Agli appassionati di storia medioevale il nome della piccola cittadina di Azincourt rievoca immediatamente una battaglia decisiva svoltasi durante la celeberrima Guerra dei Cent’Anni (1337-1453). La battaglia di Azincourt fu una straordinaria vittoria degli inglesi. Questi furono trascinati da una figura carismatica che tutti conosciamo grazie all’omonima opera di Shakespeare, stiamo parlando di Enrico V. Tuttavia a guardare le cose con la giusta prospettiva, si trattò in realtà di una clamorosa débacle dei francesi, annichiliti contro ogni previsione, da un esercito malandato e ormai allo stremo delle forze. Per gli uomini di Carlo VI, l’infermo re di Francia, quel giorno ogni cosa andò praticamente storta. Una serie di eventi avversi si sommò a decisioni scellerate prese dai suoi luogotenenti sul campo di battaglia. Fu proprio il luogo scelto per lo scontro a contribuire alla rotta francese. Questi dal canto loro riuscirono ad aggravare la situazione commettendo un errore dietro l’altro. Mai come in questo caso si può dire che i francesi andarono a impantanarsi in brutta situazione.

Un’occhiata al contesto storico

Parlare della guerra dei cent’anni significa purtroppo addentrarsi in una serie di successioni dinastiche alquanto intricate. Significa parlare di recriminazioni territoriali, di lotte per la corona e di inestricabili legami di parentela con uniscono le due sponde della Manica. Semplificando la storia di questa guerra è la questione di un conflitto per la corona di Francia con tutto ciò che ne consegue in termini di rapporti feudali. Azincourt rappresenta quasi la fase mediana di questa contesa infinita. Siamo difatti nell’ottobre del 1415. I due protagonisti erano il re di Francia Carlo VI, non si sa se mentalmente disturbato o semplicemente inetto e il giovane Enrico V d’Inghilterra, forse valoroso, forse avventato. Questa battaglia arriva dopo due grandi vittorie inglesi. Quella di Crécy del 1346 e quella di Poitiers del 1356, in un contesto mutato e peculiare.

Parenti serpenti

Alle soglie del ‘400 la Francia è un turbinio di duchi e principi che nell’ombra si contendono la corona, cosa resa forse più agevole dal fatto che l’allora regnante, Carlo VI, vive tra accessi di follia e paranoie striscianti. Un nobile particolarmente intrigante, il duca Giovanni Senza Paura, per ottenere il trono di Francia invitò gli inglesi nel 1411 a invadere la Francia per spodestare Carlo VI. Il re inglese Enrico IV avrebbe ottenuto notevoli vantaggi territoriali e la signoria sulla Normandia. Tuttavia il sovrano era vecchio e malato, quindi Giovanni avrebbe dovuto aspettare il passaggio dello scettro al più ambizioso e temerario Enrico V. Qualche cavilloso pretesto di carattere giuridico per dichiarare guerra a Carlo VI et voilà, la spedizione di Enrico V su territorio francese è pronta. Nell’agosto del 1415 la flotta inglese è alla foce della Senna, pochi giorni dopo già assediava il porto di Harfleur che cadeva dopo un mese di strenua resistenza. Enrico si mise quindi in marcia alla volta di Calais mentre in Francia si radunavano delle forze necessarie a resistere.

Qualche curiosità

I francesi radunata una grande armata si preparavano a sbarrare il passo agli invasori. Ogni giorno che passava vedeva aumentare le difficoltà degli inglesi, alle prese con penuria di cibo e con malattie. Di contro i francesi avevano tutto l’agio di ingrossare le proprie fila. Dunque non deve stupire se alla vigilia della battaglia, l’aria che si respirava nei due accampamenti era profondamente diversa. Enrico V ordinò al suo esercito una notte di preghiere, l’accampamento era immerso in un solenne silenzio. Pena le più efferate punizioni.

Diversa l’atmosfera nei quartieri del connestabile Carlo d’Albret, comandante in campo delle forze francesi, date le condizioni del sempre più delirante Carlo VI. Tanto erano convinti della loro superiorità di valorosi cavalieri nobili che già scommettevano sull’audacia delle loro gesta e sui riscatti che avrebbero ottenuto dai prigionieri. Curioso notare come le batoste maturate sia a Crécy sia a Poitiers non avessero mutato nulla nel loro modus operandi.

Il fattore meteo

Probabilmente Azincourt non era passata per la mente di nessuno. Né tra i timorati inglesi, né tra gli spavaldi francesi. Fu il destino a volere che si incontrassero proprio in quell’imbuto, destinato a incidere così prepotentemente sulle sorti finali della battaglia. Nell’estremo nord della Francia il mese di ottobre significa pioggia incessante, brutto tempo e quindi terreni intrisi di acqua. Questo fu uno dei tanti casi il cui meteo e conformazione del terreno furono tutt’altro che imparziali. Da un lato i fieri cavalieri francesi, coperti di ferro e pesantemente armati, dall’altro le fanterie leggere inglesi con i loro archi micidiali. Da un lato un poderoso esercito la cui ossatura era una solida cavalleria, dall’altro un esercito assai più piccolo basato su reparti più agili il cui perno era costituito da infallibili arcieri armati di archi lunghi (longbows).

