Sembra sempre uguale a se stessa la realtà: reiterata, ripetitiva, terribilmente apatica nella sua ridondanza di contesti e azioni.
Il sole, che domina il cielo sereno, pare perdere la sua innata beltà rigenerante, diviene parte di una scenografia già conosciuta: la breve camminata all’aria aperta per andare a prendere l’autobus e recarsi a lavoro; il segnalibro che fa capolino tra le pagine di un volume costretto nello scomodo abitacolo di una borsetta; il gatto, riflesso di questo insensato languore, che distende le membra ancora dormienti, mentre avanza per l’ennesima volta sul solito marciapiede, in una mattinata qualunque.
Nulla assume un valore degno di essere registrato dalla memoria o dai sensi, niente merita di essere ricordato: qualsiasi particolare, benché provi a proporre un assaggio di diversità, si annulla nella sconfinata e melmosa distesa di una quotidianità regolare; le sane imperfezioni si annientano in un’uniformante fanghiglia.
Non c’è tempo, non si ha voglia di soffermarsi a cogliere le piccole gioie, così come le sospette anomalie sfuggono alla vista, alla psiche: tutto viene dato per scontato, perché, quando si è inghiottiti dalla routine, è come se si viaggiasse su un percorso parallelo; si segue uno schema prestabilito, una tabella di marcia che, per comodità, non si ha la minima intenzione di modificare.
Consapevoli degli ostacoli che incontreranno, eppure così incrollabili e testardi, i sogni si incamminano su un’altra strada ancora: il loro scopo è quello di integrarsi, prima o poi, nei rigidi meccanismi della realtà, perennemente ottimisti, instancabilmente certi di riuscire in questo mastodontico intento; d’altronde, la vita di tutti i giorni, a ben guardare e con un pizzico di fortuna e follia, può offrire spunti di concreta realizzazione.
La città di Istanbul sembra il luogo ideale per mettere alla prova i propri desideri: nonostante il caos, il traffico e la moltitudine soffocante di gente, l’immensa metropoli turca è, infatti, un crogiolo di ulteriori infiniti universi, nei quali far convivere pacificamente il proprio personalissimo mondo con la volubilità del reale.
Una megalopoli rischia di fagocitare le persone e le loro ambizioni, ma il carattere di un individuo può plasmare l’ambiente urbano e le sue poliedriche connessioni, rendendoli più confortevoli e vicini agli obiettivi esistenziali.
Le vetrine tirate a lucido dei negozi glamour del quartiere Nişantaşi, i grattacieli avveniristici costruiti in tempi record assurgono a baricentro di una piacevole normalità, un’ordinarietà che, tuttavia, tralascia, scrolla le spalle, dimentica.
Può sembrare un’osservazione banale, talvolta puntigliosa, ma si tratta di un puro concentrato di veridicità: l’assuefazione all’abitudine, l’aspirazione cocente a raggiungere una sicura, seppur tremendamente statica, comfort zone, impediscono di apprezzare appieno ciò che già si possiede e, al contempo, creano l’illusione che l’anelito alla soddisfazione umana, sociale e professionale possa verificarsi dopo una complicata ma prevedibile serie di accadimenti.
Ci si trova davanti ad una vero e proprio quesito filosofico, estremamente sottile, profondo, nascosto tra le pieghe di quei grandi dilemmi i quali, in fin dei conti, spesso restano compresi a metà in quelle ingarbugliate spiegazioni contenute nei libri di scuola.
Stavolta la questione è diversa: il tombino divelto, che risucchia anche i sogni più solidi e lucenti lungo il sentiero della vita, si trova dietro l’angolo e non può essere definito una semplice crepa, né additato quale crudele distruttore di grandi ideali, poiché é la semplicità stessa della routine giornaliera a subire una brusca battuta d’arresto; quei quotidiani riferimenti, la cui presenza era considerata assodata, si sbriciolano senza preavviso.
L’ovvietà si tramuta in presa di coscienza di una condizione di serenità che si è sempre sottovalutata perché considerata immutabile, ma che ormai non c’è più; soltanto adesso, emerge il rimpianto per aver sottomesso la felicità, insita nel fluire del vivere, a prima vista insignificante e ossessionato dal rinnovamento, alla corsa sfrenata verso l’aleatorio traguardo del futuro.
Se non si apprezza il presente, coltivando in esso e a piccoli passi i pensieri sognanti, questi ultimi non faranno che schiantarsi ancor più gravemente su imprevisti ed incertezze.
