“Gli uccelli” di Vesaas: simbologia nordica e integrazione (forse) impossibile

La foresta dai mille volti, la simbologia che circonda l’esistenza, la paura di entrare bruscamente nell’età adulta, il dramma dell’incomunicabilità e dell’emarginazione sociale: dopo aver finito di leggere Gli uccelli di Tarjei Vesaas, edito da Iperborea, la psiche del lettore è pervasa da decine di quesiti, è invasa dai dubbi, che si mescolano a caotici ed estemporanei slanci di libertà spensierata e indistruttibile autostima.

Il romanzo di questo criptico quanto modernissimo autore norvegese indaga la sofferta indipendenza dell’uomo contemporaneo, avvalendosi di una scrittura incredibilmente semplice, la quale, lontana da qualsiasi banale intento didascalico e da una facile comprensione del contesto descritto, conduce all’interno di una trama all’apparenza lineare e priva di avvenimenti salienti.

In realtà, i passi del lettore all’interno della storia, dapprima disinvolti e sicuri, diventano inesorabilmente incerti e cauti, inciampano in continue riflessioni, si sentono sempre più spaesati di fronte alle affermazioni e ai comportamenti bipolari e incostanti del protagonista.

Mattis è così distante dagli yes men che popolano la nostra società, da quegli uomini che sanno affrontare qualsiasi evenienza senza tentennamenti, trovare soluzioni con un semplice tocco dello smartphone: una massa accondiscendente e sussiegosa, dalla costanza infallibile ma dal cuore cieco…

Ed è in questa alterità che il protagonista dimostra di essere molto più reale rispetto al resto dell’umanità, così perfetta, vittoriosa, “automatizzata”; quest’uomo non ancora quarantenne, emarginato, considerato dagli abitanti del villaggio un “idiota” perché non in grado di adattarsi e di trovare un lavoro stabile, condensa nel suo personaggio le paure che in molti possiedono, delle disabilità relazionali spinte fino al livello della fobia incurabile; nei suoi numerosi momenti di ozio, Mattis tenta di dare una risposta ordinaria ai perché sul suo modo di essere e sul giudizio che hanno gli altri di lui, ma invano.

Qui si innesca il cortocircuito con il pensiero comune: non essendo possibile instaurare un legame con l’umanità, Mattis comunica con l’unica amica veramente in grado di ascoltarlo, la foresta, con il suo variegato coro di esseri viventi e di elementi naturali: il bosco funge da gigantesco calderone, all’interno del quale si palesa una babele di segnali dall’inconfutabile valenza semantica e di linguaggi spesso incomprensibili ai più.

Mattis non si crede migliore degli altri anzi, spesso fa riferimento ai suoi interlocutori umani definendoli “forti e intelligenti”, ma è consapevole di essere più sensibile; questo suo animo gentile, diverso e insolito dall’ovvietà umana, gli permette di carpire i messaggi che il mondo circostante gli invia segretamente, nascosti ben al di sotto di una superficie anonima: si stabilisce un dialogo privo di parole e di affermazioni palesi, ma la sua intensità dona vigore e inconsueto benessere a chi riesce a decifrarlo, e il protagonista ce la mette tutta per padroneggiarlo.

Egli, durante le sue giornate a prima vista vuote, improduttive e sprecate, secondo la prospettiva dell’uomo che non deve lasciarsi andare a frivole distrazioni, resta in ascolto del richiamo della foresta: come uno sconfinato palcoscenico, con zone illuminate e parti in ombra, il protagonista osserva ogni dettaglio della poliedrica ambientazione; ogni elemento in scena acquista un significato ulteriore, sembra essere stato collocato lì in quel preciso momento per uno scopo predestinato.

Ed è con questa funzionalità che la foresta si presenta con quel suo bagaglio contenutistico che è tipico della produzione artistica (non solo letteraria) che si rifà allo spirito autenticamente nordico, soprattutto norvegese; al di là di figure tipicamente fiabesche, la selva è, già di per sé, un’entità magica, mutevole, capace di fornire infiniti spunti interpretativi: occorre farsi strada in questo labirinto naturale, per trovare la propria via ontologica, un equilibrio, il quale, tuttavia, non sarà mai definitivo, perché l’uomo è sempre in conflitto con se stesso e con la natura.

Mattis avverte questa indefessa conflittualità esterna ed interiore per mezzo degli accadimenti più naturali: l’approssimarsi di un temporale scatena in lui una paura atavica, incontrollabile, è il trauma insuperato dell’incompiuto passaggio nell’età adulta; l’accorgersi delle amanite, sempre più numerose e venefiche, è una sfida per dimostrare al boscaiolo Jørgen tutta la sua intraprendenza, perché non deve azzardarsi a rapire il cuore e le attenzioni della sua cara sorella Hege.

