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Doppio rimmel (prima parte) Direttore responsabile: Claudio Palazzi

Doppio rimmel (seconda parte)

Passarono dei giorni, forse più di una settimana, non tenni il conto.
Nonostante lo spettro della noia e della ripetitività delle azioni quotidiane, così lontane da quelle emozioni capaci di esulare dalle gioie ordinarie, le giornate scappavano via: come una banda di ladri, rapivano i ricordi, le memorie di qualsiasi evento passato senza fare distinzioni, lasciando caotiche briciole di immagini; non sarei riuscita trovare un percorso sereno verso la stabilità nemmeno se avessi seguito l’esempio ordinato e virtuoso di Pollicino.

Nel vano appannaggio di dipanare la mia confusione mentale, trasformai la mia routine in un tedioso piano sequenza: dovevo sfogarmi nella successione ininterrotta di una banale quotidianità, così ripetevo metodicamente tutto quello che avevo già compiuto il giorno precedente, mettendo in piedi una vera e propria catena di montaggio dal meccanismo impeccabile.

Un occhio invadente e curioso mi scrutava ad ogni inquadratura, senza mai deviare in una pausa; ero io stessa a volermi controllare, quasi uscendo dalla mia persona, per la paura che potessi abbandonare il rettilineo, perché desiderosa di volermi occupare di qualcos’altro, al di là dei soliti impegni o passatempi.

Quell’espediente di autodifesa, all’apparenza, sembrava funzionare, evitando anche le esagerate costrizioni imposte dalla mia psiche supervigile: appena sveglia mi concentravo sui piaceri della colazione, sull’odore balsamico del caffè al cardamomo, mentre i giovani raggi del sole proiettavano l’ombra della tazza colma di latte alla nocciola sul tavolo; i miei occhi ancora assonnati si incrociavano con quella luce, traendone spensierato giovamento.

Sceglievo con precisione meticolosa gli orecchini da abbinare al colore della bandana che indossavo al collo e, dopo aver dato un’ultima spazzolata ai capelli e chiuso l’uscio di casa con ben quattro mandate, mi fissai sui miei piedi che scendevano celermente le rampe di scale del condominio.

Superato il portone esterno, alzavo lo sguardo e davo un altro buongiorno al sole con le palpebre socchiuse, poi chinavo di nuovo la testa all’altezza del mio campo visivo e mi soffermavo sui dettagli circostanti più impensabili: la pavimentazione del marciapiede costituita da esagoni grigi, l’odore di cipolla proveniente dai venditori di street food che già pensavano all’ora di pranzo, la camionetta rumorosa del netturbino che, quella mattina, raccoglieva carta e cartoni.

Il ticchettio del semaforo avvertiva i non vedenti che era il momento giusto per transitare sulle strisce pedonali; guardando le targhe delle automobili, mi chiedevo da dove provenissero quei veicoli che non avevano la sigla della città di Bamberga.

Le lezioni mi davano una grossa mano a tenermi impegnata: non passava un secondo senza che io prendessi appunti sulle quasi sempre interessanti argomentazioni dei professori.

La penna scriveva all’impazzata, pareva che non vi fosse intermediario umano tra le righe bianche del quaderno e le parole sapienti che riecheggiavano nell’aula; in quel contesto, a stento mi accorgevo degli altri colleghi seduti in quella stessa stanza.

In biblioteca i tempi erano decisamente più rilassati, mentre annotavo i concetti principali ai margini dei testi di studio; mi capitava alquanto spesso di divincolarmi da quelle pagine cariche di parole, eppure non inciampavo in una pericolosa distrazione: le iridi si inclinavano un poco in un’altra direzione e venivano subito rapite dagli scaffali carichi di libri di ogni dimensione e provenienza editoriale.

C’erano volumi pesantissimi di case editrici fallite da un pezzo, con austere copertine monocolore, libri tascabili più moderni, leggeri, colorati, dai dorsi facilmente riconoscibili; mi perdevo nel mare sicuro di quelle vetrate scorrevoli, piantonate da una scala a rotelle e da targhette con codici e numeri di inventario, a protezione e tutela di quel patrimonio umanistico.

