Una definizione

Con l’espressione Gender pay gap si intende la differenza salariale tra lavoratrici femminili e lavoratori maschili a parità di mansione. La determinazione di questo gap, e quindi di questo scarto, non è sempre facile da calcolare e certo dipende da diversi fattori: le diverse modalità di retribuzione, le quali possono avvenire secondo una paga erogata ad ore, settimanalmente o mensilmente; il tipo di mansione svolta, la quale però dipende certamente da fattori quali le barriere d’ingresso (per esempio, la necessità di un determinato titolo di studio) e la segregazione occupazionale (il pensiero, dunque, che certi lavori siano “da donna”, mentre altri “da uomini”). 20 gennaio 1927: data simbolica o fake news?

Tenendo dunque in considerazione questi fattori, si parla di Unadjusted gender pay gap, per il quale viene considerato solo lo stipendio medio, e di Adjusted gender pay gap, nel quale tutti questi elementi appena elencati vengono presi in considerazione.

Si sono qui brevemente e sommariamente elencati gli assi di riferimento e le definizioni essenziali che rendono possibile la comprensione base dell’argomento (per cui si rimanda comunque ai numerosi studi). Bisogna però tenere in considerazione che questi fattori, sicuramente economici, dipendono tuttavia da pensieri umani e da situazioni storiche, dalla differenza di concezione e valorizzazione della donna rispetto all’uomo e, conseguentemente, dal ruolo che a questa viene dato all’interno della società.

20 gennaio 1927: data simbolica o fake news?

Nel passato

Avendo l’esperienza dimostrato che l’apporto dato dalla donna emancipata allo sviluppo della civiltà è negativo nel campo della scienza e delle arti e anzi costituisce il più certo pericolo di distruzione per tutto quanto la civiltà bianca ha finora prodotto […], la donna deve tornare sotto la sudditanza assoluta dell’uomo, padre o marito; sudditanza, e quindi inferiorità spirituale, culturale ed economica.

Queste sono le parole con cui l’economista fascista Fernando Loffredo in Politica della famiglia (Bompiani, Milano, 1936) definiva il “giusto ruolo della donna all’interno della società fascista”. La donna, con la pretesa di lavorare, «concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe». Ci troviamo dunque in una situazione in cui la donna viene relegata al ruolo di moglie e madre fedele, dedita alla cura del focolare. Questa immagine non veniva alimentata solo a parole, ma anche tramite provvedimenti legislativi volti a diminuirne l’autonomia e l’indipendenza dalle figure maschili: nel 1926 un decreto legge (R.D. 2480, 9 novembre 1926) aumentava le tasse scolastiche per le sole studentesse dalle medie all’università fino al 50%, così da scoraggiare ancora di più le donne che volevano coltivare i propri studi e relegarle utleriormente alla sola dimensione domestica. Il disegno di legge, estensione della Riforma Gentile del 1923, era introdotto dalle seguenti parole: «Per estirpare il male veramente alla radice, saranno raddoppiate le tasse scolastiche alle studentesse, scoraggiando così le famiglie a farle studiare».

Non si vuole in questo articolo elencare tutte le riforme, scolastiche e lavorative, che vennero prese durante il Ventennio e che ebbero conseguenze sulla situazione femminile, sia dirette che indirette (si rimanda, invece, allo studio di Daniela Curti, Il fascismo e le donne: imposizione e accettazione della “mistica della maternità” e alla bibliografia lì elencata). Si vuole tuttavia mettere, almeno un po’, in luce come una concezione e pregiudizio abbiano avuto dirette conseguenze economiche che ancora oggi ci portiamo dietro (lo stesso pregiudizio è alla base della tarda concessione del diritto di voto che, mentre nel Granducato di Finlandia era già in vigore dal 1907, fu reso effettivo in Italia solo a partire dal 1946).

Pagina dalla rivista La donna fascista (n.34 anno 1941)
Pagina dalla rivista La donna fascista (n.34 anno 1941), in cui si legge che le donne si definiscono come “delle Madri, delle sorelle, delle figlie, delle mogli dei combattenti”, il cui stile di vita è “semplice e sobrio” e in cui il settore della vita è prima “familiare” e solo poi “nazionale”.

Si è parlato sopra di conseguenze, sia dirette che indirette. È bene spiegarsi meglio: se alcune riforme, come quelle elencate, erano esplicitamente dirette alle donne, altre erano rivolte a tutta la popolazione, ma le conseguenze risultavano gravare maggiormente sulla popolazione femminile. 20 gennaio 1927: data simbolica o fake news?

Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, infatti, il governo fascista dovette fare i conti col cambio della lira. Senza addentrarsi nelle complesse questioni economiche di quella che Mussolini definì la «battaglia della lira» (18 agosto 1926), basti sapere che questa si concretizzò in un taglio degli stipendi che colpì sia la popolazione maschile che quella femminile.

