Studenti e studentesse in Italia devono fronteggiare decisioni che possono rivelarsi fondamentali per i risvolti del loro futuro, scolastico e lavorativo. Forse è sbagliato dal principio continuare ad alimentare la metafora che vede il percorso accademico come un ponte che collega al mondo del lavoro, della vita adulta e delle “vere” responsabilità. Ma non guasterebbe riconoscere anche il peso che determina chiedere a un tredicenne – così come a un diciottenne, in realtà – di fare una scelta che potrebbe influenzare completamente l’andamento del suo avvenire, soprattutto nella società odierna. Prima di tutto, perché il sistema scolastico si è evoluto negli anni: ora licei, istituti tecnici e professionali sono così specializzati da sembrare quasi indirizzi universitari, con una scelta talmente ampia che necessiterebbe un catalogo simile a quelli delle piattaforme streaming per facilitare la scelta. In secondo luogo, perché questa evoluzione ha permesso nel tempo, mediante le riforme della scuola, di istituire l’obbligo di formazione, che ha consentito ai giovani (a partire dagli anni Sessanta circa) non solo di ricevere un’educazione, ma di completare gli studi – se non altro la scuola secondaria, almeno di primo grado- e ottenere il relativo diploma. Questo ha significato chiaramente la possibilità di restare a scuola anziché dovervi rinunciare per cercare lavoro fin da età prematura. Per molti giovani è stata dunque un’inversione di rotta, che ha segnato un punto di svolta anche per le generazioni successive.
Istruzione e lavoro invero continuano ancora oggi a convergere, nonostante le alternative si siano moltiplicate notevolmente. I dati forniti dal Miur relativamente alle iscrizioni all’anno scolastico 2022/23 rilevano infatti una crescita numerica per istituti tecnici e professionali, sebbene presentino ancora un dislivello di quasi venti punti tra ragazzi (30,7%) e ragazze (12,7%); mentre i licei grazie alla loro diversità di indirizzi sono scelti dal 56,6% degli iscritti.
Tra scuola e realtà
Come evidenzia il report ISTAT 2021 sul livello di istruzione e i ritorni lavorativi, le differenze con la media europea sono ancora nette, con un tasso di occupazione dei laureati tra i 25 e i 64 anni di oltre 4 punti inferiore rispetto a quello medio europeo. Una discrepanza che si riscontra già a livello nazionale: il divario territoriale tra Nord e Sud vede una quota laureati di 10 punti superiore nel Settentrione. Di conseguenza, il Mezzogiorno risulta svantaggiato anche dal lato occupazionale, con un tasso del 66% dei laureati contro l’89% nel Nord. Quasi automaticamente, questa tendenza porta all’aumento dei fenomeni di migrazione dal Sud, soprattutto verso il Centro- nord. Lo stesso invece non si registra per le partenze all’estero, che vedono un lieve rallentamento, pur restando cospicue.
Anche il gender gap è forte: nonostante livelli di istruzione più elevati, i tassi di occupazione femminile sono in Italia notevolmente più bassi (55,7 % rispetto al 75,8% per la controparte maschile). I divari si riducono solo al crescere del titolo. Nonostante quindi l’attenzione del sistema universitario al livello di preparazione, l’istruzione non sembra premiare particolarmente con la restituzione di risultati concreti o di maggiori possibilità.
Forse il problema risiede proprio in un sistema che si premura di elevare solo i casi eccezionali, ma non sempre tiene conto delle capacità del singolo, innestando quasi subdolamente la consapevolezza che solo raggiungere l’eccellenza può portare a risultati e riscontri. Per questo molti cercano altrove. Alla luce di questi dati, è inevitabile tornare appunto alla questione principale introdotta precedentemente: il concetto oramai cristallizzato nell’immaginario collettivo (italiano in particolare) per cui esiste un collegamento diretto tra titolo di studio e occupazione. Un’annessione talmente radicata che, spesso, porta a scegliere anche basandosi sulla guida – se non forzatura – delle proprie famiglie. Qui entra in gioco un altro meccanismo che grava ulteriormente sui giovani, aggiungendo pressione a ragazzi e ragazze che appunto si trovano davanti a scelte tendenzialmente complesse già dalla fine della scuola media. Scelte che richiedono il discernimento di una serie di elementi, ma che rischiano pertanto di lasciar vincere il preconcetto che vede il nesso istituto tecnico/professionale e lavoro, mentre il liceo meccanicamente un passo inutile se si vuole entrare nel mondo lavorativo e tappa obbligatoria per proseguire con gli studi universitari. Tuttavia, un’indagine condotta da Studenti.it, che vede il 70% dei partecipanti scegliere in base a interessi personali, sembra sdoganare tale associazionismo. La stessa, d’altro canto, rivela anche la presenza di alcuni dei fattori sopracitati che sono dirette conseguenze di questo fenomeno. Il sondaggio mostra infatti andamenti non proprio propizi circa il divario territoriale, il livello di preparazione e, ancora, la pressione sul futuro esercitata anche da parte delle famiglie.
