È il 24 febbraio 2022 quando i primi tank russi oltrepassano il confine ucraino, sotto gli occhi increduli del mondo, in particolare quello Occidentale, che, non si aspettava di avere una guerra proprio fuori le porte di casa. È stato un febbraio gelido quello per le relazioni diplomatiche tra Occidente e Russia, storicamente abituate a muoversi lungo il filo del rasoio. La Russia, una distesa di 17.130.000 chilometri quadrati, che divide l’Europa dall’Asia, senza riconoscersi pienamente in nessuna delle due, ma qualificandosi come una sintesi di entrambe, che va ancora oltre costituendo un unicum storico, culturale e politico, che l’Occidente fa ancora fatica a capire.
Sanzioni: L’Occidente si muove sul fronte economico
Dalle Repubbliche separatiste, a Mariupol, fino all’avanzata verso le grandi città come Leopoli e Kiev, l’esercito russo continua la sua avanzata scontrandosi con una resistenza ucraina che non si arrende, mentre l’Occidente decide di lanciare la sua offensiva attraverso l’emanazione di pacchetti contenenti dure sanzioni economiche, rivolte ad intaccare la finanza, i trasporti, l’industria, le riserve energetiche russe e i depositi individuali degli oligarchi. Questi due ultimi punti risultano essere gli snodi principali di questa politica, in particolare le risorse devono scontrarsi con una nuova economia globalizzata e interdipendente, che rende ancora più confuso il confine che divide un’economia dall’altra. L’Ucraina richiede all’Occidente la dichiarazione di una No Fly Zone, punto di non ritorno che sancirebbe ufficialmente l’entrata in guerra di Europa e Stati Uniti, fortunatamente questa opzione risulta ancora essere considerata come l’ultimo scenario prospettato dall’Occidente, che continua a portare avanti la sua linea di sanzioni e di diplomazia, seppur continuando ad aumentare la spesa pubblica per la difesa, che in Italia e in Germania è arrivata a toccare il 2%.
Esclusione dallo Swift e crisi energetica: la globalizzazione può fermare la guerra?
Dal 12 marzo è prevista l’espulsione dallo Swift, il primo intermediario finanziario al mondo, di sette banche russe diverse: Vtb Bank, Bank Rossiya, Bank Otkritie, Novikombank, Promsvyazbank, Sovcombank e Veb.rf, ma risulta difficile da ignorare l’assenza dall’elenco sia del primo gruppo bancario russo, Sberbank, che della Gazprombank, principale azionista dei due Nord Stream e istituto attraverso il quale l’Eni effettua circa i 2/3 delle sue transizioni. Decisione che però non dovrebbe sorprendere alla luce della stretta dipendenza che l’Europa ha nei confronti del gas russo, e che pone ancora una volta l’accento sulla necessita di un’adeguata politica di diversificazione delle risorse. È durante la Seconda guerra mondiale che con Wiston Churchill si parla per la prima volta del concetto di diversificazione, ovvero la strategia per cui un paese deve diversificare il più possibile l’origine delle sue fonti energetiche. Come scrive Paolo Sellari, professore di geografia politica ed economica all’Università di Roma La Sapienza: “La sicurezza degli approvvigionamenti energetici costituisce uno dei principali obiettivi della politica estera e dell’azione geopolitica di un paese”. In seguito alla caduta dell’URSS il bacino del Caspio divenne un luogo di approvvigionamento strategico per l’Europa, che vede le sue maggiori pipelines, come il Nord Stream, attraversare la Bielorussia, la Polonia e l’Ucraina. I rapporti geopolitici del tempo suggeriscono però agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna di emanciparsi ancora dalla zona di influenza russa, nei primi anni 2000 stipulano accordi con la Turchia, allora stretto partner commerciale e politico, per la costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Cey , così da poter ottenere una fonte di approvvigionamento da un paese all’epoca considerato amico. Gli sviluppi politici degli ultimi vent’anni hanno però mutato radicalmente i rapporti tra Turchia e Occidente, che hanno visto un avvicinamento della prima alla Russia; in particolare alla luce del possibile intervento di Putin nel boicottaggio del Colpo di Stato turco ai danni di Erdogan. Dopo il blocco di Schulz all’attivazione del Nord Stream 2, il nuovo gasdotto che attraversa il Mar Baltico e progettato per avere una capienza fino a 110 miliardi di metri cubi l’anno, l’Europa si ritrova ad affrontare la più grave crisi energetica di sempre, seppur con diverse disparità all’interno del continente: la Francia, ad esempio, ha una dipendenza inferiore dal gas russo, per via della presenza di centrali nucleari sul proprio territorio, mentre più complicata sembra essere la situazione tedesca o italiana.