Quindi, quando il Partito Democratico, in un post pubblicato su Facebook il 1 dicembre 2020 scriveva che «Mussolini dimezzò gli stipendi delle donne» in un leggendario provvedimento databile il 20 gennaio 1927, questa è da ritenersi una fake news: non è stata infatti ritrovata da nessuna parte la prova di questo fatto, e il provvedimento è stato poi smentito da svariati professori e professoresse universitarie, specializzati nello studio del periodo fascista. 20 gennaio 1927: data simbolica o fake news?

Il post pubblicato dal Partito Democratico il 1 dicembre 2020
Il post pubblicato dal Partito Democratico il 1 dicembre 2020

É però giusto considerare questa data, il 20 gennaio, almeno una data significativa che simboleggia lo svantaggio della condizione lavorativa femminile rispetto a quella maschile: l’imposizione di grossi ostacoli alle donne per l’accesso ad un’istruzione paritaria, sommato ai provvedimenti di cui sopra, aggiunto ad una legge del 1934 (legge 221), che limitava l’impiego femminile, tutto ciò fa capire come la situazione lavorativa femminile si dimostrasse oggettivamente complicata e volontariamente ostacolata dal governo. Per queste ragioni, si può assumere questa data, il 20 gennaio, come simbolo dell’imparità lavorativa tra uomini e donne, una sorta di gender pay gap impropriamente detto che pone le basi di quello attuale. 20 gennaio 1927: data simbolica o fake news?

Nel presente

La situazione attuale in Italia non si dimostra ovviamente tanto tragica e impari come quella durante il Ventennio, ma non ci troviamo ancora in una situazione di completa e sincera uguaglianza. 20 gennaio 1927: data simbolica o fake news?

Secondo uno studio dell’Istat del 2021, infatti, i lavoratori uomini hanno stipendi maggiori delle lavoratrici donne che svolgono le stesse mansioni.

Nel 2018, infatti, si conta che nel settore dei lavoratori laureati le donne guadagnassero 19,6 euro/h contro i 23,9 euro/h degli uomini, con un GPG (gender pay gap) del 18%. Nell’ambito di una licenza primaria, invece, gli stipendi, oltre ad essere generalmente minori, erano di 12,7 euro/h per gli uomini contro i 10,8 euro/h delle donne, con un GPG del 15%.

Complessivamente, nell’ambito del settore lavorativo privato il GPG è del 17% (2018), mentre considerevolmente più basso nel settore pubblico, fissato al 2%. Si tratta però di un Unadjusted gender pay gap, che dunque non tiene in conto dei tipi di mansione svolta, della segregazione occupazionale e del tasso di occupazione femminile.

In un campione di donne tra i 25 e i 49 anni, nel 2019 si è rilevato che, «già prima della crisi sanitaria, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro era molto legata alla presenza di figli». In quest’anno, dunque, il tasso di occupazione delle donne con figli (in età prescolare) era del 55,2%, mentre per quelle senza figli del 74,3%. Basta aspettare un anno per vedere questi dati cambiare considerevolmente: nel 2020 le lavoratrici con figli erano il 53,3%, mentre quelle senza figli il 72,7%. Nel complesso europeo, comunque, l’Italia si classifica come uno degli ultimi paesi in Europa, con 15,3 punti in meno rispetto alla media nazionale, e una percentuale generale di occupazione femminile di solo 58,7%, contro alla media europea del 74%. 20 gennaio 1927: data simbolica o fake news?

Grafico riassuntivo
Grafico riassuntivo

Nel futuro

Non sono, ovviamente, ancora presenti studi su questi ultimi anni, per i quali si dovrà aspettare, e, soprattutto, dall’insediamento del nuovo governo formato da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, i quali, durante le campagne elettorali, molto hanno spinto propagando non solo l’idea di famiglia tradizionale, ma definendosi contrari alle riformulazioni dei titoli genitoriali: per questi partiti, infatti, intoccabili rimanevano i titoli, oltre che i ruoli, di “madre” e “padre”, di contro alla proposta che voleva la loro sostituzione con i più generici “genitore 1” e “genitore 2”, (che avrebbe facilitato anche quelle situazioni familiari in cui vi erano due genitori dello stesso sesso o un genitore unico).

Basti pensare che l’attuale Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in non pochi dei suoi discorsi si definisce, fra gli altri, usando il termine “madre”: questo tipo di definizione sicuramente non mette un sincero limite all’impiego femminile, ma si inserisce in una concezione della donna come elemento della società con un preciso ruolo, appunto proprio quello di madre. A conferma di ciò, l’Opzione Donna approvata nella Legge di Bilancio del 2023, in cui l’anticipazione della pensione figura legata non solo agli anni di servizio, ma anche al numero di figli. Si tratta ovviamente di una proposta che riconosce certo il peso, sia economico che fisico, dell’avere un figlio, ma che stabilisce un nesso per cui la donna viene premiata in quanto madre e non in quanto lavoratrice, a parità di anni di servizio.

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