Seni seviyorum, l’amore sulle rive del Bosforo (quarta parte)
Seni seviyorum: l’amore sulle rive del Bosforo (prima parte)
Seni seviyorum: l’amore sulle rive del Bosforo (seconda parte)
Seni seviyorum: l’amore sulle rive del Bosforo (terza parte)
“Özge corre su e giù per le scale, in preda all’inizio di una sua solita crisi di inadeguatezza sociale: con la scusa dei panni da stendere, si è fatta accompagnare da Engin a casa, ben prima dell’ora di pranzo, salutandolo con tono di finta spensieratezza; il ragazzo sarebbe poi passato a riprenderla nel primo pomeriggio.
Non è la prima volta che le accade di sprofondare nell’ansia, quando ha in programma di uscire in compagnia, anche se conosce la persona e ci ha già scambiato più di qualche sillaba; il problema emerge quando l’uscita si limita alla presenza di due soli attori, lei e l’interlocutore in questione, perché in una situazione simile è impossibile disperdersi in un gruppo, né cedere l’impegno gravoso di una conversazione continuativa a qualcun altro.
La ragazza esce un attimo in giardino: fa un profondo respiro e prova a distogliere la mente dal pensiero di una figuraccia imminente, oltre che immotivata, causata dalla sua incapacità di gestire in maniera razionale anche i rapporti più semplici con il mondo; adesso è meglio pensare a Şafak, a quella bellissima, piccola, novella vita, e perché no, occuparsi anche del pranzo.
Rientra in casa, rasserenata, pronta a mettersi ai fornelli, dimenticando per un po’ tutto il resto; con il sole dell’ora di punta che filtra dalla finestra della cucina, tra suppellettili in ceramica, orchidee e piante grasse, Özge mette a bollire l’acqua e prepara il condimento per la pasta: con la liberatoria concentrazione di chi non vuole badare ad altro, comincia a tagliare zucchine, carote, patate, con l’intento di mangiare un piatto ricco di colori.
Prova a distrarsi, immergendosi in quell’arcobaleno di verdure: una forchettata dopo l’altra, l’aroma del timo e del cumino, già diffuso nella stanza, si propaga sul palato, più intenso ad ogni boccone.
Ma niente da fare: il cibo transita pressoché inosservato, perché la fanciulla sta già meditando al passo successivo, lo sguardo della mente desideroso di frugare all’interno dell’armadio.
Giusto il tempo di lavare i piatti, poi si dirige in camera, seguita da Şafak, un’ombra inseparabile; al contrario della sua padrona, incerta se mascherare la sua inquietudine o mostrarsi per quello che è realmente, la gattina compie la scelta migliore: nella sonnolenza del dopo pasto, sale nel cassetto aperto e si accoccola tra le file di maglie piegate, felice di schiacciare un pisolino ristoratore.
Intanto Özge ha già formato sul letto una torre altissima di gonne, vestiti, pantaloni, tra i quali è impossibile trovarvi la cosa giusta da indossare, tra abiti troppo corti, jeans troppo aderenti, camicie trasparenti e scollate.
Scruta il cielo fuori dalla finestra, nella speranza di ricevere un aiutino dalle attuali condizioni meteorologiche: il caldo tiepido ma timido è un punto a suo favore, quindi può optare per la sua felpa preferita, nera ma con l’iconica regina norvegese sul davanti, talmente lunga e larga da sembrare più grande di almeno tre misure, in perfetto stile pop culture… quasi non rimpiange le assolate e roventi giornate estive.
Mentre scarta, senza ripensamenti, le soffocanti calze sintetiche e tutti quegli altri abiti eleganti che la proiettano in un’utopica prima all’opera, successivamente la sua attenzione cade su un paio di jeans scoloriti a cui tiene molto, di una taglia in più; è fiera di quei pantaloni datati, ma si sente in colpa – Sarò adeguata all’appuntamento con questo stile così underground? Come verrò giudicata? – riflette tra sé.
Şafak la osserva divertita, come a volerle dire: «Perché tanto affanno? La veste comunica molto, ma non conferma nulla. Guarda il mio pelo nero: ho passato secoli a smentire il suo errato messaggio, ma non per questo mi sono arresa al giudizio altrui, che ha scambiato la mia oscura bellezza per una demoniaca presenza; ciò che conta è sentirsi in equilibrio con se stessi, qualunque sia la veste indossata».
Özge pare acquistare un po’ di calma, anche se momentanea: d’altronde, il “cosa indossare” è l’ultimo dei problemi esistenziali da porsi in qualsiasi contesto, l’importante è tenere a mente le regole del buon gusto, senza farsi sfuggire l’occasione di divulgare anche soltanto un piccolo frammento della propria identità; senza temporeggiare oltre, visto anche lo scorrere veloce delle lancette, rimette tutto in ordine, lasciando fuori il solo completo prescelto, forse tutt’altro che raffinato, ma custode di comodità e agiatezza.