Ancorarsi al proprio mondo e lasciare fuori tutto il resto non è sufficiente: avvalendosi di un simile comportamento, forse si riesce ad evadere dalle mendaci lusinghe di una realtà degenere, tuttavia si trascurerebbero quei dettagli fondamentali che, nel bene e nel male, sfondano la parete dell’apparenza, rivelando che niente è come sembra…
Nello scontro manicheo tra i grandi sogni e la realtà disseminata di ostacoli si apre un dibattito sociologico tutt’altro che avulso dalla società coeva; probabilmente, analizzare questi tanto semplici quanto sottostimati aspetti del quotidiano aiuterebbe a capire meglio l’ambiente circostante, persino la stessa immanente esistenza.
Non occorre cercare chissà quanto lontano per fare chiarezza sul rapporto conflittuale, spesso incomprensibile, tra l’agire e il mondo che lo influenza; può bastare il più insospettabile degli intrattenimenti culturali a suscitarlo.
Tra un dialogo lasciato a metà e una scena vivace, c’è una fiction che sembra richiamare con insistenza questa contrapposizione, senza, però, porre il dilemma su un piano troppo impegnato e didascalico.
Nel cuore di Istanbul e traducendo la dicitura “fiction” con il termine dizi, la nuova serie televisiva Hayaller ve Hayatlar, rifiutando espliciti sermoni e mediante una sceneggiatura frizzante e dinamica, fornisce un appetibile strumento di interpretazione non solo del reale ma anche delle reazioni incondizionate della psiche ad esso.
Licenziata lo scorso 17 febbraio con i primi due episodi sulla piattaforma digitale turca Bein Connect Tr, prodotta da New Generation Media Turkiye, Hayaller ve Hayatlar (un titolo emblematico, la cui traduzione italiana è “Sogni e vite”), è il racconto corale di cinque ragazze, ognuna con le sue aspirazioni professionali e sentimentali, intrinsecamente connesse l’una all’altra.
Dicle (Özge Gürel), Guneş (Aybüke Pusat), Setenay (Melisa Aslı Pamuk), Melike (Yeşim Ceren Bozoğlu), Meryem (Beyza Şekerci): il loro legame di amicizia è solo un’infinitesima parte del macrocosmo relazionale che le interfaccia con il mondo e i suoi camaleontici volti, un alternarsi caotico di momenti spensierati, rincorse verso la soddisfazione personale, noiose incombenze quotidiane.
Non di rado si ritrovano a conversare insieme, a condividere i propri sogni più intimi ma, contemporaneamente, c’è anche chi esita ad aprirsi, chi si mantiene sul fragile filo della reticenza, dello scomodo segreto che ancora non si ha la forza di confessare, benché ne affiorino i primi imbarazzanti segnali, troppo timidi per essere notati, giudicati eccessivamente insulsi per darvi peso…
O forse no, la situazione è ancora peggiore: nessuno si è preso la bega di giudicare quegli indizi, perché nessuno ci ha fatto minimamente caso; per quanto siano attente e premurose, le fanciulle non si sono preoccupate di approfondire i mutamenti, anche se impercettibili, esternati dall’altra, uno sguardo malinconico, un sorriso forzato, una vicenda bizzarra.
Guneş, giovanissima neolaureata in legge, viene assunta in un prestigioso studio di avvocati grazie alla sua amica Meryem, la quale già lavora lì come contabile; tuttavia, la giovane apprendista non si chiede come mai, dopo fallimentari esperienze di precariato, sia stata ora ammessa senza nessun iter di selezione, non si accorge delle occhiate complici tra Meryem e il suo capo, già sposato con una moglie cosciente del tradimento in corso.
Perché soffermarsi su queste minuscole stranezze: Guneş è felice di aver trovato un’occupazione seria, e l’amicizia serve anche a questo.
Dicle, letterata, aspirante scrittrice relegata in un’azienda che realizza improbabili insegne luminose per svariate attività commerciali, deve fare i conti con un fratello privo di sex appeal che dichiara invano il suo amore platonico per Meryem.
Dicle crede di conoscere la sua amica, la sua atavica timidezza (in fondo, suo fratello è l’antitesi dell’uomo perfetto, meglio non dargli spago), ma quel suo anormale istinto alla fuga, a nascondersi, passa purtroppo inosservato.