Crisi energetica in Italia
L’Italia non ha mai fatto proprie le parole di Churchill, e non di certo per un gap linguistico, quanto per una continua scelta sbagliata di politica delle risorse, che non ha mai tenuto troppo conto dei concetti di affordability e reliability, ovvero la capacità delle risorse di rispondere velocemente ed efficacemente alle variazioni improvvise di domanda e offerta, e l’affidabilità intesa come garanzia di investimenti per la fornitura di energia in linea con gli sviluppi economici e le esigenze ambientali. <<I passi avanti che potevano verificarsi con la transizione energetica rischiano di diventare terreno bruciato alla luce di questa imminente crisi>> racconta il professor Sellari alla Redazione. <<La crisi energetica si amplifica se la inseriamo all’interno della già in atto crisi climatica. Gli esperti sembrano essere d’accordo sul fatto un incremento delle energie rinnovabili non sarebbe comunque sufficiente per rimediare alla crisi energetica in atto. Quando si parla di energia bisogna ragionare sul breve e sul lungo periodo. La dichiarazione del Governo sulla riapertura delle centrali a carbone rappresenta solo una soluzione temporanea, bisogna progettare sul lungo periodo e investire sulla diversificazione delle fonti e dei fornitori>>. Si riaccendono così dibattiti sull’efficacia del nucleare e sul GNL, gas naturale liquefatto. << Ora è necessario puntare sulla libertà del mare per investire sui rigassificatori, anche se sono in molti a non volerli. Inoltre ci si auspica lo sblocco di molte concessioni esplorative di petrolio e gas in Italia.>> continua il professor Sellari. Per l’Europa, l’approvvigionamento energetico risulta essere più ostico rispetto agli Stati Uniti, che godono invece di una maggior disponibilità di risorse sul proprio territorio. Le sanzioni sul gas russo certamente avranno effetti più gravi sull’economia del Cremlino, ma non saranno prive di conseguenze anche per quella europea, già fortemente colpita da due anni di pandemia. <<Se non si troveranno alternative efficaci velocemente, il costo dell’energia non potrà far altro che gravare sulle finanze dei cittadini e delle imprese rischiando di vanificare gli effetti della ripresa post-covid, dei piani di sviluppo previsti con il PNRR e, in generale, di dover ripesare un modello socio-economico >> chiosa Sellari.
Il gas naturale liquefatto sembra essere la soluzione alternativa più probabile, nonostante i costi di trasporto siano elevati e dipendenti dalle fluttuazioni del costo del petrolio. L’Europa sta comunque lavorando per diminuire la sua dipendenza dal gas russo, al momento del 40%. La visita del ministro degli esteri Di Maio nella Repubblica del Congo è la prova dei primi tentativi di diversificazione per assicurarsi il GNL. Questa stessa interdipendenza economica che rende le sanzioni un’arma a doppio taglio per l’Europa, può però giocare un ruolo favorevole per la conclusione del conflitto, in quanto un’economia di scala sempre più globalizzata non vede giovamento di profitti durante periodi di crisi che disincentivano il consumo personale e gli investimenti. La Cina, motore dell’economia mondiale, emerge sul piano delle relazioni diplomatiche come l’unico possibile interlocutore in grado di poter far giungere Putin a un accordo. Alla luce dei suoi vasti interessi commerciali, che si spingono dal Mar Meridionale Cinese ai maggiori porti occidentali, la Cina potrebbe quindi esercitare pressioni sul Cremlino per la conclusione del conflitto e il ristabilimento delle normali condizioni politiche che favoriscono gli scambi commerciali e la sicurezza degli affari.