Ritornavo sui paragrafi dedicati ai versi visionari di Dino Campana, e quell’argomento sembrava essere capitato sotto i miei occhi tutt’altro che per caso; in quei giorni stavo assistendo ad una vera e propria trasposizione del mio stesso modo di essere e di interagire con il mondo e fingere una falsa concentrazione non mi avrebbe aiutata a stare meglio: mi muovevo in un presente che mi stava offrendo un’inaspettata opportunità di reinventarmi, partendo dalla mia interiorità spaesata, ma non ero ancora pronta a fare ammissione di consapevolezza…

Per evitare di ricadere senza preavviso in una complicata analisi psicologica, che tramutava l’interessante recensione su quel poeta in un accumulo sfocato di lettere, ripresi a guardarmi intorno, cercando una fonte di diletto che liberasse subito la mia mente.

Per fortuna, la risposta fu immediata e mi focalizzai sulle lancette che, con ticchettio impassibile, indicavano i numeri romani inscritti in un grande orologio a parete, collocato tra le due imposte maggiori; lo spirito di evasione, unito alla curiosità, scivolò oltre i vetri, rischiando, ancora una volta, di scambiare generici balconi e fioriere in nuovi appigli, creatori di spirali perturbanti.

Incapace di lasciarmi alle spalle l’abusata quotidianità, riposi tutto il materiale universitario in uno dei tanti armadietti dello stanzone accanto alla biblioteca e, con la borsa leggerissima, decisi di andare a camminare o a correre: se permettevo al mio corpo di muovermi, era come se i turbamenti sparissero grazie a una naturale forza centrifuga, magari sceglievano di stare lontani da me anche per lungo tempo; non era una soluzione definitiva, ma, nel breve termine, funzionava.

Passai il resto della giornata in movimento: attraversai correndo un bel tratto di sentiero boschivo lungo il fiume, in piena città, fino a raggiungere il grande cavalcavia della superstrada; tornando verso il centro, visitai ogni negozio con ritmo militaresco, cercando di sollecitare l’attenzione con qualsiasi oggetto in vendita.

In verità, almeno in questo caso, l’impresa si rivelò piacevole, poiché ho sempre avuto un debole per lo shopping, e curiosare tra scaffali e vetrine mi venne alquanto spontaneo.

Mi concessi qualche piccolo sfizio: una morbida e calda felpa rosa, ancora perfetta per l’aprile bamberghese, un imponente paio di orecchini con pietre colorate, una pecora di peluche con un vestitino turchese da farle indossare; se non altro, quegli acquisti mi tenevano a debita distanza dalle ansie di un incipiente cambio di rotta.

Nonostante l’aiuto dell’ora legale, il buio scese presto, insieme ad una fastidiosa umidità; temporeggiai nel magazzino Müller fino all’approssimarsi dell’ora di chiusura, poi tornai a casa, un po’ stanca ma rilassata: girovagando nel cuore di Bamberga, i miei piedi avevano percorso più di qualche chilometro.

Le ultime compere da Müller erano state più che proficue: mix di frutta secca, gallette di mais, biscottini salati, creme varie di ceci, avocado, curcuma; siccome non volevo replicare il pericolo di incendio di qualche giorno prima, quella sera avrei puntato esclusivamente sull’impiattamento scenografico di cibi già pronti ed avrei cercato lo svago in un’altra occupazione.

La successione rigida e consequenziale di azioni reiterate sembrava procedere senza intoppi.

Presi un enorme piatto da portata che avevo acquistato, qualche settimana prima, in una bottega di ceramiche artigianali nei pressi del Vecchio Municipio e cominciai a posizionarvi le olive, le cruditès, i cubetti di formaggio a base di lenticchie, aggiungendo anche delle ciotoline colme di tutti quegli hummus speziati; stavo creando una sorta di disegno fantasioso, da sovrapporre alla decorazione floreale del piatto stesso.