Le problematicità che emergono da queste analisi non implicano che questo sia un modello da modificare radicalmente o sbagliato nella sua integralità, ma semplicemente che non è possibile continuare a ignorare certi preoccupanti aspetti, specialmente quando il trend denota un costante calo negli anni. In generale, il livello di istruzione italiana gode di una buona reputazione, che tende a passare però in secondo piano, quantomeno perché gli standard qualitativi in merito alla preparazione solitamente – come già visto – non si traducono in maggiori opportunità lavorative, né in una maggiore soddisfazione da parte degli studenti, sembrerebbe. In aggiunta, proprio sulla base dello strumento utilizzato per valutare conoscenze e capacità di studenti e studentesse italiani – nonché il livello delle scuole – mediante la prova INVALSI, si evince che il tasso di dispersione scolastica rimane alto. Per di più, il test mette in evidenza ancora una volta il divario territoriale che segna già l’aspetto carrieristico e occupazionale.
Stanno tutti bene: il prestigio seppellisce il benessere mentale
Per misurare il livello delle istituzioni universitarie esistono delle graduatorie internazionali che permettono di identificare i migliori atenei nel mondo: questi ranking sono validi punti di riferimento per gli studenti in mobilità, ma anche per docenti, ricercatori e finanziatori. Ogni classifica adotta una propria metodologia, ma spesso i criteri d’analisi si basano su parametri limitanti per un giudizio completo: la classifica del QS World University Rankings, per esempio, analizza per materia. In quest’ultima, sono gli Stati Uniti a ricoprire la posizione dominante, mentre sono 56 le università italiane incluse, nessuna delle quali rientra però in top 100. Non si può esaminare con certezza quanti e quali siano i benefici del nostro sistema universitario: se da un lato infatti i disagi sono tanti, alcuni dei quali già citati, dall’altro è anche vano generalizzarli, sia perché ogni istituzione universitaria è diversa dall’altra e sia perché queste esperienze sono più soggettive che mai. Detto questo, non si può neanche prescindere dall’evidenziare che la salute mentale sia una grande assente tra le priorità del sistema scolastico del nostro Paese. Una tematica che solitamente passa inosservata perché si predilige elevare i casi record, che si tratti della velocità di scrittura della tesi, o del prodigio che ha accumulato un numero record di lauree in poco tempo: in generale, c’è una tendenza a raccontare storie di sacrificio e realizzazione piuttosto che i fallimenti che gli studenti credono di vivere. Così facendo però si normalizza in qualche modo uno schema tossico relativamente allo studio, che anzitutto regolarizza il burnout anziché incriminarlo, e che – consciamente o inconsciamente – molti seguono come fosse un modello ideale. Definirsi un fallimento è infatti proprio ciò che ha scritto su un biglietto una studentessa 19enne prima di togliersi la vita nei bagni dell’università Iulm a febbraio. La notizia non solo ha riacceso la discussione sulla scarsa attenzione del sistema universitario verso la salute psicologica, ma a questo, purtroppo, ha fatto seguito una serie di suicidi. Quando si arriva a questo punto, è naturale chiedersi quali misure pianifichino di adottare le scuole e il governo. Eppure i provvedimenti per evitare queste vicende prendono troppo spesso la forma di promesse, quindi l’unico modo di comprovarne l’efficienza si avrà soltanto nel momento in cui diminuirà la frequenza di queste drammatiche ripercussioni.
