Il termine humanitas, da cui derivano il sostantivo umananità e l’aggettivo umano ha una duplice gamma di significati: da una parte quelli di mitezza, benevolenza, civiltà, empatia e disponibilità nei confronti degli altri, dall’altra quelli di formazione, cultura, educazione, ossia un insieme di termini che rimandano alla cultura. Vi è quindi nel mondo classico, l’idea che la cultura sia ciò che rende gli uomini tali e che li renda in qualche modo migliori, insieme alla messa in pratica dei comportamenti ispirati ai principi di benevolenza ed empatia verso i propri simili. Tale stretta conessione tra la civiltà ed empatia e la cultura e l’educazione è presente anche nel Preambolo della dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, con l’incitamento a tutti gli individui e agli organi della società a promuovere il rispetto dei diritti contenuti nella dichiarazione attraverso “l’insegnamento e l’educazione”.

La cultura e l’educazione sono pilastri fondanti delle società umane, come testimoniato dalla radice etimologica della parola  humanitas.

Purtroppo oggi si assiste in Italia ad un fenomeno di dispersione scolastisca che tocca il 12% degli studenti italiani. Il tasso di abbandono scolastico, se si guardano le singole regioni invece che la media nazionale, raggiunge picchi più alti nelle regioni meridionali. Tale percentuale è un sintomo di abbandono da parte delle istituzioni verso gli studenti, ai quali non sono assicurati gli stessi diritti e opportunità.

L’Italia destina in media l’8,0% della sua spesa pubblica all’istruzione, posizionandosi tra gli ultimi paesi in Europa. La media Europea della percentuale di investimento nell’istruzione rispetto agli altri settori di spesa pubblica si attesta infatti sul 10%, con alcuni paesi come la  Svizzera e l’Islanda in cui le percentuali si avvicinano al 16%.

Preoccupante, in particolare, è la situazione dell’istruzione universitaria e terziaria in cui la spesa corrisponde solo allo 0,6% della spesa pubbica, mentre paesi come Francia, Regno Unito e Germania investono rispettivamente in media l’1,1%, l’1,5% e l’1,7%. Se già le cifre non sono adeguate, la distribuzione dei finanziamenti è ancora più problematica, dal momento che il sistema attuale favorisce le istituzioni già privilegiate e aumenta le disuguaglianze regionali, con un divario crescente tra le università del Nord e del Sud dell’Italia.

Gli insegnanti italiani guadagnano un importo inferiore rispetto alla media dello stipendio dei professori dei paesi OCSE, in particolare alle scuole superiori.

L’insufficienza di investimenti nel settore scolastico si riflette negativamente anche sulla preparazione degli studenti: l’Italia rimane costantemente al di sotto della media OCSE per competenze chiave come quelle logiche, matematiche e linguistiche. L’alto tasso di analfabetismo funzionale (secondo i dati dell’indagine Piaac – Ocse del 2019 in Italia il 28% della popolazione tra i 16 e i 65 anni è analfabeta funzionale, uno dei dati più alti in Europa) è un campanello d’allarme, indicando che molti italiani hanno difficoltà a comprendere e valutare informazioni di base.

Tutto ciò comporta profonde implicazioni per l’equità, la giustizia sociale e la democrazia nel paese e richiede una revisione seria e urgente. Le riforme più importanti che hanno investito la scuola negli ultimi anni sono la cosiddetta “riforma Gelmini” e la riforma della “buona scuola”, varate rispettivamente tra il 2008 e il 2010 durante il governo Berlusconi IV e nel 2015 dal governo Renzi.

L’insieme cumulativo dei provvedimenti correlati alla riforma Gelmini ha prodotto notevoli tagli ai finanziamenti per l’istruzione pubblica, giustificati dalla necessità di ridurre a zero il deficit pubblico italiano. Gli stati europei, infatti, decisero di affrontare la crisi economica con strategie economiche di stampo liberista basate sul rigore di bilancio, che hanno  lo scopo di ridurre il rapporto tra la spesa pubblica e il PIL. Per evitare un esplosione  del debito pubblico infatti l’UE impose misure di austerità a tutti i paesi, specialmente a quelli con un debito già elevato. Questo comportò tagli  nei settori più importanti della spesa pubblica: istruzione, sanità e previdenza.

In seguito ai decreti varati tra il 2008 e il 2010, è diminuito il numero complessivo di classi nelle scuole elementari e superiori, nonostante in quegli anni il numero di studenti fosse rimasto lo stesso. Negli stessi anni sono state eliminate oltre 90.000 cattedre, diminuendo il numero dei professori e aumentando il problema del precariato. Nel contesto dell’istruzione universitaria, gli stanziamenti per la ricerca sono diminuiti del 7% nel 2010 rispetto all’anno precedente, portando l’Italia a investire meno in ricerca rispetto alla media europea.  La Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) ha stimato che i tagli seguiti alla riforma hanno comportato una riduzione significativa delle risorse destinate ai servizi per gli studenti, generando preoccupazioni riguardo alla qualità dell’istruzione e all’accessibilità sia nelle scuole che nelle università italiane.

L’innovazione più significativa apportata dalla legge 107 del 2015 (La Buona Scuola) è l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro, una modalità didattica innovativa, che, secondo il sito del MIUR “attraverso l’esperienza pratica aiuta a consolidare le conoscenze acquisite a scuola e testare sul campo le attitudini di studentesse e studenti, ad arricchirne la formazione e a orientarne il percorso di studio e, in futuro di lavoro, grazie a progetti in linea con il loro piano di studi”.

L’Alternanza scuola-lavoro, resa obbligatoria per tutte le studentesse e gli studenti degli ultimi tre anni delle scuole superiori ha cambiato definizione successivamente alla legge del 2015, diventando “PCTO”: Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento.