Ultimata la composizione, richiusi e sistemai il cibo avanzato in frigorifero e, dall’angolo cottura, mi inoltrai verso la parte opposta dell’open space, prendendo posto sul divano grigio mezzo sfondato.

Con la cena sulle gambe, cominciai a torturare il telecomando della televisione, passando da un canale all’altro: una fiction sottotitolata, un documentario naturalistico in tedesco, stupide televendite di gioielli improbabili, di dubbio gusto; non c’era nulla che attirasse la mia attenzione, eccetto il sottofondo della mia regolare masticazione.

Perlomeno, non mi ero ancora licenziata dal mondo, udivo i rumori reali e percepivo i sapori deliziosi di ciò che stavo mangiando; notai persino il farfugliare incomprensibile proveniente da quel desueto tubo catodico.

Il piatto si svuotò e lo riportai in cucina; spensi la tv, avendo constatato che il suo potere di coinvolgimento era inesistente.

Lavai le stoviglie e, intanto che pulivo il tavolo e il lavandino, mi ricordai di sistemare i libri che avevo portato all’università; forse avrei dato un’occhiata fugace ai pochi riassuntini a matita che ero riuscita a fare quella mattina, ma pervenni anche alla conseguenza successiva: non ero più andata in facoltà a ritirare i miei libri e i miei quaderni.

Non mi agitai, d’altronde nessuno avrebbe rubato il mio materiale da un armadietto chiuso a chiave: inoltre, rileggere le mie impressioni sulla poetica di Campana era solo un espediente per arrivare al momento della buonanotte con un sonno invincibile; di certo, quei versi così potentemente metafisici avrebbero sortito l’effetto opposto.

Mi fiondai in camera e, con un balzo estemporaneo, mi gettai sul letto, stropicciando le lenzuola e facendo cadere il povero pupazzo di Olaf su un fianco, accompagnato dal cigolio delle molle: rimasi distesa, con gli occhi stralunati, e questo mio comportamento dimostrava che l’ingranaggio dell’autocontrollo dava i primi chiari segnali di cedimento; era in questi momenti di inattività apparente che i miei pensieri confusi riemergevano, come un fluido magmatico impossibile da arrestare.

Fui caparbia e non cedetti: confortata dalla lampada accesa che smorzava l’oscurità della tarda serata, presi il libro sul comodino e lo aprii nel punto in cui lo avevo interrotto.

La campana di vetro di Sylvia Plath era l’ultimo libro, che non avevo ancora letto, rimasto nella libreria di casa a Roma, così, prima di partire per la Germania, l’avevo messo in valigia; sentivo il bisogno della lettura, quasi al pari dell’aria e del cibo: mi piaceva immedesimarmi in racconti, personaggi e descrizioni che, ognuno a suo modo, mi insegnavano e mostravano qualcosa che non conoscevo.

D’altro canto, le emozioni suscitate da un libro non sono sempre positive e allegre: capitolo dopo capitolo, Esther viene drammaticamente stritolata dalla freddezza alienante della grande metropoli, che punisce chi prova a rigettare la sua spietata tendenza alla spersonalizzazione.

La protagonista, sull’orlo del baratro psicologico, è accovacciata in una stanza buia, le tapparelle completamente abbassate: qualcuno chiama da fuori, forse è la sua famiglia, o forse è la voce sibillina dello strizzacervelli che la invita ad una “rigenerante” seduta di elettroshock; nel frattempo, nell’aria aleggia l’odore di disinfettante e morfina…

Non era opportuno procedere oltre, quel romanzo avrebbe finito per strangolarmi: non ero abbastanza forte psicologicamente per sostenere una simile narrazione, con una ragazza del tutto allucinata e disperata.

Ma a che scopo sentirsi così turbata?

Me l’ero ripromessa giorni addietro: quel fortuito incontro al supermercato mi aveva regalato sensazioni fantastiche, che non tutti hanno la fortuna di provare; se mi soffermavo a pensarci, mi veniva da sorridere senza forzature.

Tuttavia, le incertezze frenavano gli entusiasmi quasi sul nascere, il raziocinio perseguitava l’inconscio e non voleva ammettere le crescenti argomentazioni a favore di quanto si stesse spontaneamente palesando.