Quando Meryem decide di traslocare nello stesso condominio della sua amica, nell’ex appartamento del portiere, Dicle non intuisce l’anomalia: la ragazza, nella casa seminterrata ancora vuota e che definisce addirittura “la tana del coniglio”, argomenta sulla diversa prospettiva visiva che si ha da quelle finestre strette e lunghe, collocate al livello del marciapiede; Dicle rimane affascinata da quelle considerazioni, forse un pochino stranita, ma è soltanto una sensazione momentanea.
La vita prosegue, inarrestabile, come una catena di montaggio.
Se Dicle e Guneş sono prevalentemente orizzontate verso la carriera, Setenay è colei che ricerca il giusto equilibrio tra la professione e vita privata: esperta di arte, la fanciulla collabora con una galleria che, però, espone opere mediocri, di gusto discutibile.
D’altro canto l’imminente matrimonio con Emre (Ekin Mert Daymaz) saprà donarle le giuste soddisfazioni, tollerando le antiquate pretese della suocera, che trasforma un invitante e brioso addio al nubilato in una tradizionale cerimonia dell’henné.
E la notte di festa puntualmente arriva: le quattro ragazze si recano ai festeggiamenti della loro amica, futura sposa, e sono talmente prese dalla frivolezza del momento che evitano di sperperare anche un solo istante della serata per scattare un selfie.
Cosa vuoi che sia un insulso selfie, in confronto ad un’amicizia ancora tutta da scoprire? Ci saranno chissà quante altre occasioni.
Ma quando Meryem viene trovata morta nella sua dimora costantemente nell’ombra, ecco che quelle superficiali convinzioni cominciano inesorabilmente ad incrinarsi.
La sciagura sconvolge l’andamento, pressoché regolare, delle vite delle ragazze, il graduale percorso dei loro sogni; d’improvviso, assumono valore i gesti trascurati, si rimpiange quella chiacchierata vissuta con troppa freddezza, perché ritenuta replicabile all’infinito.
Finalmente, cresce la certezza che, in ogni minuscolo attimo, la vita scorre sempre diversa e irripetibile.
Purtroppo, spesso ci vuole esclusivamente l’evento irreversibile per scuotere le anime assuefatte dall’individualismo cieco, le menti intorpidite dall’autoreferenzialità dei propri pensieri.
Dicle, Melike, Guneş e Setenay escono dai loro eremi e si scontrano con il lato peggiore della realtà, quello che abbrutisce, illude, distrugge, che sotterra le minute ma floride e spensierate infiorescenze in un deserto senza via di uscita; ci sono disgrazie che nessuno ha il potere di annullare.
Grazie a storie come Hayaller ve Hayatlar, la facoltà stessa del narrare, creatrice di dimensioni edificanti dall’immenso valore pedagogico, fornisce un’inestimabile chiave di lettura di quell’universo che va affrontato tutti i giorni; il potere della narrazione ha il diritto e il dovere di provare a dare una spiegazione all’inspiegabile, a rendere più sopportabile e comprensibile l’indole efferata del male.
La potenza immaginifica dei racconti aiuta a crearsi un’alternativa agli scenari che la realtà già concede, non con il fine di alienarsi da essa, ma con l’intento di colmarne le carenze e di smascherarne gli inganni, partendo proprio dal miglioramento dell’individualità in correlazione agli altri.
“Perché è questo che facciamo noi narratori: ristabiliamo l’ordine con l’immaginazione, infondiamo speranza senza sosta, e ancora e ancora”.
Queste sono le parole di Walt Disney, interpretato da Tom Hanks, nel capolavoro cinematografico Saving Mr. Banks (2013), e non c’è affermazione più calzante: la narrazione, qualunque sia il mezzo artistico scelto per renderla tangibile, permette, a colui che beneficia del suo messaggio, di affinare il senso critico, di rapportarsi con il presente con maggiore consapevolezza.
Nonostante le delusioni della vita, l’opportunità di aggrapparsi ad un mondo altro è un incentivo a misurare con metodicità la distanza tra i sogni e la loro effettiva realizzazione e, nella veemente tutela del proprio universo, a tentare di far dialogare quest’ultimo con l’ambiente esterno senza privarlo della sua bellezza e della sua unicità.
Hayaller ve Hayatlar riesce magnificamente in questo edificante compito; nel tumulto di richieste e pretese rivolte all’esistenza, l’ineluttabile scontro con la realtà invadente si biforca in due opzioni: o soccombere alle sue false promesse oppure fermarsi in tempo prima che sia troppo tardi, captando quei segnali inequivocabili, che sono un invito a cambiare rotta al più presto.
