“When They See Us” è una serie televisiva pubblicata nel 2019 da Netflix e diretta da Ava Marie DuVernay. Oltre ad essere stata nominata per 16 Emmy Awards, ha vinto il Critics’ Choice Television per la miglior miniserie. Ispirata ad una vicenda realmente accaduta, una violenza sessuale a Central Park nell’aprile del 1989, ripercorre la vita dei cinque ragazzi di colore accusati dello stupro e condannati senza prove effettive. Questi ragazzi sono il capro espiatorio in una società di bianchi, dove è più opportuno condannare uomini di colore piuttosto che lasciare la comunità senza un vero colpevole. L’obiettivo di questa serie è la messa in accusa non solo dell’intero sistema giudiziario, dove la mediatizzazione e l’ambizione inficiano il suo corretto funzionamento, ma anche del sistema carcerario e della società stessa, la quale fatica a reintegrare gli ex detenuti, perfino quando questi sono successivamente dichiarati innocenti.
La pressione dell’opinione pubblica, date le gravi condizioni della vittima della violenza, spinge i poliziotti ad arrestare un gruppo di adolescenti, riuscendo ad estorcere a cinque di loro una confessione attraverso l’uso di violenza fisica e verbale, con interrogatori al di là della legalità. Sono portati a dichiarare il falso e ad accusarsi a vicenda con la falsa promessa che, una volta confessato, sarebbero tornati a casa. In seguito dichiararono di essere stati privati di riposo e viveri per più di ventiquattro ore. Durante il processo, l’accusa insiste sulla retorica della violenza di gruppo, aggravata dal pregiudizio razziale, arrivando addirittura a produrre prove false pur di condannare dei ragazzi innocenti. Vengono descritti come disumani, come degli animali incapaci di controllare i propri istinti. Coloro che avevano meno di sedici anni finiscono in riformatorio, mentre l’unico sedicenne del gruppo sconta la sua pena in un carcere di massima sicurezza: il solo che, tra l’altro, non era stato nemmeno arrestato nel parco, ma aveva semplicemente accompagnato uno degli altri ragazzi alla stazione di polizia. Proprio nel suo stesso penitenziario si trova il vero responsabile dell’accaduto. Solo nel 2002, dopo aver scontato più di dieci anni in carcere, vengono annullate le accuse e le condanne nei loro confronti, grazie alla confessione del colpevole e la conferma del test del DNA. Le vite di questi giovani, ormai in libertà, sono cambiate radicalmente e nulla potrà riparare il danno fatto loro dal sistema giudiziario.
Non è stata la prima e non sarà l’ultima volta in cui delle persone di colore vengono arrestate per il semplice fatto di avere la pelle di un colore diverso, per cui sono considerati maggiormente inclini a commettere crimini. Non è solo la facilità con cui la polizia arresta e condanna continuamente persone di colore, ma è anche la sproporzione tra i reati commessi e la pena stabilita a rendere il sistema giudiziario statunitense ingiusto. Le statistiche, per esempio, dimostrano che un nero alla guida di un’auto ha molte più probabilità di essere fermato rispetto ad un uomo bianco. Una vicenda simile è quella di Anthony Graves, un afroamericano che dal 1992 ha passato ben diciotto anni nel braccio della morte in Texas per un crimine che non aveva commesso. Fu accusato di essere complice di Robert Carte, al quale era stato suggerito di indicarne uno per avere uno sconto di pena per l’uccisione di sei persone in una strage. Come nel caso di Central Park, e nella maggior parte dei casi riguardanti minoranze etniche, la sentenza era già stata decisa prima dell’inizio del processo. Grazie all’intervento di una professoressa, nel 2006 il processo fu annullato per irregolarità e spergiuri emersi. Non tutti, però, sono riusciti a sfuggire al braccio della morte. George Stinney, un ragazzino di colore di soli quattordici anni, venne ucciso nel 1944. Il più giovane condannato a morte nella storia degli Stati Uniti era accusato di aver ucciso due bambine bianche: fu giudicato da una giuria composta esclusivamente da uomini bianchi, gli fu negata la possibilità di fare appello e la sua confessione fu estorta. Settant’anni dopo, i giudici del Sud Carolina hanno riconosciuto lo sbaglio, l’ingiustizia commessa su basi razziste. Nonostante questo, ancora oggi negli Stati Uniti si può essere detenuti nel braccio della morte anche se minorenni. Un numero notevole di innocenti in passato è stato condannato a morte, e ancora oggi si ripetono casi simili.
Gli Stati Uniti sono un paese nato su istituzioni fondamentalmente razziste, basate sullo schiavismo, dove, nonostante i numerosi movimenti per i diritti civili, è comunque presente una struttura di potere ostile alle persone di etnia diversa all’interno delle istituzioni politiche. Le vittime sono principalmente i cittadini afroamericani, che rappresentano la maggioranza dei carcerati americani. I procuratori, infatti, preferiscono mantenere alta la loro percentuale di successo, anche perseguendo persone di colore difese da miseri avvocati di ufficio, anziché affrontare processi complicati e dispendiosi di tempo, soldi ed energie. A tutto questo va aggiunto un sostanziale razzismo delle forze dell’ordine che, come abbiamo visto negli ultimi anni, per esempio nel caso di George Floyd, non esita un secondo prima di abusare del proprio potere e di utilizzarlo contro le minoranze. Tuttavia, negli Stati Uniti, il corpo di polizia risulta sostanzialmente intoccabile. Il fulcro della questione è una ridistribuzione del potere nella società e una riforma del sistema penale e giudiziario più inclusivo, che non penalizzi potenziali colpevoli per la loro etnia e soprattutto per il colore della loro pelle.