La ragione era un’altra, molto più complicata da risolvere, soprattutto quando ci si preoccupa troppo del giudizio altrui; le inibizioni poste dalla paura della diversità sono il più greve ostacolo da affrontare: non condividere le stesse opinioni o la medesima prospettiva amorosa della maggior parte delle persone crea non pochi problemi di comunicazione.

Non raccontai a nessuno dell’episodio legato a quella fanciulla, in fondo era stato un fatto isolato, una sparuta manciata di secondi; escludendo gli occhi, non ricordavo nemmeno bene i lineamenti del suo viso… eppure, ero certa che, se avessi rivisto quel volto, l’avrei riconosciuto tra milioni.

Gradualmente, stavo capendo quanto, fino a quel momento, avessi avuto poco a che fare persino con me stessa: da mesi mi portavo dentro un enigma che rincorreva una soluzione impossibile, perché quest’ultima poteva essere trovata soltanto guardando fuori e dando una diversa interpretazione ai modelli sociali solitamente proposti; non c’era da stupirsi se adesso mi ritrovavo a fronteggiare un’esplosione improvvisa di impressioni e sentimenti inespressi.

Anche se le nubi cominciavano a soccombere alla luce delle timide ma nitide convinzioni, ancora numerosi erano i vicoli ciechi che, all’esterno, interrompevano il percorso; di fatto, non potevo parlare con nessuno, e non si trattava di una questione di fiducia: confidarsi richiede coraggio e, da parte dell’interlocutore, molta dedizione e una buona resistenza alle sorprese inaspettate.

Mi misi a sedere sul letto e, per ingannare la staticità della serata, vestii la pecorella di peluche che avevo acquistato qualche ora prima: le chiusi l’abito sul retro, facendo aderire il velcro alla perfezione, aggiustai il nastro turchese all’altezza della vita e la appoggiai al corpo grassoccio del mio adorato Olaf.

Se questi due pupazzi erano gli unici confidenti a disposizione, di sicuro non avrei assistito alle smorfie incredule, magari anche disgustate, delle persone; avrei continuato a parlare con la strana coppia di amici, con la voce che risuonava nel piccolo teatrino della mia camera, con il corpo che principiava ad agitarsi per colpa di quell’ormai desueto soliloquio, nel quale ribadivo i soliti concetti: da più di una settimana il copione era sempre il medesimo.

Talvolta, mi illudevo che qualcuno replicasse alle mie argomentazioni, mentre i miei occhi roteavano a trecentosessanta gradi, tanto ero infervorata; per fortuna, ritornavo in me abbastanza presto: scambiavo l’impassibilità di Olaf per un cenno di consenso, rilassavo i muscoli e troncavo la frase, anche se incompiuta.

Un paio di minuti di totale inattività furono sufficienti: con espressione non più eccitata ma ancora troppo vigile, ritornai in salotto e presi lo smartphone appoggiato sul tavolino davanti al divano, perché ero convinta che sfogarmi sui social media mi sarebbe stato d’aiuto.

In effetti, quella scrittura sotto copertura svolgeva il suo ruolo benefico, seppur piccolo: il mio profilo senza identità pubblicava poetiche didascalie amorose, che talvolta venivano anche ben accolte… ma per chi e a che proposito mi impegnavo a tal punto in affermazioni per le quali non volevo metterci la faccia?

Lasciai perdere, prima di sprofondare in un altro inutile vortice, alla ricerca di valide motivazioni al mio comportamento.

Distolsi gli occhi dallo schermo, per spostarli di qualche centimetro, sul puzzle da 1500 pezzi raffigurante il paesaggio irlandese, almeno stando a quanto dichiarato sulla scatola: in quei giorni forse ero riuscita a mettere insieme una decina di pezzi, quelli che mostravano un ciuffo d’erba più vivace rispetto al resto della fangosa torbiera; la strada che si inerpicava tra le sinuosità delle colline gaeliche era lontana dall’essere ricomposta…

Tastavo quei pezzettini di cartone che avevo già fatto combaciare, come se volessi decifrare un sottinteso messaggio, insito nelle loro criptiche sagomature, lasciandomi coinvolgere in un passatempo noioso ma sicuramente soporifero e senza pretese intellettuali né sentimentali.

