Treni che partono, treni che tornano, autobus diretti verso un nuovo inizio, aeroplani presi al volo con la fantasia, nella speranza di andare lontano, per liberarsi dalla povertà, dal dolore, per riprogrammare l’esistenza: domina l’esigenza di spostarsi, di studiare, di conoscere, di gettare il proprio corpo e il proprio cuore in un’inedita quotidianità, giudicata migliore e tutta da scoprire; ma il destino, involontariamente, sceglie di tradire le aspettative e di far sprofondare anche le anime più coraggiose, abituate alle difficoltà, in rimpianti irreversibili. Annem: la vita che sfugge e confonde, disperdendo gli affetti. Direttore responsabile: Claudio Palazzi
Fin dalle primissime inquadrature di Annem (2019, regia di Mustafa Kotan) si avverte un freddo che pervade l’intera pellicola, una gelida aridità che inonda tutti gli ambienti e buona parte delle interazioni tra i personaggi; le altre stagioni sono assenti.

L’inverno è un implicito ma significativo protagonista: lo troviamo nella decrepita casa natale di Nazli o nello squallido appartamento di Istanbul, dove la ragazza va ad abitare durante gli anni universitari; l’algida stagione si palesa nei maglioni infeltriti, che si è costretti ad indossare anche durante la notte, e nelle antiquate coperte a quadri, con cui avvolgersi non soltanto per prendere sonno, ma anche in pieno giorno per studiare, lasciando scoperte a malapena le dita per tenere la matita e sfogliare le pagine dei libri di testo.

Non mancano i mesti e scuri cappotti, che fanno di tutto per reprimere vivacità e bellezza: essi sono il sintomo del torpore relazionale, di un’assurda insufficienza di corrispondenze umane che culmina nella tragica presa di coscienza di una morte ormai prossima.

La voce narrante della protagonista Nazli, dal timbro sommesso, quasi privo di coinvolgimento, anticipa la cupezza del film; mentre la fanciulla è sul treno che la conduce dalla madre, forse per l’ultima volta, le sue parole, aride ma delicate, prendono lo spettatore per mano e, come a voler dare una spinta disperata alla propria vita, al di là della dilagante tristezza, accompagnano quel flashback che riporta indietro nel tempo, agli anni della sua infanzia: un passato lontano, inafferrabile se non nei ricordi, anch’essi succubi dell’alienazione, poiché la ragazza ha sempre voluto prendere le distanze dalle sue origini, dalla sua precaria esistenza.

Ayşe diventa madre di Nazli molto giovane e, come afferma a posteriori sua figlia, non avendo un obiettivo, né particolari aspirazioni di alcun tipo, la bimba diventa il centro del suo piccolo, remoto universo.

I luoghi natii della fanciulla delineano un altro malinconico impatto con la storia narrata: ci troviamo in un villaggio della più retrograda Turchia, in una comunità di allevatori e agricoltori che lavorano ai limiti della sussistenza, in un contesto caratterizzato da un’arretratezza così disarmante che risulta difficile collocarlo nel ventunesimo secolo; Ayşe che contratta per poche lire sul prezzo degli spinaci e nasconde gli spiccioli risparmiati in un barattolo di vetro nella legnaia genera un’impressione tutt’altro che indifferente.

Giorno dopo giorno, la donna convive con ristrettezze economiche ed incomprensioni coniugali, ma queste ultime definizioni non sono minimamente in grado di rendere l’idea dell’atmosfera rappresentata: è complicato dare un profilo accogliente ad una diroccata, anche se abitata, casa di campagna, buia, umida, con un arredamento ridotto all’essenziale, pareti spoglie, mobili probabilmente invasi dai tarli, una credenza dal lavandino minuscolo, scale instabili e scricchiolanti; si tratta di un’abitazione che trasuda miseria e quest’ultima trafigge la psiche dello spettatore quando Ayşe strappa una stoffa consunta per creare un vestito per una bambola nuda, l’unico giocattolo della figlia.

