di studio sono (stati) lunghi, troppo lunghi: molti esami, troppi, forse. E tutto ciò ha dei costi, monetari e psicologici. Questa cosa spaventa e dissuade, ma seleziona anche.
ANS: È un dato preoccupante. Specie, appunto, se lo si confronta con le altre nazioni europee. Abbiamo un minore tasso di laureati rispetto a paesi ai quali ci onora essere accostati. Allo stesso tempo vantiamo, ahinoi, un minore tasso anche rispetto a paesi a cui ci offende essere accostati. Insomma, mi sembra di poter dire che si tratti a tutti gli effetti di un “caso italiano”.
La domanda, anche qui, non può che essere aperta e rivolgersi alle cause profonde di questo cruciale problema: perché il tasso di abbandono scolastico è così elevato nel nostro paese? Perché molti giovani preferiscono l’ingannatoria prospettiva di un impiego nel breve periodo (e spesso a breve termine), piuttosto che investire in una formazione in grado di fornire loro posizioni socioeconomiche di maggiore sicurezza e di più alto profilo? In breve: perché molti ragazzi preferiscono avere un semplice uovo oggi, piuttosto che un intero pollaio domani?
Potrebbe sembrare banale ma è necessario fare un freddo bagno di realtà: molti scelgono la prima opzione perché quello stipendio, semplicemente, serve. Seppure basso, incerto e spogliato di molte tutele essenziali, serve. Secondo i dati ISTAT relativi al 2021, in Italia il 7,5% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà; in termini capitari, si parla di 5.6 milioni di italiani. In questo scenario, per molti l’educazione sta diventando un “lusso”.
Ovviamente, ciò non basta a spiegare l’impressionante gap. Tra gli altri possibili fattori mi spingo ad ipotizzarne uno in particolare, di natura antropologica. Temo possa esistere nel nostro paese una sorta di “sfiducia generazionale”, tanto infida quanto sterilizzante. La nostra generazione è nata con l’11 settembre, è andata al liceo con la crisi del debito e si sta laureando tra la pandemia e la guerra ai confini dell’Europa. Insomma, siamo abituati a convivere ormai con un’idea di crisi perenne. Non so dire come ciò possa condizionare le nostre scelte o i nostri percorsi. Mi sento di poter dire però che questo certamente incide sulle scelte e sulle prospettive di ognuno di noi, e non certo in modo positivo.

L’Unione Europea ha fissato per i paesi membri l’obiettivo di far arrivare la percentuale di laureati tra i 25 e i 34 anni al 45% entro il 2030. È un traguardo raggiungibile per l’Italia, secondo te?
FG: Nonostante tutto, credo di sì; perché per la nostra e per la prossima generazione, la vita universitaria è e sarà “anche” appetibile; con vita universitaria però mi riferisco soprattutto a quella “fuorisede”, sulla base della mia esperienza.
Comunque sia, penso che la vita universitaria sia un “eccitatorio”: l’Università è cultura e civiltà, o dovrebbe svilupparsi in questo senso. Però costa, in termini di tasse, spese, corredo e vita…
ANS: Gli investimenti dovrebbero prendere come target proprio quella fetta della popolazione che non potrebbe permettersi di continuare gli studi senza un’assistenza da parte dello Stato. Investire sul diritto allo studio. Investire sulla sua effettività. Investire sul futuro dell’Italia. Di certo, in tempi di risorse particolarmente scarse, non c’è più tempo per gli sprechi.
Possono sembrare ricette banali. Tuttavia, non sembra che siano messe realmente in pratica. Ad oggi il nostro paese investe nel sistema educativo solo l’8% del budget statale, contro una media europea del 10%: sono dati provenienti dalle statistiche di Unimpresa relative al 2022. Negli ultimi anni non abbiamo mai brillato in questo tipo di classifiche. Un segnale incoraggiante arriva però dal PNRR: più di 30 miliardi di euro sono destinati a istruzione e ricerca (circa un sesto del totale). Non resta che auspicare una sua corretta e completa attuazione. Si tratta di un’occasione decisiva, anche in questo campo.
Dunque, il dubbio è sempre lo stesso: è il nostro un sistema che valorizza il futuro dei giovani, studenti e non? O, piuttosto, ritiene maggiormente meritevole di tutela quello (necessariamente più breve) dei loro genitori o, addirittura, dei loro nonni? Chiudo su questo, concedendomi un’ultima provocazione pre-urne: se in campagna elettorale si promettono dentiere gratis, beh… non credo che si sia sulla buona strada!

Alla luce delle opinioni di coloro che vivono quotidianamente la realtà universitaria, appare chiara la consapevolezza di un problema reale o, perlomeno, di qualche criticità. Dal rapporto con il mondo del lavoro alla “vita universitaria” in quanto tale, quello che emerge è un sistema che, forse, necessita di qualche aggiornamento. In tutto ciò, comunque, non bisogna negare la capacità di formare eccellenze che ha la nostra accademia. Una consapevolezza maggiore di questo potenziale, forse, potrebbe spingere verso misure a tutti i livelli che ci permettano di tornare al passo.

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