Il telefono squillò e fallì anche l’ennesimo tentativo di immersione nella tranquillità; a casa mi cercavano, come ogni sera:

«Giselle, tesoro, come stai?»

«Come sempre, mamma, tutto ok. A casa come va?»;

«Bene! Pare che la bella stagione sia ormai arrivata. Sei stata a lezione oggi?»;

«Certo. Poi mi sono fermata a studiare in biblioteca, avevo degli appunti da rivedere; ma sono anche andata in centro a fare shopping»;

«Non consumare tutti i soldi che ti servono per l’intero mese! Ne hai abbastanza per fare la spesa? Stai mangiando in modo sano? Ricordati della frutta quando rientri nel pomeriggio!»;

«Sì mamma, tranquilla, i soldi mi bastano, non ho sempre voglia di fare compere… ho così tante cose che mi passano ultimamente per la testa!».

Sperai nel desiderio di approfondire quella frase e, successivamente, chiedere qualche spiegazione in più; ma prevalse l’ovvietà del conforto di circostanza, tremendamente impersonale:

«Gis, non ti preoccupare, se hai problemi con l’affitto o con le incombenze casalinghe, dimmelo: fra qualche settimana ti vengo a trovare e, almeno per qualche giorno, ti aiuto a fare le lavatrici… c’è qualcosa che non va all’Ateneo?»;

«Veramente, ma’, i professori sono tutti molto gentili e disponibili, e…».

Gettai un altro mattoncino sconnesso, affinché si interrompesse il consunto lastricato, poco incline a disvelare nuovi quesiti; ma nessuno si accorse della deviazione da me proposta:

«Perfetto allora, pensa soltanto a non stancarti troppo. Vai a dormire, che sono già le undici passate, altrimenti domani non sarai ricettiva in aula»;

«Mamma, lo sai che il mercoledì non ho lezione, ma…»;

«Giusto, me ne ero dimenticata, brava, brava, allora riposati e dedicati al ripasso o a una passeggiata o a riordinare la casa…».

La mia voce si fece meno entusiasta, pronta per tagliare corto:

«Ok mamma, ho capito. Ci sentiamo presto. Comunque, il primo assaggio di primavera, in Franconia, non è così mite»;

«Ricordati di indossare sempre i guanti di pile quando esci; per fortuna, il virus non è più un problema»;

«Già, non più. A presto, ma’»;

«Buonanotte, cara».

La telefonata terminò, con nessuna variazione tra prima e dopo: la chiacchierata non aveva aggiunto alcuna emozione al momento presente; tuttavia, le parole di mia madre sulla lavatrice erano state provvidenziali, poiché avevo veramente urgenza di fare il bucato.

Andai in bagno, racimolai tutti i panni chiari sparsi nella vasca e feci partire il lavaggio; in meno di venti minuti ero già a letto con l’abatjour accesa, pronta per prendere sonno.

Ma gli occhi continuavano a restare aperti: mi rigiravo in continuazione, nella vana speranza di trovare una posizione comoda.

Alla fine, mi tirai su e, per non cadere nel tranello di una nevrosi da eccesso di elucubrazioni complesse, mi affidai al primo impulso motorio disponibile ed aprii il cassetto del comodino: ritrovai quel racconto che avevo scritto durante la pandemia e che avevo lasciato fuori dalla “cartellina passatempo”; non ci avevo più pensato e, ora, quei fogli riemergevano, come in quella notte prima dell’avvenimento al Denn’s Markt

A fatica, sospesi ogni congettura, ipotesi, premonizione, possibile coincidenza e, dopo aver scaraventato velocemente quello scritto a terra, come se fosse un tardivo veicolo di infezione, mi infilai nuovamente sotto le coperte.

Mi concentrai sul rumore della lavatrice: l’acqua sciabordava, danzava in tondo obbedendo ai giri ritmati del cestello; quest’ultimo sovente si arrestava, prendeva fiato e sapone e proseguiva nelle sue capriole piene d’acqua schiumosa.