Le relazioni familiari si dimostrano ancora più deprimenti: Osman, il padre di Nazli, è il perfetto esempio di una prospettiva ancora gerarchica, maschilista, patriarcale, che non contempla assolutamente una spontanea espressione degli affetti; a ciò si aggiunge la passione dell’uomo per l’alcol e per le scommesse ippiche, che sovente lo trasformano in un uomo irascibile e violento, incline a picchiare la moglie nei momenti di maggior sconforto, quando lo spettro dell’insoddisfazione e dell’indigenza diventa insopportabile.

L’intera vicenda, incentrata perlopiù sul complesso rapporto tra madre e figlia, al di là dell’incapacità di Osman di mostrare i propri sentimenti, è dominata da un’invalidante reticenza affettiva: Ayşe, nonostante i suoi modi di fare goffi e talvolta inopportuni, è l’unica a credere nella sacralità dei legami di sangue e ha sacrificato la sua stessa libertà intellettuale e fisica pur di crescere la sua Nazli con amore e serenità, cercando di non farle mancare nulla.

La donna non ha nemmeno avuto la possibilità di finire le elementari, ha sposato un uomo più per convenienza che per amore e, diventata mamma, ha convogliato tutte le sue forze sulla bambina, confidando che in un futuro prossimo lei avrebbe realizzato le sue aspirazioni: Nazli si sarebbe riscattata grazie all’istruzione e ad una formazione esperienziale differente, affrancandosi dalla chiusura culturale del luogo d’origine, dei suoi stessi genitori, magari spronata dagli stimoli di una città grande e moderna.

Tuttavia la ragazza, troppo concentrata sulla sua voglia di evadere, di allontanarsi dalla patetica ingenuità della retriva campagna e dei suoi abitanti, famiglia compresa, non si accorge dell’amore incondizionato della madre, né è in grado di contraccambiarlo esplicitamente; una volta cresciuta e diventata adolescente, ormai consapevole della situazione umana e finanziaria in cui vive, sperimenta e mette in pratica lei stessa quella freddezza interiore che spezza gli entusiasmi e l’empatia con la madre, vissuta con indicibile crescente distacco.

La trama e i personaggi che la animano non sono influenzati da ruoli attoriali completamente negativi, né si prestano a scene di concreta violenza, in quanto, a dettare le sorti di ogni risvolto narrativo, c’è un unico incontrastato dittatore: il tempo che scorre senza sosta sceglie deliberatamente di sorvolare sui fatti più gioiosi della vita di Nazli, al massimo vi dedica qualche secondo, poche istantanee, sguardi fugaci nei quali già si intravede la crepa di un triste epilogo, della tragedia inevitabile.

La linea temporale accelera in alcuni punti, in altri rallenta, ma è solo una pausa apparente; laddove il dialogo si dilunga e l’attesa per una decisione o per un evento accumula minuti, è già in atto una vera e propria corrosione psicologica: dall’altra parte dello schermo, ci si sente prigionieri dell’ansia, ben prima di essere condannati ad un preciso avanzamento filmico.

Si avverte il pensiero che scalpita, che spinge in avanti, accecato da una curiosità che, suggestionata da un costante cattivo presagio, ha bisogno non solo di individuare ciò che viene dopo, ma, a differenza del desiderio di partecipazione tipico dell’identificazione spettatoriale, travolge e intrappola chi tenta di entrare nella storia per edificarvi invano una narrazione alternativa.

Scatta un’immedesimazione sui generis, che, paradossalmente, scarica su chi guarda il film le preoccupazioni della madre Ayşe da un lato, la vergogna per le proprie umili origini, l’apatia sentimentale di Nazli dall’altro: il senso di estraneità provato dalla fanciulla non viene introiettato dallo spettatore, eppure quest’ultimo né è circondato senza scampo, mentre il cappio del tempo, che si stringe a poco a poco sulla drammatica, immota quotidianità, lascia dietro di sé un animo agonizzante di fronte alle deliberazioni del fato.