Ma è la comparsa della beccaccia a portare nella vicenda una significanza pressoché profetica: lontano da qualsiasi apparizione epifanica, questo uccello, congedandosi dalla sua fama di anonima preda venatoria, si rivela quasi un annuncio di speranza, di concreto riscatto dall’insensata quotidianità; il suo volo è una consolatrice danza notturna, le beccate e le impronte sul terreno sono i segni di una lingua che può affrancare dalla solitudine, perché, anche se a modo loro, rappresentano una possibilità di interazione con l’altro.

Mattis è entusiasta della scoperta di questa sua nuova amica timida e taciturna e non può fare a meno di parlarne in continuazione a Hege, anche quando è molto concentrata sul suo lavoro a maglia o è a letto, dopo una faticosa giornata; ma la sorella, seppur senza volerlo, non riesce a capire la gioia del fratello minore, il valore benefico delle sue affermazioni, di primo acchito così insulse, e lo esclude da una fantasiosa quanto fondamentale comunicazione familiare: sono le piccole cose a dare lustro all’opacità del reale, ma Hege, schiacciata dalla severità della vita, non può comprenderle.

Poi, per errore, Mattis svela ad un cacciatore la presenza della beccaccia nel bosco e, nel giro di poche ore, uno sparo interrompe tutto: il volatile, con “il piombo nelle ali”, giace a terra, ormai senza vita e, con lui, si spezza bruscamente il sogno fattibile di un cambiamento positivo, di una felicità imperitura e genuina; da quel momento, la visione spensierata del protagonista si incrina, si ricopre di nubi che non sono più sintomo di un disagio passeggero, ma presagio di una morte ineluttabile, a lui vicinissima.

A ben poco serve l’incontro fortuito con Anna e Inger, due turiste di passaggio: Mattis pensa che la loro presenza sia una sorta di miracolo proveniente dal lago, quello specchio d’acqua vicino casa sua, che spesso si ritrova a contemplare come il più intimo dei confidenti; spera in un’ulteriore opportunità di emancipazione dalla marginalità, a cui la comunità umana l’ha condannato…

Ma anche queste due ragazze, come tutte le altre persone che si pongono sul suo cammino, non colgono il suo animo speciale, il suo orgoglio un po’ goffo ma privo di malizia per averle scortate sulla sua barca fino al villaggio e, prendendosi implicitamente gioco di lui, lo salutano senza troppa emozione né importanza, facendolo ricadere nel baratro dell’anonimato.

A peggiorare ulteriormente la situazione, si ripresenta il temporale, un vero incubo per il povero Mattis, le cui conseguenze sono, questa volta, devastanti: uno dei due pioppi, i quali svettano vicino alla dimora di Hege e del fratello ed incarnano alla perfezione il loro modesto ma quieto vivere, viene falcidiato da un fulmine, segnando un punto di non ritorno; il ragazzo, troppo autentico e spaesato per la sua età anagrafica, avverte il pericolo imminente, una frattura con gli altri e con se stesso sempre più difficile da ricucire.

L’arrivo di Jørgen nella vita dei due fratelli è il gradino ultimo di questo allontanamento: l’avvenente e burbero boscaiolo riesce ad attirare l’attenzione di Hege più di quanto non faccia Mattis, nonostante la sua calcolata invadenza e la sua gelosia, spesso ingiustificata.

Con Jørgen, il protagonista, chiuso nel suo fragile e solingo universo, si rende conto che non esiste un punto di congiunzione con ciò che è intorno a lui, tantomeno si può stabilire un compromesso tra la normalità dilagante e la propria peculiare ma difettosa diversità: è stata tracciata l’esclusione definitiva, la presa di coscienza che un equilibrio di tutte le cose, benché tanto agognato, è impossibile da realizzare.

La difformità umana di Mattis smette di essere un punto di forza, uno slancio vitale carico di propositivo coraggio, e lo confina nella folle idea suicida: ormai sopraffatto dal buio dell’incomprensione, egli sceglie di annullarsi nella natura, in quelle placide acque lacustri che finiscono per accogliere il suo ultimo silenzio, cancellando non solo qualsiasi legame con gli altri, ma anche se stesso e tutte le sue irrisolte incertezze.

A chiudere la tragica storia, l’immaginario grido disperato di un uccello si sovrappone a questa morte reale, di per sé irreversibile; eppure, la figura alata, un chiaro richiamo al titolo del romanzo, assurge, nonostante le circostanze, a modello di gioia e di rinascita, al di là della triste esistenza ormai alle spalle.

Come l’upupa montaliana, “un uccello sconosciuto” (ma anche la beccaccia ne è un fulgido esempio) si affaccia al testo con la sua aura prodigiosa e fiabesca, la quale trascende il simbolismo fino a diventare un correlativo oggettivo, dalla valenza interpretativa oggettivante e fortemente legata al vissuto del protagonista: esso incarna un ottimistico superamento del distacco dell’Io dalla natura e dal mondo e fornisce al lettore lo spunto per un altro possibile epilogo.

 

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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