Interiorità smarrite e cosmopolitismo in “Le quattro donne di Istanbul

La mia recente e inconsueta passione per la Turchia nasce casualmente dall’attrazione per avvenenti attori dello star system turco, visibili e godibili in spensierate fiction relegate ai pomeriggi estivi: decisa a non fermarmi all’appariscente mondo dello spettacolo, la mia curiosità su questa nazione è esplosa e ho cominciato ad approfondirne anche altri aspetti.

Scavando nella sua storia, studiando (con una costanza tutt’altro che ineccepibile) la sua affascinante e complessa lingua, leggendo saggi e svariati fiumi di parole provenienti dalle fonti cartacee e digitali più disparate, ho scoperto un universo immenso, ricco di intrecci etnici e peculiarità sulla sua poliedrica e instabile modernità: si avverte una brezza orientale, un’impronta riconoscibile e tangibile anche in Italia, dai sublimi mosaici bizantini nel ravennate, fino ai celebri Cavalli di San Marco.

Lasciandosi guidare dal rigoglio sensoriale di una terra fertile, simile a quello dei campi affacciati sul Mediterraneo, seguendo i profumi speziati provenienti dai manicaretti degli ambulanti, collocati in parchi tranquilli e strade affollate, si incontra una civiltà non così lontana geograficamente; cibi ricchi di verdure, artigianato policromatico, tradizioni millenarie custodite in una intricata filigrana di storia e religione, territori “fatati” dispersi nell’entroterra arido: questi, e molti altri fattori, si condensano nella metropoli di Istanbul, dove convivono due continenti e un febbrile desiderio di rinnovamento, nonostante le profonde tracce lasciate dal passato.

Interiorità smarrite e cosmopolitismo in "Le quattro donne di Istanbul"Istanbul si sta imponendo come palcoscenico sempre più apprezzato di vicende d’amore e romanzi storici, di romantici flirt da piccolo schermo e di sogni turistici a buon mercato: una città duttile, capace di allestire ambientazioni dall’atmosfera frizzante, con il Bosforo che riflette il cielo azzurro nelle giornate più schiette, per poi passare alla pudicizia di un bosco a pochi chilometri dal caos, fino alle viuzze inosservate intrise di ricordi di famiglia.

Promemoria perenne: sullo sfondo, a dispetto di qualunque lockdown o cataclisma epocale, una fiera bandiera vermiglia, con falce di luna e stella nel mezzo, è sempre chiaramente visibile, stia essa sventolando su un motoscafo in movimento, o soltanto appesa in verticale all’ingresso di un anonimo minimarket; si tratta di una veemente dichiarazione di patriottismo, senza compromessi.

L’autrice Ayşe Kulin, scrivendo Le quattro donne di Istanbul, ha deciso di riversare in una delle megalopoli più famose del mondo una saga familiare, collocandola all’interno di un complicato percorso storico, indissolubilmente legato agli sviluppi politici della Germania dei primi anni Trenta: la narrazione, sfruttando come trait d’union una verisimile famiglia ebrea tedesca, emigrata in Turchia per sfuggire all’incipiente ostilità antisemita di Hitler, si dispiega ben oltre la Seconda Guerra Mondiale, arrivando addirittura fino al colpo di Stato turco del 15 luglio 2016.

Gerhard Schliemann è un rinomato professore di patologia dell’università di Francoforte, un uomo rispettabile, devoto alla famiglia e al lavoro; la sua quotidianità viene improvvisamente stravolta dall’ascesa al potere, in Germania, del partito nazista: le voci, più che realistiche, di un’imminente destituzione dall’incarico universitario di tutti i professori di fede ebraica, il rischio di una persecuzione, ingiusta ma autorizzata, che metterà in pericolo la sua stessa esistenza e quella dei suoi cari, spingono l’insegnante a lasciare il paese natio.

Su consiglio del collega Hirsch e di Malche, amico del suocero, Gerhard si trasferisce prima a Zurigo, dove, poche ore dopo, viene raggiunto dalla moglie Elsa e dai figli Susy e Peter, ancora bambini, poi, tutti insieme, traslocano definitivamente a Istanbul; la società turca suscita interesse ma anche diffidenza, la Turchia è un paese in continua e repentina espansione, ma è molto arretrato rispetto all’Europa: quando il protagonista, insieme ad alcuni suoi compatrioti, vanno a visitare la nascente università della capitale, si rendono conto che Ankara è una città in costruzione, un caotico e freddo cantiere, un’architettura sociale e culturale tutta da forgiare.

In riferimento alla costituzione del nuovo assetto universitario, la scrittrice elogia e ringrazia, implicitamente durante il romanzo e con esplicita dedica a fine libro, tutti quegli scienziati che hanno contribuito alla modernizzazione del sistema scolastico turco, permettendo la diffusione di un’istruzione sempre più democratica e di qualità; parimenti, il suo elaborato mette in risalto una collaborazione culturale pressoché sconosciuta.

Al di là dei cenni alla situazione economico-sociale della Turchia durante gli anni Trenta, segnata dall’onnipresenza quasi divina di Mustafa Kemal Atatürk, il condottiero geniale che ha saputo dare una spinta laica e progressista al paese (nonostante i non sporadici tradimenti, alquanto attuali, alla sua visione governativa), la Kulin sposta lentamente l’attenzione sulla difficile integrazione della famiglia Schliemann nella loro nuova patria; dalle tribolazioni lavorative di Gerhard, la storia viene incentrata, sempre in terza persona, su Susy, senza ombra di dubbio la più “turchizzata” della famiglia.

