“Offrire arma”, “usare arma”. È questa la lapidaria risposta che la linguista Louise Banks (Amy Adams) sente (o, per meglio dire, vede) quando chiede al mastodontico extraterrestre davanti a lei quale sia il loro scopo sulla Terra. Dopo mesi di lavoro per tradurre ed interpretare un linguaggio così diverso, così “alieno”, la raggelante risposta getta subito nel panico le élites politiche e militari di tutto il mondo, che si preparano a quella che sembra una guerra ormai annunciata.

Il difetto, la limitazione dell’essere umano non permette di cogliere le sottigliezze di una lingua che è schema di pensiero ma anche agente attivo nella definizione stessa della realtà e del tempo. Il gigante che le si staglia davanti, infatti, non sta facendo minacciose allusioni o richieste di sottomissione ma le sta offrendo un dono.

“Arrival” è un film di genere fantascientifico del 2016 diretto da Denis Villeneuve; è una pellicola che il regista focalizza sul tema della riflessione sul rapporto con chi è diverso, sulle difficoltà comunicative legate al linguaggio e al sistema di pensiero differente, portandola alle estreme conseguenze e mettendo in scena una situazione limite come quella di un incontro alieno.

Esistono due tipi di incomunicabilità nell’opera: quella “verticale” tra gli umani e i misteriosi “eptapodi” e quella “orizzontale” tra gli umani stessi. È proprio sulla seconda che dobbiamo concentrarci: non è difficile scorgere la critica alle divisioni, spesso insensate, che gli esseri umani pongono tra di loro, alzando muri e ponendo confini che precipitano nell’insignificanza se messi al confronto con il caso estremo che Villeneuve ci propone; la (in)naturale tendenza a dividersi priva gli esseri umani dei mezzi necessari per comprendere la portata dell’incontro che fanno (un qualcosa capace di farli evolvere e progredire; un tema, questo, che ricorda da vicino l’opera di Kubrick), scegliendo la via del conflitto invece che quella dell’analisi e della comprensione.

La storia comincia con la protagonista, Louise Banks, che, durante una normale giornata trascorsa in cattedra all’università, assiste scioccata, assieme al resto del mondo, all’arrivo di dodici astronavi aliene, che toccano terra ciascuna in una diversa parte del globo, senza un’apparente logica e senza interagire in nessun modo. Il governo statunitense, che già in passato aveva collaborato con Louise, si rivolge proprio a lei per cercare di stabilire un contatto.

Giunta al cospetto degli alieni, nel sito di atterraggio in Montana, Louise e il fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner) si accorgono che la comunicazione per come gli umani la intendono è impossibile: questi alieni non hanno bocca e comunicano attraverso un sistema di scrittura, detto semasiografico, che, contrariamente a quello umano, non fa corrispondere dei caratteri scritti a dei suoni ma trasmette un significato, che per la maggior parte del film rimane sfuggente e misterioso. A queste conclusioni si può giungere grazie alla collaborazione con gli esperti degli altri stati che sono entrati in contatto con queste entità. Ben presto, tuttavia, la cooperazione si interrompe, lasciando spazio alla diffidenza e alla chiusura, sia nei confronti degli alieni, sia tra gli umani stessi, sempre molto attenti alla “ragione di stato” e alla “sicurezza nazionale”.

Dopo il controverso messaggio di cui sopra, il mondo sembra destinato a precipitare in una guerra intergalattica. Louise, però, riesce a stabilire una comunicazione particolare con gli alieni, i quali le mostrano cosa sia in realtà la loro “arma”: essi le fanno dono della loro lingua, capace di alterare la percezione stessa della realtà, congiungendo il presente con il futuro e permettendole di vedere avanti nel tempo, che da lineare diventa ciclico. Grazie a questa nuova capacità di lettura della realtà, Louise non solo riesce a sventare la minaccia di un conflitto ma unifica il mondo stesso, consentendo ai popoli di accedere a questa nuova “lingua universale”.

Non è difficile tracciare un collegamento tra la finzione scenica e la realtà, in questi tempi di tensioni e scontri aperti. Il conflitto tra Russia e Ucraina, ad esempio, ricade esattamente in quella incomunicabilità tra gli esseri umani che l’opera di Villeneuve fa risaltare. Riprendendo il tema centrale dell’opera, il linguaggio come chiave di volta di tutto il sistema di pensiero di un individuo (ipotesi di Sapir-Whorf, citata esplicitamente nel film), si capisce come le divisioni che si pongono tra questi due paesi, e che più di uno, da una parte e dall’altra, ha cercato di far apparire come sistemiche e incolmabili, non siano, in realtà, qualcosa che esiste a priori.

Anche se si è tentato a più riprese di fornire a questo conflitto un connotato quasi di “scontro di civiltà”, assistiamo ad una notevole somiglianza di lingua (la parentela tra russo e ucraino è innegabile) e cultura (il ruolo della chiesa ortodossa, ad esempio) tra questi due paesi e non potrebbe essere altrimenti, vista la storia che li accomuna. Ecco che, dunque, lo “scontro di civiltà” altro non è se non una guerra fratricida.

Il conflitto russo-ucraino ha radici antiche, che possiamo retrodatare addirittura al XIV secolo, passando per le tragedie del secolo scorso, ma che si ascrivono unicamente all’ambito politico-economico; qualsiasi altra interpretazione che ponga una divisione incolmabile tra ciò che è “russo” e ciò che è “ucraino” rappresenta un equivoco che compromette il dialogo e la cooperazione. Una chiusura mentale deleteria e quasi distruttiva, esattamente come accade nella storia che Villeneuve ci propone.

Il film ci presenta un ventaglio di riflessioni e di chiavi di lettura che è impossibile riassumere sinteticamente in queste poche righe. Peraltro, il collegamento che abbiamo operato ne limita, forse, la portata: la riflessione di Villeneuve è politica ma anche filosofica, esistenziale, ed abbraccia temi che dall’appello alla unità di intenti della razza umana si evolvono verso una prospettiva che investe la nostra percezione delle cose e, in ultima istanza, anche del tempo. Tutto si collega entro una cornice fantascientifica ma molto “reale”, in cui il veicolo di trasmissione di questi messaggi è costituito da un linguaggio alieno, in grado di sovvertire tutte le nostre strutture mentali.

Qualcuno ha detto che la storia la scrivono i vincitori, sottintendendo che la storia emerga dai conflitti. Dunque l’essere umano, in quanto “storico”, ha irrimediabilmente all’interno dei suoi schemi mentali una propensione allo scontro e un destino ineluttabile di perenne lotta con i suoi simili? È davvero questo il nostro unico orizzonte? Non c’è un’altra via? L’opera di Villeneuve può e deve lasciarci il dubbio che forse c’è davvero una “lingua universale” che tutti possiamo parlare e capire, un’“arma” per far tacere le armi.

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