Le testimonianze: parlano due studentesse
Per approfondire sulle tematiche citate finora, sono sostanziali i dati statistici tanto quanto le esperienze personali. Alessia Micheli, 26 anni, e Martina Proietti, 23, sono entrambe studentesse all’università Sapienza di Roma; riportano di seguito il proprio punto di vista sull’attuale sistema universitario, tra aspettative e prospettive future.
Può raccontarmi, in breve, il suo percorso universitario?
M: «Frequento il corso di media, comunicazione digitale e giornalismo all’Università sapienza di Roma e in precedenza la laurea triennale in Comunicazione pubblica e d’impresa.»
A: «Il mio percorso universitario è iniziato a Perugia con la triennale in comunicazione e poi ho continuato all’università Sapienza con la magistrale in Media, comunicazione digitale e giornalismo. Mi sono spostata a Roma perché gli indirizzi della specialistica a Perugia erano solo due, mentre la Sapienza dava più scelta ma soprattutto proponeva un corso di laurea che rispecchiava molto quello che poi voglio fare io in futuro.»
Com’è stato il passaggio dal liceo all’università? Immediato e diretto oppure disorientante?
M: «Io ho frequentato il liceo linguistico, ma non ho voluto continuare con una facoltà linguistica anche all’università. Inizialmente avrei voluto studiare psicologia, idea in seguito abbandonata. Il percorso di orientamento all’università è iniziato soprattutto da me perché la mia scuola ha presentato solo università private, che non erano alla mia portata dunque per me non sono stati utili. Infatti sono andata autonomamente a Roma Tre che però non mi aveva convinto, per questo poi la mia scelta è ricaduta su Sapienza. Comunque ero sicura di voler fare l’università e volevo iniziare subito dopo il diploma. Non ho mai avuto il dubbio se andarci o meno. Ero particolarmente disorientata fino all’inizio degli open day, che mi hanno portato a conoscere corsi e sedi e infine orientata verso la Sapienza, anche perché ero consapevole che non potevo andare in università di altre regioni.
A: «A scuola non c’è stato proprio orientamento, infatti ero molto smarrita, ma non c’è stato interesse neanche da parte mia a informarmi, quindi inizialmente mi sono buttata su giurisprudenza. Mi piaceva il diritto quindi mi sembrava l’opzione più ovvia. Una volta all’interno del sistema universitario, ho deciso di fare un cambio e passare appunto a Comunicazione – perché avevo capito già come orientarmi.»
In generale, cosa si potrebbe (o dovrebbe) cambiare del sistema scolastico italiano? Ci sono particolari pregi o disagi?
M: «Secondo me sarebbe utile insegnare un metodo di studio, più personalizzato, che metta al centro ogni studente. Solitamente si propone un metodo universale dall’inizio della scuola obbligatoria, ma non può essere applicabile a tutta la classe. Secondo me è fondamentale per la proporzione tempo-carico di studio ed è proprio il punto di partenza per gli studi successivi. All’università nello specifico servirebbe più pratica, perché darebbe più senso e attualizzazione anche alla teoria. In generale, implementare anche le materie umanistiche, come psicologia e altri corsi che siano di utilità per una convivenza civile, per sdoganare i tabù sulla salute mentale (aiuti psicologici). Anche competenze pratiche che servano proprio nella vita quotidiana, come il corso di primo soccorso. Per quanto riguarda i pregi della scuola italiana, non credo ce ne siano: non trovo aspetti particolari che si distaccano paragonati ad altri modelli scolastici. Su base locale, penso al fatto che il mio liceo sia stato tra i primi della zona a sfruttare le potenzialità digitali, già usavamo Classroom da molti anni prima della pandemia.»
A: «Un disagio che ho riscontrato in generale è una formazione carente da parte di chi insegna, proprio in relazione all’essere poco adatti al ruolo di educatore. Io ho due esperienze e dunque due visioni distinte ovviamente dell’università: in entrambi i casi, il problema concerneva la fruizione delle lezioni, legato alla struttura non capiente e alla mancanza di aule. Per esempio è accaduto che non ci fossero posti a sufficienza in aula e quindi si dovesse fare lezione seduti per terra, che non è sostenibile. Invece penso che il pregio maggiore che contraddistingue in certi sensi la scuola italiana – rispetto ad altri modelli (europei) che conosco più da vicino – sia il livello di formazione e preparazione che si chiede agli studenti. Si sviluppano molte conoscenze spaziando tra più materie, con la possibilità di approfondire quelle d’indirizzo. Chiaramente questo comporta anche delle difficoltà, come l’eccessivo carico di studio che si ripercuote negativamente su studenti e studentesse. Però credo che le modalità di verifica e di esame siano giuste: ritengo imprescindibile l’interrogazione orale, che non è presente in molti Paesi ma che personalmente trovo necessaria, poiché dà una base considerevole per apprendere il public speaking.»