I due fronti

Sul campo della battaglia di AzincourtAnche le strategie dei due contendenti divergevano grandemente. Ricordiamo che gli inglesi erano una forza di invasione, con tutto ciò che questo comporta in termini di approvvigionamento logistico. A seguito dell’assedio della cittadina portuale di Harfleur erano inoltre tormentati da una serie di epidemie che ne avevano ridotto drasticamente numero ed efficienza operativa. Insomma ogni giorno in più era per Enrico uno stillicidio delle sue forze. Situazione inversa per i francesi che non avevano alcuna fretta di dar battaglia se non per gloria e orgoglio. Più riuscivano a procrastinare lo scontro più tempo avevano per raccoglier energie e organizzarsi. Inoltre gli appariva sempre più visibile lo sfaldamento delle forze antagoniste. Enrico dunque a nostro giudizio fu quasi costretto a gettarsi nell’imbuto di Azincourt. Più difficile da capire l’impellenza del connestabile d’Albret nel seguirlo in quelle sabbie mobili.

Di necessità virtù

Gli inglesi non erano nella condizione di poter filosofare troppo sulla strategia da adottare, il meteo era stato loro amico. In quell’improbabile pantano nel quale si sarebbero battute le loro truppe leggere avrebbero avuto maggiore mobilità degli avversari, i loro arcieri li avrebbero falcidiati da una distanza di sicurezza. La scommessa era grossa, la cavalleria francese non sarebbe stata in grado di caricare con impeto. Decimata da una pioggia di dardi, sarebbe poi stata sui fianchi dai reparti più mobili nascosti tra i boschi.

I francesi pensavano molto più in grande, avrebbero dispiegato la loro cavalleria, superiore per qualità e numero. I cavalieri avrebbero travolto gli arcieri e la fanteria nemica prima che questi avesse avuto il tempo di infliggere danni apprezzabili. Forse troppo sicuri della loro superiorità, caddero nell’errore di non prestare attenzione alle condizioni morfologiche del teatro di scontro e sottostimarono per l’ennesima volta l’impressionante volume di fuoco prodotto dai longbows inglesi.

Attacco francese

All’alba del 25 ottobre i due eserciti si schierarono l’uno di fronte l’altro, con i boschi a delimitare le ali di ognuno dei due schieramenti. Per tre ore non accadde nulla, alla fine furono i francesi a rompere gli indugi con una carica di cavalleria che si rivelò sterile e infruttuosa. Secondo alcune fonti i francesi vedendo l’esiguità delle forze inglesi decisero di caricare senza organizzarsi e aspettare l’ordine. Dulcis in fundo, un fronte così angusto limitava l’allargamento della cavalleria, ammassata in un “imbuto”.

Il terreno limaccioso impedì ai cavalli di prendere abbrivo, così come le palizzate piantate astutamente nel terreno dagli inglesi. Dunque, arrivarono a contatto con il nemico senza impeto e quasi impossibilitati a manovrare efficacemente. L’unico danno che riuscirono a infliggere fu alle proprie forze durante la ritirata. I cavalli imbizzarriti e spaventati nel ripiegare travolsero le linee di fanteria che faticosamente avanzavano in quella melma infernale.

Esaurimento della manovra

Gli inglesi armati alla leggera pativano molto meno la pesantezza del terreno. Disposero i propri arcieri in posizione ottimale per bersagliare gli avversari da distanza. Si premunirono inoltre di proteggerli inframmezzandoli con reparti di armati e palizzate acuminate. Le truppe di Enrico furono leste nell’iniziare il “bombardamento” non appena i cavalieri francesi furono a tiro e la loro cadenza di fuoco fu tale da infliggere perdite enormi ancora prima che questi entrassero a contatto. Non appena si accese la mischia fu chiaro che per i cavalieri non c’era speranza, lenti ed impacciati si vedevano assaliti da ogni dove dai nemici. Coloro che riuscirono a sganciarsi si volsero indietro e si ritirarono incapaci di governare i cavalli spaventati e agonizzanti. Nella loro fuga finirono per devastare ulteriormente il terreno.

Un finale che i francesi non si aspettavano

A questo punto la fanteria pesante francese armata di tutto punto e coperta da trenta chili di armatura iniziò la sua avanzata verso le linee inglesi. Fu l’ennesimo disastro. Scompaginata dai cavalieri in fuga, incapace di muoversi organicamente, questa sprofondava sotto il suo stesso peso. Inoltre l’incessante dardeggiare inglese li costringeva a spingersi avanti con la visiera dell’elmo abbassato e il capo chino. Visibilità azzerata e difficoltà respiratoria furono le conseguenze, a quanto si dice quando arrivarono contatto con il nemico non avevano neppure la forza per sollevare le armi. Intrappolati in un fronte troppo stretto e impediti dal loro stesso numero divennero presto preda inerme della fanteria inglese. Gli arcieri, terminati i dardi, assalirono i nemici con ogni mezzo, incluse pietre e bastoni. I francesi allo stremo delle forze morirono soffocati dal peso delle loro stesse armature o soffocati dal fango.

Una catena di errori

Azincourt fu una grande vittoria dell’esercito inglese che riuscì ad annullare la superiorità numerica nemica sfruttando il terreno a disposizione e le condizioni meteo favorevoli. Va tuttavia osservato che i meriti inglesi fanno il paio con una serie di errori macroscopici da parte dei francesi. Troppo sicuri della loro superiorità qualitativa e quantitativa (reale) non si preoccuparono di nulla. Vistose carenze a livello di organizzazione si aggiunsero a un personalismo pernicioso. Non ci fu unità di comando, ognuno si mosse per conto proprio, i nobili cercavano la gloria in uno scontro con i loro parigrado inglesi. Inoltre la loro presunzione li portò ad accettare battaglia nel luogo peggiore in assoluto per le caratteristiche del loro esercito. Insomma, l’esito di questo grande scontro fu la risultante di un’astuta strategia inglese che incappò nell’ottusità del comando francese. Sullo sfondo il caos, l’imprevedibilità degli eventi.

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