Arrivata, piccolissima, ad Istanbul e costretta a cambiare nome in Suzi Şiliman per fugare ogni sospetto sulla sua famiglia ebraica, la bambina si confronta fin da subito con i problemi connessi ai labili confini tra identità razziale, politica e religiosa; nonostante la giovane età e la confusione identitaria derivante dalla guerra, Suzi ha già ben chiare le coordinate della sua individualità e sceglie di diventare una cittadina turca a tutti gli effetti, avvicinandosi alla religione musulmana e stringendo solide e durature amicizie con la gente del posto: la lingua locale le risulta persino più agevole di quella materna e la bimba cresce in un ambiente ricco di minoranze religiose e nazionalità differenti, che la aprono ad un sano cosmopolitismo.

Con la nascita di Sude, la figlia di Suzi, l’asse temporale del racconto subisce una brusca accelerazione: dopo gli anni Settanta, i decenni seguenti vengono fagocitati da un’ellissi, che stravolge anche la struttura prospettica di questa moderna saga familiare, lontana dalla metodica e perfetta suddivisione generazionale dei Buddenbrook; a Sude, infatti, vengono dedicati solamente alcuni fugaci fotogrammi, dai suoi primi anni di vita fino all’adolescenza, nei quali si riflette il disinteresse per le questioni politiche da parte della fanciulla, in contrapposizione agli indefessi ideali della madre.

Il rispetto delle idee altrui, la tolleranza verso il diverso, in particolare la riflessione sulla distinzione insoluta tra religione e nazionalità percorrono tutto il romanzo, ma si palesano con più sollecitudine in alcuni punti rispetto che in altri.

Ed è proprio nella terza e ultima parte del libro che la diegesi esplode in tutta la sua profondità immersiva: parlando in prima persona, Esra, la nipote di Suzi, rimette in gioco tutti quei dubbi sul proprio legame a una nazione o a una religione, che sembravano essere stati messi in pausa per più di qualche capitolo; la tematica riemerge con vigore, si fa cocente e improrogabile, tramutandosi in una vera e propria urgenza ontologica.

Non a caso, il capitolo che segna l’esordio di questa sezione conclusiva si intitola Pesce d’aprile: ogni esistenza, con la sua bellezza ma anche con le sue brutture, i suoi nonsense, i suoi inconcepibili particolari fisici o intellettuali che la contraddistinguono, si rivela uno “scherzo del destino”, è delineata e creata per mezzo di fatti e coincidenze che la segneranno per sempre.

Facendo eco alla sua bisnonna Elsa, che non è mai riuscita ad adattarsi completamente alla routine di Istanbul, impostale dalle contingenze storiche, Esra radicalizza le difficoltà a sentirsi parte di qualcosa, a rispecchiare con orgoglio una patria ben precisa: il suo albero genealogico è una mescolanza di nazionalità esperienziali, di credi religiosi anche molto differenti tra loro, frutto di imposizioni dettate da una confusa società bellica, ma che, alla fine, si sono evolute in scelte personali e consapevoli, volute esclusivamente dai singoli.

Meditando sull’amalgama culturale che permea la sua famiglia, la stessa Suzi, dialogando con la nipote, utilizza la metafora “un uccello con l’ala spezzata”, sottolineando uno spaesamento mai del tutto sopito: nonostante la ricchezza nel rapportarsi con più usanze e tradizioni, un individuo sradicato dalla propria terra natia avverte un senso di straniamento, l’imbarazzo di non poter abbracciare completamente la nazione che l’ha accolto; in qualsiasi ambiente o momento, può emergere un cortocircuito nostalgico che adombra le certezze e riporta alla luce le evidenze di una patria lontana, praticamente mai vissuta, i cui ricordi sono irrimediabilmente perduti.

L’esperienza plasmata altrove non basta a cancellare le proprie origini: ovunque si vada a mettere radici, si raccolgono perplessità e ripensamenti, ci si imbatte in infiniti nuovi cambiamenti, che non tutti sono in grado di sopportare; probabilmente, la fissa dimora è la maggior conquista dell’uomo preistorico, non più nomade per necessità di sussistenza.

Esra osserva dal finestrino del taxi il suo quartiere che si allontana: i genitori dispersi per il mondo, il fidanzato ancora più irreperibile, la ragazza è pronta a ricominciare da capo, da un’altra parte, nella speranza di trovare un posto dove possa sentirsi veramente a casa, superando tutte le precarietà linguistiche e umane di un contesto straniero.

Istanbul racchiude alla perfezione le ansie di questa disperata ricerca di appartenenza sociale: nei secoli si sono succeduti governi divergenti per religione e strategie di potere, il suo suolo è stato colonizzato dalle popolazioni più disparate, tuttora continuano a coabitarci minoranze etniche non del tutto tolleranti né tollerate.

Questa città non è nient’altro che la rappresentazione di uno spettacolo dalle dimensioni globali: la scrittrice, partendo dalla ricchezza culturale che permea la metropoli, descrive le gioie e le delusioni di quattro donne alle prese con l’imprevedibilità della vita, soprattutto quando si deve capire quale sia il luogo migliore in cui sostare il più a lungo possibile.

Anche se si riesce a trovare la dimora dei propri sogni, essa non funge mai da risposta risolutiva: l’essere umano combatte continuamente contro le insicurezze dello stare al mondo, planando, come un insaziabile uccello migratore, verso l’ignoto e inarrestabile progredire dell’esistenza.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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