Attacco oligarchi russi
Colpire gli oligarchi russi è un altro importante punto varato dai pacchetti di sanzioni, che prevedono l’espropriazione dei loro beni e il blocco all’accesso ai paradisi fiscali di tutto il mondo. Sanzioni varate con la speranza che il “cerchio magico” di Putin possa cercare di farlo ragionare, come ci fa notare il professor Roberto Valle, docente di storia dell’Europa Orientale presso La Sapienza: << Putin può vantare di un solido consenso nell’élite russa. Questo sistema si è consolidato grazie ai Siloviki, gli uomini dei ministeri della forza, come l’esercito, i servizi segreti, la polizia, in poche parole l’élite nazionale che ha salvato il paese dopo la crisi economica degli anni ‘90, e che risulta tutt’ora essere un gruppo molto compatto al comando di questa operazione militare>>. Risulta così inaspettato il licenziamento su ordine di Putin dei due capi in carica del KGB.
Le origini storiche e culturali del conflitto
Questa guerra, così come tutte le altre che sono però passate in sordina nell’opinione pubblica Occidentale, dalla Siria allo Yemen, deve essere condannata, ma ciò non deve rappresentare un deterrente per procedere con l’analisi oggettiva dei fatti e delle cause che hanno condotto a questo conflitto. Ignorare le dinamiche storiche e geopolitiche che hanno dato adito a questa escalation, in nome della solidarietà alla popolazione ucraina, è una politica sterile, che non permetterà di certo di evitare future degenerazioni della guerra. L’analisi degli eventi passati, presenti e futuri risulta così necessaria. <<Il conflitto in Ucraina è un nodo storico che non va visto in distribuzione di colpe, ma come una concatenazione di dinamiche storiche e culturali>> spiega il professor Valle procedendo con un’analisi storica. << Il catalizzatore degli eventi di questo conflitto viene fatto risalire al 2014, quando la Russia riuscì ad annettere la Crimea, ma ha in realtà una triplice radice storica: la prima guerra russo-ucraina del 1918-1920, la disgregazione dell’URSS nel 1991 e la cosiddetta Rivoluzione arancione del 2004>> continua. Il fallimento degli accordi di Minsk può quindi essere considerato come il risultato di un lungo effetto domino. <<L’interesse di Putin nei confronti dell’Ucraina non si fonda solo su interessi economici e strategici, ma anche culturali, ricollegandosi di fatto a quella scuola di pensiero per cui l’identità russa è una e trina, composta contemporaneamente anche da Ucraina e Bielorussia>>. In molti i pensatori che pur non avendo sostenuto l’Unione Sovietica, hanno riconosciuto questa tridimensionalità identitaria, come Bulgakov in La Guardia Bianca o Solzenicyn autore di Arcipelago Gulag. <<Questa concezione non si deve ricollegare a una volontà di Putin di ricostituire l’Unione Sovietica, ma a una lunga tradizione culturale, che intreccia l’origine di Russia e Ucraina nella Rus’ di Kiev.
L’Ucraina aveva già raggiunto nel 1918 la sua indipendenza, in seguito alla rivoluzione nazionale passata alla storia come “Rinascita fucilata”, in quanto solo pochi anni dopo la nazione sarebbe stata assorbita nell’orbita sovietica. Ma è con la successiva disgregazione dell’URSS e l’apparente fine della Guerra Fredda, che vengono a porsi le basi dell’attuale situazione: all’inizio degli anni ’90 l’ormai nuova Federazione Russa si trova ad affrontare una delle sue più pesanti crisi economiche e politiche, e gli Stati Uniti si affermano come prima potenza indiscussa. Durante le trattative gli Stati Uniti promettono a Gorbaciov che la Nato non si espanderà ancora più a est, per cercare di preservare un terreno di neutralità tra Occidente e Russia, ma si tratta di un accordo orale e informale>> spiega Valle. L’espansione a est della Nato era consentita non solo da una condizione di debolezza russa, ma anche dalla linea in politica estera adottata da Eltsin, presidente della Federazione russa dal 1991 al 1999, improntata sull’apertura a Occidente. È in questa mancata adozione di una politica di neutralizzazione efficace dell’ex spazio sovietico, che il professor Sellari individua lo snodo principale delle complicazioni geopolitiche attuali. La volontà occidentale di espandere la propria egemonia militare verso l’est europeo è andata a scontrarsi con la nuova politica estera di Putin, che per la Federazione ha progetti ben