La clessidra fa cadere i suoi granelli, con quel ritmo che possiede l’astuta violenza di una goccia d’acqua che corrode senza fermarsi; l’ellissi iniziale, che spazza via l’infanzia di Nazli nel giro di una notte, non è l’unico esempio di un’esistenza che se ne va con grandi falcate, impedendo all’essere umano di godersi i momenti più belli: la corsa del tempo concede minimi cenni alla laurea, alle nozze, alla gravidanza della ragazza, questi lieti avvenimenti vengono narrati quando sono già avvenuti, quando non si può che prenderne atto e proseguire, sperando di riuscire a catturare almeno un sorriso, anche se sbiadito, o una foto che li ricordi.

Ampio spazio, invece, viene dedicato all’incontro tra la famiglia di Nazli e quella del suo futuro marito Mert, in occasione di una cena per la reciproca approvazione del matrimonio: la disparità sociale che divide i due giovani suscita non poco imbarazzo durante la serata e, ancora una volta, si impongono la reticenza, il pregiudizio, la difficoltà nel comprendere l’altro, fino a sfociare nel compromesso estremo della giovane protagonista, che sacrifica la sua famiglia, soprattutto l’affetto antiquato, ingenuo ma insostituibile di sua madre, pur di soddisfare la sua fame di cambiamento, di diversità.

Anche la nascita del primo figlio della ragazza è un’istantanea effimera, che racchiude la disgrazia successiva: gli occhi di lei sono felici ma stanchi, memori di un passato arduo, impossibile da dimenticare, già segnato dalla morte del padre avvenuta pochi mesi prima, e dalle tante fatiche sostenute sia per sposare l’uomo che ama, sia per diventare una brava insegnante; quelle iridi pure, profonde, sono purtroppo velate dal dispiacere, preannunciano il dramma imminente allo spettatore, e quest’ultimo si rispecchia in quel dolore, ma subendolo dall’esterno, troppo esautorato dalla passività per poter reagire.

La reazione della giovane, invece, non tarda ad arrivare ed è esplosiva, una scossa che rende chi guarda da fuori del tutto impotente: l’incubatrice svanisce lentamente dallo schermo, alla morte viene rispettosamente risparmiata la diretta…

Ciò che segue è parimenti straziante: Nazli si scatena in un pianto incontenibile, che nemmeno Mert riesce a calmare, mentre abbraccia il corpo isterico, distrutto della moglie ancora sul letto di ospedale; ogni tentativo di consolazione si rivela superfluo, addirittura dannoso, come Ayşe che viene allontanata dalla figlia in malo modo, nonostante le buone intenzioni della donna.

Il tempo passa, inarrestabile, e Nazli, che non si è ancora ripresa dalla morte del suo bambino, si isola dal mondo, persino dal suo amato, e non avrà alcun contatto con la madre per parecchie settimane; la ferita è troppo profonda per rimarginarsi in fretta.

In tanta dolorosa inerzia interiore, d’improvviso pare spalancarsi una possibilità, profilarsi una via d’uscita dall’oscuro tunnel della delusione, dell’incomunicabilità: Nazli sale sul treno e va a trovare Ayşe, che non si trattiene dall’esprimere la sua gioia per quell’inaspettata sorpresa, vista come un’occasione per riempire quei tanti giorni sprecati nella solitudine e nel silenzio; la figlia si rende conto di aver dato per scontato il suo rapporto con la mamma e vuole rimediare, trascorrere istanti sereni con lei, guardando con occhi diversi la casa e il paese dove è cresciuta.

Gli studi e la carriera ad Istanbul hanno permesso a Nazli di raggiungere il benessere economico, perciò non esita a viziare la madre, regalandole una giacca, portandola a pranzo in un ristorante: la distanza si è finalmente dissolta, entrambe sembrano spensierate, la ragazza ha ritrovato le origini, l’affetto autentico della persona più importante; la felice conclusione è vicina, il superamento della povertà e dei tristi eventi passati è ormai compiuto.

Ma quella spontanea contentezza è solo una labile, momentanea illusione: i sorrisi s’infrangono velocemente, l’esistenza è un gracile respiro, un soffio che sfugge, disperdendosi per sempre nella tormenta, e Nazli, che sa di dover morire presto a causa di un male incurabile, ha intuito troppo tardi il fragile, inalienabile valore della vita; il futuro, ma anche il presente sono condannati.

