Sulle colline toscane sorgono le rovine dell’ex Ospedale psichiatrico di Volterra, il più grande manicomio d’Italia. Tra edifici crollati, vetri rotti e vegetazione in estensione, è possibile riscoprire la storia di dolore e lotta che ha caratterizzato la psichiatria italiana nel corso del Novecento.

Una città da manicomio

Il Manicomio di Volterra viene fondato nel 1888 e cambia nome più volte nel corso degli anni: ospizio di mendicità, asilo dei dementi, frenocomio di san Girolamo e infine ospedale neuropsichiatrico.
Inizialmente la clinica era situata nel convento di San Girolamo, poi comincia ad ampliarsi su tutta la collina con la creazione di numerosi padiglioni.
Il periodo di edificazione più prospero è durante la Prima guerra mondiale, quando sono eretti più di 10 padiglioni per accogliere il sempre maggior numero di pazienti. La struttura del Volterra era infatti una delle più richieste in Italia a causa della retta economica che offriva.
Il primo padiglione realizzato è quello inizialmente chiamato Kraff-Ebing, rinominato Scabia, in onore del suo dottore e dirigente. Sviluppato su 3 piani e composto da 200 posti letto, oggi si trova in totale stato di abbandono.
Tra gli altri edifici emergono il padiglione Lombroso, volto all’osservazione dei nuovi pazienti e ora trasformato nel Museo della Psichiatria. Il museo offre visite guidate anche all’interno di 3 altri padiglioni aperti al pubblico: il Maragliano, il Charcot e il Ferri.
Il padiglione Ferri rappresenta una delle grandi novità introdotte al Volterra. Creato nel 1930, è stato il primo ospedale psichiatrico del Paese a prevedere una “sezione criminali” dove accogliere i degenti autori di crimini, chiamati nella clinica “giudiziari”. In convenzione con il Ministero di Grazia e Giustizia, più di 1000 uomini vennero trasferiti nel tempo al Ferri.
Un altro passaggio significativo è rappresentato dalla creazione dei padiglioni Bianchi e Chiarugi nel 1948, destinati alla rieducazione dei minori e orfani.
Nel corso del XX secolo il manicomio di Volterra si afferma come una delle cliniche psichiatriche più moderne di tutta Italia, grazie, soprattutto, al suo direttore.

Scabia: un precursore della psichiatria moderna

Originario di Padova, il dottore Luigi Scabia inizia a lavorare presso il Volterra nel 1900. In poco tempo diventa una figura cardine nell’attività dell’istituto.
Durante la sua formazione universitaria abbraccia la dottrina filosofica del positivismo, che predilige il metodo di ricerca basato sull’esperienza diretta. Egli cerca di implementare questo principio all’ospedale psichiatrico, preferendo come cura per i malati l’ergoterapia o terapia del lavoro. Secondo il dottore il lavoro fisico consentiva ai c.d. “matti” di occupare la loro mente e, al tempo stesso, svolgere attività utili per il vivere sociale.
Sotto la guida di Scabia, il manicomio diventa un vero e proprio villaggio. Non solo sale di ricovero, ma anche edifici quali lavanderie, falegnamerie, botteghe, officine e colonie agricole. Un intero sistema avente come obiettivo quello di donare ai degenti una vita il più autonoma e libera possibile. Per un periodo fu persino introdotta una moneta interna che consentiva acquisti nel villaggio-ospedale.
Scabia era un avanguardista rispetto ai suoi contemporanei nella cura delle malattie mentali, cercando di dare indietro un po’ di dignità a coloro a cui era stata sottratta.
Testimonianza di questo particolare metodo di cura sono anche i graffiti di Fernando Nannetti, detto NOF4. Il degente, in cura nel padiglione Ferri, dedicava le sue due ore di aria al giorno all’incisione di parole e segni nel muro, con cui descriveva la sua vita e cercava di riaffermarsi come persona. È possibile osservare parti di quest’opera nel museo all’interno del Volterra.

La legge Basaglia e la chiusura del manicomio

Nel 1978 lo psichiatra Franco Basaglia si fa promotore di una riforma dei servizi psichiatrici, che farà dell’Italia il primo paese al mondo a stabilire la chiusura dei manicomi. La legge n°108, anche chiamata Legge Basaglia, afferma l’importanza del rispetto della dignità umana nei trattamenti psichiatrici e il superamento di metodi cruenti e coercitivi per la cura delle malattie mentali.
Anche l’ospedale psichiatrico di Volterra, secondo le disposizioni legali, comincia a dimettere i pazienti e chiude alla fine degli anni ’70.
Ad oggi solo pochi edifici sono ancora in uso, come casa-famiglia per gli ex degenti oppure comunità terapeutiche. La maggior parte dei padiglioni sono abbandonati e inaccessibili. Un grande peccato considerando la storia innovativa di questo luogo.
Il tabù sui disturbi mentali sta svanendo progressivamente e l’elemento umano è oggi il fulcro delle terapie psichiatriche. Risulta comunque necessario non dimenticare l’oscuro passato degli ospedali psichiatrici e soprattutto coloro che sono stati all’origine di questa necessaria riforma, come il manicomio del Volterra.
Sarebbe auspicabile un ampliamento del museo della clinica, fino a includere magari l’intero complesso edilizio della collina. In alternativa una riqualificazione di alcuni padiglioni per destinarli ad usi sanitari. Invece che costruire nuovi edifici, andando a minare la vegetazione locale, lo Stato dovrebbe prendere in considerazione la ristrutturazione degli immobili abbandonati in tutta Italia.

Quella del manicomio del Volterra è una storia di dolore, lotta e cambiamento che descrive il difficile lavoro di de-stigmatizzazione delle malattie mentali, un processo lungo ancora in corso.

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