diversi. Durante la conferenza di Monaco del 2007, Putin sostenne infatti che il nuovo ordine mondiale uscito fuori dalla guerra fredda non fosse confacente alla pluralità dei soggetti internazionali, e che bisognasse porre fine a questo momento monopolare in atto dal ’89. La sua politica estera è infatti basata al ritorno della Russia come grande potenza mondiale, una volta risollevata dalla grave crisi economica in cui versava a inizio secolo, e su una dimensione multivettoriale rivolta a Oriente, in particolare verso le ex Repubbliche Sovietiche dell’Asia centrale (Kazakistan, Tirgikistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan), la Turchia e la Cina. Durante l’amministrazione Bush, Russia e Stati Uniti riescano a mantenere un rapporto di cooperazione in funzione antiterroristica, ma con l’avvento delle cosiddette Rivoluzioni Colorate che si verificano nei primi anni del nuovo secolo, i rapporti si complicano: Putin le identifica infatti come una fastidiosa ondata rivoluzionaria che teme possa propagarsi fino ai confini interni della Russia, ma soprattutto come una strategia occidentale per minare la solidità del suo governo. È il 2004 quando in Ucraina si verifica la Rivoluzione Arancione, nata dalle contestazioni popolari contro il candidato filorusso vincitore delle elezioni, Viktor Janukovic. In seguito al riconoscimento della presenza di brogli elettorali, furono indette nuove elezioni da cui uscì vincitore il presidente voluto dalla piazza, Viktor Juscenko. Gli effetti di questa rivoluzione ebbero però vita breve, in quanto Janukovic tornò al potere nel 2006. La situazione precipita nel 2013, quando l’Unione Europea offre la sua partnership all’Ucraina, che viene però rifiutata dall’allora presidente Janukovic. Così, nella stessa Piazza Indipendenza che era stata teatro degli eventi della Rivoluzione Arancione, si scatena una protesta dai toni decisamente più aspri e violenti per chiedere l’ingresso dell’Ucraina nell’UE, culminante con la violenta protesta di piazza dell’Euromaidan, che portò alla fuga di Janukovic, alla sua deposizione e alla successiva crisi di Crimea. Il fallimento degli accordi di Minsk e la volontà ucraina di unirsi alla Nato, con l’annesso posizionamento di missili americani lungo il confine russo, hanno rappresentato l’ultimo atto di escalation geopolitica che Putin era disposto a sopportare.
Fine del conflitto: possibili scenari
Con la sua lunga esperienza geopolitica, il professor Paolo Sellari ricostruisce diversi tipi di possibili scenari conclusivi del conflitto in atto. Il primo vede un Putin che non riesce ad avere facilmente la meglio, ma che difficilmente si arrenderà fino a che non avrà ottenuto ciò che desidera, nonostante una possibile deriva di indebolimento sul piano interno e internazionale. Il secondo scenario prevede invece quello per cui l’Occidente sta lavorando più assiduamente: la destituzione di Putin, ma che, come ricorda il professor Valle, potrebbe rivelarsi più difficile del previsto data la fedeltà dei Siloviki al presidente russo. La terza via è invece quella della realizzazione di un accordo per due Ucraine, una occidentale e una orientale, in quest’ultima in particolare si prevede un governo fantoccio filorusso. In questo caso si corre però il rischio di dare a Putin un’eccessiva consapevolezza del suo potere, permettendogli di ottenere quello che voleva in un solo mese di guerra, la sua legittimità interna crescerebbe vertiginosamente e così anche il suo ruolo di guida nell’ex spazio sovietico. Tra gli scenari disegnati, si cerca di escludere un’escalation bellica per la gravità delle conseguenze che essa comporterebbe, ciò che invece risulta essere certo è che questo conflitto ha cambiato definitivamente le relazioni internazionali tra Occidente e Russia, almeno fino a quando Putin rimarrà l’interlocutore di riferimento. Ripartendo dagli accordi di Minsk e dal terzo scenario, un’ulteriore possibile conclusione di questo conflitto potrebbe essere l’ipotesi di un’Ucraina federata, che garantirebbe la neutralità delle province confinanti e una maggiore autonomia, ma bisognerebbe fare attenzione a non ricadere nel grande limite della terza opzione: quella di gettare le basi per la costruzione di una nuova cortina di ferro, che non farebbe altro che radicalizzare la tensione geopolitica in atto.