Dal punto di vista pratico però l’introduzione di questo sistema si è scontrato con carenze ed inefficacia dovute ad anni di negligenza verso questo settore fondamentale per il futuro dei cittadini e del paese.

Nell’elaborazione di questa riforma l’Italia ha sicuramente preso come riferimento il sistema duale tedesco, il quale rappresenta per la Germania un punto di forza del suo sistema produttivo, rendendo il mondo del lavoro più accessibile ai giovani. Tra i due modelli ci sono però delle differenze importanti: in Germania si accede al sistema duale rivolgendosi direttamente all’azienda a cui si è interessati, mentre in Italia l’accesso non è affidato al privato, ma al settore scolastico; in Germania si punta a insegnare un singolo mestiere mentre in Italia a far conoscere complessivammente allo studente il mondo del lavoro; mentre in Germania gli studenti vengono retribuiti, in Italia, dal momento che l’attività dello studente è vista come un completamento della sua istruzione, essa non è retribuita.

In Italia esiste un problema relativo alla sicurezza nel lavoro, da cui le atività PCTO non sono immuni. Esise un protocollo di sicurezza, il quale prevede che i ragazzi siano assistiti da tutor dell’azienda ospitante, e in particolare che sia presente un tutor ogni cinque studenti in caso di attività ad alto rischio, come nelle fabbriche. Tale protocollo, insieme alle altre regole che dovrebbero garantire la sicurezza degli studenti, si sono rilevati insufficienti dal momento che non hanno evitato il verificarsi di migliaia di infortuni (solo in Puglia, dal 2017 al 2021, ci sono state quindicimila denunce di infortunio durante l’alternanza scuola-lavoro). Emblematico è il caso di Lorenzo Parelli, uno studente di 18 anni morto in un incidente avvenuto durante un progetto presso un’azienda meccanica di Lauzacco, in provincia di Udine. Durante dei lavori di carpenteria metallica infatti, una putrella d’accaio è caduta addosso al ragazzo uccidendolo: una tragedia che ha scosso il paese e ha provocato manifestazioni in tuttte le scuole d’Italia, in cui gli stuenti hanno rivendicato la necessità della messa in sicurezza delle attività legate all’alternanza (e non).

È importante considerare oltre all’impatto economico e strutturale quale sia stato quello reale sulla didattica e l’insegnamento, attraverso le esperienze dirette di alunni e studenti. Si tratta della percezione di chi la scuola la vive ogni giorno, di chi ha realmente spera in un cambiamento, di una presa d’atto da parte delle autorità.

Francesco è un professore di storia dell’arte al liceo scientifico statale Augusto Righi di Roma, insegna da 21 anni e nella sua carriera ha insegnato in più di 30 scuole differenti. Francesco ha adesso una cattedra fissa, ma come tanti altri professori (si stima che il 25% degli insegnanti italiani  sia costituito da precari) ha dovuto cambiare decine di scuole per esercitae il suo ruolo. La didattica delle scuole italiane si regge sulla precarietà: un insegnante su 4 infatti ha un contratto a scadenza, una situazione mortificante che ha ricadute sia sull’insegnanete che sugli alunni. Il professore precario viene pagato di meno dei suoi colleghi a tempo indeterminato (problema a cui può sopperire chiedendo la disoccupazione alla scadenza del contratto, con i relatvi ritardi di mesi nei pagamenti) e non riceve aiuti economici  utili come la “Carta del docente”, che gli permetterebbe di ricevere 500 euro annuali per l’aggiornamento professionale e per software didattici. La precarietà del contratto impedisce ai professori di creare legami duraturi con gli studenti e un senso di appartenenza alla comunità scolastica. Quest’ultimo problema ha di certo un impatto anche sugli degli studenti, i quali necessitano una continuità educativa nell’apprendimento perché questo possa  essere considerato realmente efficace.

Avendo girato più di 30 istituti, Francesco può parlare della sua esperienza diretta: ha visto nella sua carriera scolastica più di  2000 professori e conosce il clima che si respira nelle scuole, almeno nelle medie e nei licei di Roma. Lui racconta che nonostante le mancanze e l’inefficienza del sistema scolastico, la negligenza delle autorità verso alcuni problemi cardine come quello del precariato o della sicurezza dell’alternanza scuola lavoro e l’insufficienza della spesa  pubblica nel settore dell’istruzione, in realtà è il corpo docente che determina la qualità della didattica. Francesco racconta di numerose situazioni che sono comuni in tutte le scuole: i professori sopperiscono alle mancanze  di risorse per la didattica con le proprie finanze, svolgono lavori per ore che non sono retribuite al fine di rendere migliori le lezioni e le attività didattiche ulteriori. Sempre nell’esperienza di Francesco: un preside che va a prendere una ragazza a casa con la sua macchina per portarla a fare l’esame di terza media, professori che ospitavano i ragazzi a casa per prepararli meglio all’esame, professori che pagano con i propri soldi le fotocopie che servono per la lezione, sono azioni normali per il personale scolastico che vuole rendere la scuola un posto dove gli alunni possano trovare realmente le proprie aspirazioni  e a crescere come persone.

Bisogna chiedersi quale sia realmente l’obiettivo della scuola: formare gli studenti, insegnandogli a leggere e a pensare, a prendere decisioni in autonomia con il fine di renderli cittadini consapevoli o si vuole creare il nuovo corpo produttivo del paese, lavoratori pronti a inserirsi nel circuito economico già prima di uscire da scuola? È su questo punto  che negli anni a venire bisognerà lavorare se si vuole realmente cambiare qualcosa nel settore dell’educazione.

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