La scorsa domenica il Guardian se ne usciva con una notizia di non poco conto: testate nucleari sul suolo europeo pronte per essere ammodernate, ma soprattutto riconvertite in bombe guidate. Il che ha rapidamente fatto pensare ad un pronto utilizzo, e di conseguenze ad un coinvolgimento dei cacciabombardieri F-35. Eppure qualcosa non quadra, in questa storia iniziata nel novembre 2012 sotto benedizione del Pentagono. Questioni tecniche, militari e politiche.

F-35 (fonte: freeyourmindfym.wordpress.com)

La sottile incidenza capace di trarre forza dalla questione nucleare dovrebbe essere chiara perlomeno -abbiamo la memoria corta- dal modo in cui la stampa italiana ha trattato le tensioni tra Nord e Sud Corea (ne parliamo qui). Ne sono derivati gli evidenti sintomi di una psicosi atomica mai sopita sin dagli anni della Guerra Fredda, ed è ovvio che poi spunti qua e là anche il nome della Russia. È in effetti proprio dalla Guerra Fredda che è necessario partire per capire questa strana storia, ai tempi in cui l’Europa occidentale costituiva un blocco compatto di resistenza ad una ipotetica avanzata sovietica (fosse essa dottrinale o militare). Fu allora che l’amico americano decise di appoggiare sul vaso di pandora di un continente irrequieto quell’arma disastrosamente sperimentata quanto potenzialmente letale (Michael Howard, La guerra e le armi nella storia d’Europa, p. 278). Già, potenzialmente. Il termine non è casuale.

Anche allora, infatti, la prospettiva di un conflitto nucleare era alquanto fantascientifica. Il punto -e di questo punto non si tiene mai abbastanza conto- è la percezione di questo pericolo. Perché tanto essa è forte, tanto l’arma è potente perché allora, così come oggi (vedasi la voce Iran) il punto vitale che lega un arsenale atomico al paese possessore è quello della deterrenza. Il rapporto tra di essa e la minaccia atomica è infatti inversamente proporzionale: più si alimenta l’idea che il nemico sia una potenza nucleare, meno è necessario per esso attaccarci. Qualcuno dunque dice che siamo ai tempi della guerra nucleare. Sarebbe invece forse più convincente asserire che i nostri tempi sono quelli della deterrenza. E d’altronde non temiamo smentite: una guerra atomica non darebbe il tempo al lettore pignolo di insinuare un nostro errore.

Ci sono poi alcuni elementi più propriamente strategico-militari che lasciano qualche perplessità nell’accostamento tra l’accordo trovato tra governo americano e italiano riguardo le testate presenti sul nostro suolo e un loro ipotetico utilizzo. Il primo punto interrogativo riporta ad una analisi a grande scala degli scacchieri sui quali si sta muovendo la politica estera americana. Nell’occhio del ciclone -almeno a breve termine- sembrerebbe essere proprio la Nord Corea di Kim Jong-un. A meno che il personaggio in questione riesca nella titanica impresa di dimostrarsi più stupido di quanto sembri -sulla cui possibilità francamente abbiamo qualche riserva- gli avamposti americani nel pacifico sembrerebbero una postazione ideale per un eventuale conflitto (atomico o meno). Se dunque la Nord Corea non si deciderà a spazzarli via, di certo è su quel vettore che si muoverebbero gli americani, non certo su quello europeo, per di più utilizzando aerei invece dei collaudati vettori missilistici. Questo in un’ottica coreana, chiaramente. Avendo invece chiaro chi sia il vero nemico degli Stati Uniti, l’Iran teocratico, la situazione cambia. E lo fa soprattutto perché l’Europa diverrebbe il comodo alleato da mandare al massacro contro un vicino ostile, la pedina sacrificabile sulla strada per la libertà. Se può divenirlo la Corea del Sud, di certo possono diventarlo anche gli europei. Una strategia di questo tipo, però, è ancor più improbabile (specie in ottica nucleare).

Arrivando poi al centro del problema, una questione meramente tecnica mette in crisi anche l’associazione tra bombe nucleari e F-35. L’ostilità standardizzata contri i cacciabombardieri in questione, più per dimostrazione di sé che per vero spirito di pace, non arriva neanche infatti ad una blanda conoscenza che si può ottenere da 15 minuti su Wikipedia. Sulla pagina dedicata agli F-35 li ritroviamo nella categoria dei caccia multiruolo, ossia quegli aerei militari utilizzati per attacchi contro altri velivoli, per attacco al suolo, ricognizione e bombardamento tattico. Quest’ultimo però, viene ricondotto ad azioni mirate, limitate nello spazio e nella rilevanza complessiva. Vi viene escluso dunque il cosiddetto bombardamento strategico, quello di maggiore rilievo, operato nel cuore del territorio nemico ed esteso di conseguenza all’utilizzo dell’aereo (il bombardiere strategico) come vettore per armi nucleari. Strano è dunque che anche l’ex-ministro della difesa Arturo Parisi abbia avallato tale tesi. D’altronde nella sua biografia ad eccezione del diploma alla Scuola Militare Nunziatella di Napoli di attività in ambito militare non risultano.

Ad apparire minaccioso resta dunque esclusivamente il fatto che attorno agli ordigni presenti sul suolo italiano vi sia l’attenzione di approntare un sistema il cui fine è quello di riconvertirle in bombe guidate (note sotto il nomignolo che non fa ridere di “bombe intelligenti“). Solo questo lascia dedurre una strategia almeno di lungo periodo atta a prevederne l’utilizzo. Il fatto che ad oggi si continui a rimuginarci sù è però indicativo di un passato che ritorna, nonostante le evidenze che ne renderebbero l’utilizzo ridicolo accanto a strumenti enormemente più rapidi e di difficile contrasto come i missili balistici intercontinentali. Se di conseguenza su qualcosa ci si dovrebbe concentrare, è quanto messo in evidenza da Toni de Marchi su Il Fatto Quotidiano, e cioè come la questione metta seriamente in ombra l’intera politica ratificata con il new Start, l’ennesimo accordo stipulato da Russia e USA nel 2010 per la riduzione degli armamenti nucleari. Ad essere messo a rischio è infatti quel delicato equilibrio di reciproca distensione necessario affinché le migliaia di testate detenute dalle maggiori potenze vengano lentamente dismesse. A risentirne è quindi proprio quel processo di stabilità duratura ben più complesso, difficile e delicato delle ennesime scorie della Guerra Fredda. Tutto ruota attorno ad una necessità: far capire che il punto non sono i residuati bellici, quanto la mente degli uomini. Se riusciremo a fare in modo che gli europei si amino un po’ di più, forse non staremo più a parlare delle armi con le quali amano ammazzarsi a vicenda.

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