I propri sogni non hanno prezzo, ma, se si segue l’allettante prospettiva di un loro facile, di fatto impraticabile compimento, è la stessa identità a crollare.
La povera Meyrem si è lasciata soffocare dalla finta sicurezza che potesse esistere una dimensione perfetta pronta ad accoglierla, arrivando a mettere in secondo piano le sue reali volontà.
Le sue amiche hanno introiettato la disgrazia e, ancor prima di prenderne palesemente atto, la convertono in un meccanismo di difesa: il mondo reale è fatto di subdoli lati oscuri, che vanno illuminati con serietà, ma anche con leggerezza e divertito distacco, perché altrimenti, senza il giusto sorriso, sarà sempre il buio a predominare.
E, in questa direzione, la suddetta dizi comunica il suo precetto al riscatto identitario, abdicando sia alle risate trash, sia alle patetiche scene strappalacrime, sia alle violente sparatorie.
Attraverso una trama ricca ma non troppo impegnativa, l’attenzione dello spettatore viene catturata in maniera intrigante e sapiente.
Il contrasto, ricorrente nelle sceneggiature turche, tra ansie di cambiamento ed abusata tradizione, viene riproposto ma con una latente derisione ai danni di quest’ultima: si porta alla luce la cocente voglia di rinnovamento in una società in continuo divenire, nella quale sono i giovani i nuovi protagonisti, sempre più insofferenti ai dettami, non più attuabili, delle generazioni precedenti.
Si tratta di una tematica importante, a tratti scomoda, che trova molta più possibilità di sfogo su una piattaforma digitale piuttosto che su una rete televisiva mainstream, senza il rischio di una brusca chiusura anticipata della produzione (come accadde, nel settembre 2020, per l’innovativa Bay Yanlış, in onda su Fox Turkiye).
Nel solco di questa gradevole analisi sociale, che mira all’approfondimento morale e psicologico dei singoli, emergono senza mezzi termini il desiderio di indipendenza economica e di autonomia personale femminili: sono le donne le vere protagoniste di Hayaller ve Hayatlar, con il loro costante timore di cedere al ricatto del compromesso, dell’omologazione, degli obblighi imposti da una figura maschile, sia essa un fidanzato o un datore di lavoro, la quale si dimostra falsamente accomodante.
La loro preponderanza, non solo fisica ma, soprattutto, intellettuale, diviene quasi elemento perturbante, laddove l’ottica maschile ha spesso la priorità; la donna, sempre meno dipendente dall’uomo, ambisce a nuovi traguardi professionali, ad una diversa collocazione, nel pubblico come nel privato: si assottiglia il gap di genere, nella direzione della parità e del rispetto, benché la strada sia ancora molto lunga.
Ed ecco che scatta spontaneamente l’immedesimazione: davanti alle telecamere e negli animi di chi osserva il prodotto finito, sboccia e si fortifica, di puntata in puntata, un affamato bisogno di intraprendenza, il desiderio di conoscere, fino in fondo, se l’esistenza è pronta a stupirci o a deluderci, acquisendo i giusti mezzi interpretativi.
Alla creazione di un clima così vivido nei contenuti, congeniale alla divulgazione di temi profondi e attuali, si rivelano essenziali un set dove si respirano amicizia e cooperazione, un cast portatore di gioia e dedizione: ognuno ha una mansione definita all’interno di una coralità magnificamente potente sul piano dell’espressività attoriale, del coinvolgimento emotivo e dell’attrazione visiva.
Risulta pressoché impossibile confondere i vari personaggi principali, poiché ognuno possiede un sé inconfondibile e definito, capace di distinguersi e di fare breccia nel pubblico, così come nell’intera economia della vicenda.
Su tutti, la talentuosa e bellissima Özge Gürel spicca per carisma, trasparenza recitativa e vivacità nei gesti e negli sguardi, mai disgiunti dalla leggiadria e dalla delicatezza.
La sua presenza scenica è magnetica, sopraffina, e, nei panni di Dicle Aydın, tira fuori tutta la sua verve di indiscussa e superlativa mattatrice, ergendosi a campionessa di irriverente comicità; Özge nobilita il set con la sua aura di modernità e freschezza, con il suo stile ineguagliabile, con l’immediatezza del suo sorriso, al punto che non si può non farsi travolgere dal suo fascino, dalla naturale capacità di rendere ogni interpretazione un condensato di espressioni e sentimenti anche molto divergenti tra loro.
