Un interessante articolo de The Times di Londra racconta lo stato d’animo dei soldati americani impegnati in Afghanistan: “I soldati americani stanno perdendo il cuore” e’ il titolo dell’articolo report del cappellano che ha speso nove mesi insieme ai militari, raccogliendone dolori, angosce, frustrazioni.

Martin Flecker e’ il suo nome e per 270 giorni e’ stato accanto ai ragazzi di due battaglioni nella zona di Wardack:  “Sono depressi e disillusi” ha raccontato al giornale britannico. Molti di loro infatti hanno paura di perdere la vita, come gli altri colleghi morti in questi otto anni di guerra. Ma il dramma piu’ dramma e’ che per molti di loro questa missione e’ semplicemente futile. Da qui il senso di depressione e smarrimento e un solo desiderio: tornare a casa da mogli e figli. Stanchezza, confusione, impotenza sono i sentimenti piu’ diffusi, una sorta di trappola che non e’ solo piu’ quella materiale dei Taliban sparsi nel territorio, ma una trappola psicologica da cui e’ ancor piu’ difficile uscire anche una volta abbandonato il paese.

Le voci riportate sono di diverso rango, nel pieno del rispetto della gerarchia militare:  “Siamo persi, e’ questo il mio sentimento. Non ho piu’ certezze sul perche’ gli Stati Uniti siano qui, ho bisogno di un chiaro scopo prima di morire o prima di andar via da qui sulle mie gambe”. Difficili da commentare le parole del ventenne Raquime Mercer, che ha ancora negli occhi la morte dell’amico ucciso da un renegade afgano lo scorso venerdi’.

Altra testimonianza e’ quella del Sergente Christopher Hughes, 37 anni, da Detroit: ha perso sei colleghi e lui stesso e’ scampato a due bombe. E’ una missione utile? La risposta lapidaria: “Se solo avessi saputo cosa sarebbe stata questa missione..ma io non lo so”

I soldati americani impegnati in questa zona dell’Afghanistan sono 1500 e il loro compito principale e’ di rendere sicure le montagne attorno a Wardack, aprendo le porte al buon governo e allo sviluppo. Attaccati per ben 300 volte, nella meta’ di questi casi le bombe sono esplose: 19 i soldati uccisi. Eppure, se non fosse per quello che rimane nei loro occhi o per i piu’ sfortunati quello che portano a casa (100 sono tornati a casa con gambe amputate, ustioni sul corpo e altre ferite di cui porteranno segni indelebili) la vita laggiu’ non e’ poi cosi’ male: cibo abbondante, aria condizionata in tenda, acqua calda, internet gratis. Molto piu’ di quanto un normale afghano mai sognerebbe.

Ma anche per Erika Cheney, sergente e specialista medico-mentale di Airborne, il problema sta tutto li’, nella loro mente: i disordini post traumatici sono i segni piu’ evidenti e piu’ difficili da curare, “Sono stanchi, frustrati, spaventati” la conferma di quanto le prime righe di questo articolo riportano.

Captain Masengale, soldato per dodici anni prima di diventare cappellano, dice: “Vogliamo credere in una giusta causa, ma non sappiamo ancora qual’e'”. A questo smarrimento si aggiunge la rabbia di tutti i soldati per la perdita dei colleghi li’ solo per aiutare una popolazione ormai senza riconoscenza: “Dai loro tutta l’assistenza umanitaria che cercano, ma loro continuano a mentire, dicono di non essere Taliban, ma trovi la morte giusto a dieci passi dalle loro case.” racconta Eric Petty, dallo stato della Georgia.

Che cosa rimane dunque di questa missione? I cappellani non possono e non vogliono mostrare i loro dubbi, gli stessi che accomunano migliaia di soldati americani impegnati sul fronte afgano. Per questo non rimane che incoraggiarli, perche’ nessuno di loro viene qui a urlare “Ho avuto un grande giorno di missione”. Niente di tutto questo, solo grande dolore negli occhi e  nelle parole.

Motivi per cui per questi giovani e meno giovani ISAF non significa piu’ International Security Assistance Force ma “I Suck At Fighting” o anche “I Support Afghan Farmers”.

E come dargli torto?

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