Dopo questo inutile tribolare, decidere quali accessori abbinarci si rivela un gesto spontaneo: in insindacabile coerenza con l’insieme, la fanciulla, finalmente più sorridente, sceglie di agghindarsi con ben tre bracciali e tre collane differenti, arrivando, solo con i primi tre, ad un totale di diciotto piccoli ciondoli, con forme che vanno dalla pecorella alla teiera; poi spiccano i tre girocolli, un pupazzo di neve, una margherita, una minuscola effigie con due eroine mitologiche.
Poi è la volta degli orecchini: in questo caso, bastano un paio di punti luce, due gocce di cristallo che pendono da una chiusura bianca a forma di fiore; la preparazione è stata più agevole di quanto si aspettasse.
Decisa a fare a meno del trucco, è facile, infine, capire quali sono le scarpe da prendere in considerazione: non potendo fare a meno di corse improvvise, di movimenti veloci e febbrili tra mercati, piazze e strade affollate, Özge affida l’arduo compito di camminatrici instancabili alle scarpe basse decorate da unicorni celesti e viola; è sufficiente lanciare un’occhiata al paio di calzature e i pensieri prendono subito il volo sulla scia del disegno di quei corpi alati, concepiti per portare l’anima in stato d’urgenza da qualche altra parte…
A disturbare quel lieve ondeggiare della mente nei reconditi spazi dell’immaginazione, ci si mette il tempo, che sfreccia senza pietà davanti agli occhi assenti, gettandovi la polvere del suo inevitabile fluire.
Il presente chiama, ha la voce di un citofono: il pomeriggio è arrivato ingoiando abbondanti manciate di minuti, portando Engin sotto casa della ragazza.
Şafak ha approfittato di un’ora di riposo ed è in perfetta forma, rilassata e in armonia con l’ambiente circostante; si lascia prendere docilmente in braccio dalla sua padrona, in fondo felice di poter uscire di casa per una passeggiata, a prescindere dalla compagnia: stare all’aria aperta con il bel tempo è un dono spesso sottovalutato”.
Ilker interrompe bruscamente la narrazione: i due ragazzi lo fissano perplessi e, benché assonnati, scorgono il suo tacito nervosismo, che lascia trapelare un inaridimento del suo afflato letterario; il racconto rischia di percorrere l’abusata strada della favoletta d’intrattenimento.
L’estroso artigiano non può accettare questo noioso incedere che, non a caso, sta conducendo Elsa e Julian ad una passiva assuefazione: entrambi stanno palesando espressioni distratte, che esibiscono un finto interesse; la testa pesante, sorretta da un gomito svogliato, di tanto in tanto si rifugia nel tamburellare ipnotico di dita irrequiete.
D’un tratto, pur di evitare di essere fagocitato dal silenzio di un cervello intorpidito, Ilker si alza di scatto; da dietro il bancone, la sua schiena, non più così snella, urta una trave di legno della sua bottega e, seppur in maniera abbastanza lieve, le decine di lampade sospese principiano ad ondeggiare, generando, sotto la guida del limpido sole, l’ennesimo gioco multiforme di riverberi variopinti.
I due giovani si ridestano di soprassalto: i loro sensi sono di nuovo vigili e incuriositi dal terrestre divenire, distruggono la bolla dell’indolenza che li ha quasi assopiti senza preavviso, trascinati da una storia che si stava tramutando nella nenia di un carillon rotto, dalla melodia stonata; le palpebre raggiungono la loro massima apertura, per accogliere le immagini di una fantasia che ha il dovere di essere sconfinata, inedita e sorprendente ad ogni svolta dell’esistenza, ma anche caritatevole con ogni passo incerto o aspettativa tradita.
Ilker, conscio della sua piccola grande missione artistica, sorride ai suoi ascoltatori, finalmente tornati partecipi di quel momento remoto ma prezioso nella cangiante quotidianità di Istanbul, e, con compiaciuta solennità, ricomincia a parlare: le luci policromatiche che illuminano l’angusto negozio si amplificano al suono di parole ritemprate, di intere frasi rigeneranti come la maretta all’ora del tramonto.
Il creatore di mosaici vitrei accantona la confusione, probabilmente la riversa nella sua ansiosa protagonista, novella fautrice di una diversa immedesimazione; le scene si susseguono fervide ma armoniose e, nel frattempo, la trama scontata soccombe, divorata da un’ellissi…
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