I miei occhi sempre più rilassati si posarono sulle lenzuola celesti increspate, due fessure cullate dalle morbide pieghe del cotone…

Una luce mi costrinse ad aprire le palpebre: il riverbero del sole era così forte che non riuscivo a tenere lo sguardo fisso su quella tremula luminescenza per non più di un secondo.

Ma la luce accecante, per quanto invasiva, passò in secondo piano; davanti a me c’era una massa d’acqua: le sue onde erano miti, delle leggere increspature che giocavano con gli effetti collaterali dei corpi estranei, viventi e non, che solcavano la superficie acquosa.

Ero stufa di farmi domande sul perché di tutto ciò, ma almeno volevo capire dove fossi: forse mi trovavo sulle sponde di un fiume o in un punto di congiunzione tra due mari differenti; esclusi il lago, poiché le piccole onde a pelo d’acqua erano il sintomo di un movimento in una precisa direzione, non di una stasi circolare.

Mi voltai a destra e a sinistra, ma lo spazio era talmente invaso dalla potenza del sole, che i contorni delle cose erano distorti, coperti da una patina biancastra che li trasfigurava, aumentandone anche la distanza fisica.

In lontananza mi parve di scorgere la Collina di Buda, il Danubio alle sue pendici… ma non c’era l’immenso Parlamento sulla sponda opposta, quindi non poteva essere il Danubio.

Un peschereccio, nei pressi del molo, batteva bandiera rossa con stella e mezzaluna: scrutai l’orizzonte per accertarmi che il Bosforo era a pochi metri dalla mia persona, mi misi alla ricerca dei minareti, intenti a stuzzicare il cielo, delle antiche mura ottomane, lasciate nel verde risparmiato alla cementificazione…

Individuai Castel Sant’Angelo e la pista che stavo seguendo venne smentita; tuttavia, anche quel pezzo di romanità era troppo sfocato per essere dato per certo, il Tevere figurava molto più esile e con argini decisamente più bassi, nessuna traccia di Ponte Milvio.

Stavo mescolando le città senza una logica, al punto da ipotizzare che quel mio viaggio mentale era partito da una banale reminescenza notturna del Regnitz di Bamberga; la certezza geografica era illusoria, al pari della vaghezza di quel sogno: provai a scrollarmi di dosso le nebbie, ma la coscienza, profondamente addormentata, non colse il segnale.

Ad un certo punto, mentre la luce mi offendeva ancora la vista, il fiume bamberghese si tramutò in un altro corso d’acqua, ma non ebbi il tempo di riconoscerlo.

Mi accorsi che non ero da sola: stringevo la mano di qualcuno, una mano dalle unghie delicatamente rosate, dalla pelle morbida, dello stesso colore del latte appena scurito da una punta di caffè; la mia mano e l’altra erano chiuse in una stretta accogliente, che scaldava fin dentro l’anima.

Quell’abbraccio tra dita candide, femminili, emanava un calore vibrante, ed emulava lo scorrere deciso di quelle acque dall’identità instabile; un flusso dal tepore ipnotico si aggiunse all’atmosfera rarefatta, già maliarda, sprigionandovi i suoni ovattati e soffusi tipici degli universi onirici: i differenti approcci sensoriali si mescolarono armonicamente.

Il sonno non censurò l’evidenza di alcuni dettagli: le mani suggellate, il paesaggio fuggevole, l’aria pallida che concedeva con parsimonia i suoi fumosi tesori…

Una ciocca di capelli, nell’opporsi alla brezza fluviale con un impercettibile stridio filiforme, mi solleticò la guancia, spandendo essenze speziate intrise di gelsomino: una ragazza dalla lunga e fluente capigliatura scura mi stava accanto ed entrambe ci voltammo lentamente l’una verso l’altra, per avere la dolce conferma di quanto volevano comunicarci i nostri palmi congiunti.

Chissà perché nel mondo dei sogni si svolge tutto così al rallentatore

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