A questo punto del film, quando personaggi e spettatori sono completamente stremati dall’ineluttabilità del male, emerge la definitiva consacrazione dell’estro artistico delle due attrici protagoniste: Sumru Yavrucuk, con una robusta esperienza teatrale alle spalle, interpreta con brillante trasformismo il ruolo di una madre bonaria, generosa, che, nonostante tutto, non si perde d’animo ed è entusiasta di sua figlia, per poi mostrarsi esanime, sfinita per la definitiva crudezza del fato.

I sentimenti si alternano fino a livellarsi in una crudele resa nell’ultima scena della pellicola: con il volto spento, minato dalla desolazione, Ayşe s’incammina per la foresta dagli alberi spogli, ammantati d’inverno e di sole vespertino da non ritorno, come a voler condividere le sorti della figlia, raggiungendola nel torbido mortale infinito; di nuovo, la morte viene lasciata fuori dallo schermo, poiché la sua predizione è già insostenibile.

Dal canto suo, Özge Gürel, la Audrey Hepburn turca, stravolge il pubblico con la sua profonda immedesimazione, lasciandolo senza difese; già nota a livello internazionale per le serie romantiche Cherry Season, Bitter Sweet e, soprattutto, Bay Yanlış, che ha reso ancor più dirompente la sua immediatezza attoriale, in particolare sul versante comico, con Annem tira fuori, senza sforzi né affettazione, tutta la sua potenza drammatica, proponendo a chi la osserva un vero e proprio viaggio ermeneutico nei sentimenti, abdicando alla finzione e alle insipide mezze misure.

A proposito della sua stupefacente bellezza, c’è ben poco d’aggiungere: dotata di innate classe ed eleganza, Özge paralizza con i suoi primi piani, rinuncia ad abiti avvenenti e a make-up elaborati e, benché ciò sia richiesto per impersonare la povera e sfortunata Nazli, tuttavia questa semplicità non deve essere intesa come un caso isolato; in ogni interpretazione la sua leggiadria trasmette fascino, naturalezza ed un sussurrato ma chiaro insegnamento a restare sempre se stessi, e Özge si avvale di ogni singolo ruolo recitato per promuovere con ferrea determinazione la fedeltà ai propri ideali, alla propria inimitabile identità.

Nessuno sa cosa si nasconde dietro l’angolo, se il prossimo passo condurrà verso un rovinoso precipizio o davanti a un panorama pieno di luce; tornando all’incipit del lungometraggio, quando Nazli, prima di raccontarsi e già cosciente di essere malata di cancro, è sul treno per raggiungere la madre, ascolta una bambina che sta leggendo ad alta voce una favola, e una frase risuona, emblematica: “Il coniglietto e sua madre tornarono nella foresta. La madre disse: «Non ti allontanare, stammi vicina. Altrimenti, diventerai il coniglio di qualcun altro»”.

Presi dalle ambizioni, dalle inezie della routine, si vivono le piccole gioie, gli affetti veri quasi sovrappensiero, dimenticando quanto siano importanti, e i giorni, i mesi, gli anni non smettono di avvicendarsi, assottigliando le opportunità di apprezzarli pienamente; da artefici del proprio percorso ontologico, basta un attimo e ci si ritrova schiavi non solo delle proprie scelte sbagliate ma anche della crudele imprevedibilità dell’esistenza: si diventa il “coniglio” del male, della sofferenza, il burattino inerme tra le mani dell’infausta provvidenza, e non c’è opposizione che regga, ribellione che possa cambiare le carte in tavola.

Come tante pedine disperse nel vuoto, ci si affanna a puntare alla perfezione, al costante miglioramento ma, involontariamente, una parte di sé scivola via, senza accorgersene, finché non è più possibile porvi rimedio.

Özge Gürel, in una delle sue ultime interviste rilasciate alla testata Cumhuriyet, ribadisce questo concetto, a più di un anno dall’uscita del film; il mondo è imperfetto, precario, ma nasconde tante emozioni ancora da esprimere, milioni di istanti intrisi d’eterno, se solo si smette di correre e ci si sofferma a distinguerli.

E la sua sintetica dichiarazione è inconfutabile, tremendamente attuale: “Non sei immortale, goditi la vita”.

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