E la sua Dicle, un po’ impacciata ma di una schiettezza e di una dolcezza senza riserve, mette in discussione innanzitutto se stessa: innegabile protagonista dell’intera serie, non a caso, si pone quale voce narrante intradiegetica, colei che cerca di dare chiarimenti su quanto accade lungo la storia, si pone interrogativi, osserva con sarcasmo quanto è già successo.
Nella sua alquanto parziale onniscienza, vorrebbe vedere i suoi sogni e quelli delle sue amiche in continua ascesa; tuttavia, con il crescere della saggezza tra le varie disillusioni della vita, capisce che occorre guardare ad ogni nuovo giorno con un temperamento differente, più disincantato ma tutt’altro che pessimista e remissivo.
Dicle Aydın sprona a puntare su se stessi, a fare leva sulle proprie forze e a pretendere il rispetto per le proprie scelte, facendo in modo che anche le persone a cui vuole bene facciano altrettanto.
Özge Gürel non è estranea a questo tipo di ruoli: fin dagli inizi della sua carriera, ha sempre incarnato donne alle prese con la salvaguardia della propria identità e dei propri ideali, verso l’emancipazione e la totale libertà di pensiero; l’apice nella profondità semantica e psicologica, raggiunto con il personaggio di Ezgi Inal in Bay Yanlış, né è senza dubbio la prova più significativa.
Ad oltre un anno di distanza, la figura di Dicle Aydın compie un ulteriore passo in avanti nell’edificazione di un’intesa tra il mondo esterno e i propri sogni.
Ezgi Inal si aggrappa stoicamente alle illusioni, per poi accorgersi che la cruda verità non può essere evitata, fino a deflagrare in un dannoso stato di autocommiserazione, tra rimorsi e isterismi; ci vorrà del tempo affinché Ezgi riacquisti la fiducia negli altri ma, prima di tutto, nella sua capacità di giudizio.
Dicle Aydın, più adulta e pacata, molto meno incline ai voli pindarici dell’immaginazione, è già dotata di una solida sicurezza nelle sue potenzialità, palesando quasi una superiore indifferenza verso gli intoppi della quotidianità, fungendo da sostegno morale per le sue amiche e da modello esistenziale per le spettatrici.
Senza perdersi nel futuro né ancorarsi nostalgicamente al passato, Dicle affronta il presente con determinazione e dignità, senza rinunciare alle proprie ambizioni e sfoderando la sola arma in grado di uccidere sia le eccessive idealizzazioni, prontamente deluse, sia le brutte esperienze che fanno sanguinare il cuore: l’autoironia.
Non tutte le ferite si rimarginano ma, facendosi beffa della propria ostinazione e della propria incoscienza, l’autoironia aiuta il singolo a farsi carico del dolore e delle paure e a non perdere la fiducia nella vita.
La morte di Meryem rappresenta una durissima prova per le ragazze, che scalfisce anche lo spirito più imperturbabile ma, forse, il temperamento guerriero di Dicle, insieme al supporto irrinunciabile delle sue amiche, troverà una via di uscita dalle tenebre di questa tragedia, stimolando l’evoluzione interiore di tutti i personaggi, verso una visione del vivere più matura.
Hayaller ve Hayatlar, una dizi pervasa di sano umorismo e dotata di una struttura narrativa variegata, protesa tra divertimento e riflessione, sta ottenendo un riscontro di pubblico più che lusinghiero: ampiamente apprezzata e, fin dal suo debutto, in tendenza su tutti i social media, “Sogni e vite” raccoglie un cospicuo gruppo di fan in tutto il mondo, dimostrando la sua attualità e il suo respiro internazionale, andando ben oltre i confini della Turchia.
Lo sviluppo della storia è soltanto all’inizio, ma subito si delinea con chiarezza un insegnamento: l’inviolabile, implicita bellezza della vita si impreziosisce ancor più quando le disavventure provano a violarla, sottolineando l’importanza di quelle sfumature che possono fare la differenza nel copione delle proprie decisioni; un copione stropicciato, irto di cancellature, pensieri sconnessi e frasi lasciate a metà.
D’altronde, la linearità non esiste: pretendere di dare un senso ad ogni cosa o ad ogni accadimento è un’utopia.
“La morte è la sorella della vita” afferma Dicle alla fine del quarto episodio: l’essere umano è legato ad un giogo circolare, dove l’imprevedibile fa incontrare gli opposti, nelle maniere e nei contesti più inaspettati… e in questi ultimi si può finalmente sperimentare, forgiarsi, vivere.