Ora le domande verteranno nello specifico all’università che frequenta e al corso di laurea scelto. Intanto, quali sono, secondo lei, gli aspetti proficui e quali invece i più critici?
M: «Tra le università di Roma pubbliche, io credo che la Sapienza sia migliore per diversi aspetti, che riguardano nello specifico il mio corso di laurea: mi è sembrato – tra le altre opzioni – quello organizzato meglio. Racchiudeva diverse caratteristiche per me essenziali come la maggiore comodità di raggiungimento, mi sono piaciuti l’ambiente e l’introduzione del corso, che ho trovato appassionante. Non avendo possibilità di considerare altre università (private o fuori regione) ho trovato fosse la scelta più vantaggiosa. Ho continuato infatti anche la magistrale qui, nonostante alcune criticità incontrate. Tra queste, l’organizzazione degli esami non proprio ottimale: passano giorni prima che si sappia a quale turno si è capitati, spesso lontano dalla data d’esame indicata. Gli orari delle lezioni anche non vanno molto incontro alle necessità degli studenti e delle studentesse, in particolare di pendolari e fuori sede ovviamente. Specialmente in quanto donna, oltre che pendolare, non sono affatto tranquilla ad arrivare in stazione di sera e tornare a tardo orario per frequentare una lezione.»
A: «Il mio termine di paragone è una realtà più piccola di Sapienza, quindi un pregio che le riconosco sono le possibilità che offre: diversi indirizzi e molteplici. Anche la possibilità di confronto e di incontri con personalità di rilievo nei campi d’interesse, una cosa che mi è mancata a Perugia. Sembra una banalità ma è un bagaglio per me fondamentale che questa università offre: il confronto con registi, autori e la loro disponibilità a farci lezione. Per quanto riguarda i difetti più gravi che ho riscontrato, direi la sovrapposizione tra esami e lezioni. In aggiunta, le modalità di gestione dell’esame: per me era funzionale avere un giorno e un orario fissi basati sull’ordine di prenotazione, perché la decisione ricadeva su di me. Trovo ridicolo ordinare su base alfabetica perché non è corretto che una persona debba aspettare fino a sera o ripresentarsi più volte solo a causa dell’iniziale del suo cognome. Nel mio caso poi, la sede in cui studio, essendo distaccata dalla centrale città universitaria, ha caratteristiche diverse. Da un lato è un ottimo dipartimento, non dispersivo e mi piace la zona, ma dall’altro è anche più complicato da raggiungere con i mezzi, lontano dalle principali stazioni e questo crea ulteriori disagi: è capitato che dovessi fare due esami lo stesso giorno in due sedi diverse, uno nella sede principale e uno nel mio dipartimento. Il giorno dell’esame di per sé è già stressante, quindi si aggiunge l’ansia di non fare in tempo.»
Quali potrebbero essere alcune soluzioni a questi problemi elencati?
M: «Dato che è già stata fatta esperienza della didattica a distanza, secondo me si sarebbe potuto portare avanti il sistema della modalità mista, in modo che lo studente possa scegliere quali lezioni frequentare a seconda delle sue esigenze (lavorative, di mobilità. Mi rendo conto che con la quantità di corsi di laurea erogati sia difficile far combaciare interesse dello studente e disponibilità di aule e docenti, quindi per non precludere la possibilità di andare a lezione a chi lavora o vive lontano, credo sia una buona soluzione. Dato che esistono gli strumenti tecnologici, trovo sia saggio sfruttarne le potenzialità, anche perché personalmente solo in questo modo ho potuto partecipare ai progetti a cui non avrei preso parte altrimenti. Per la questione esami, credo ci debba essere un impegno maggiore nel ripartire i prenotati in liste che si comunicano già alla chiusura dell’appello. Se so già con certezza in quale giorno presentarmi, il problema non sussiste.»
A: «I calendari delle lezioni dovrebbero essere amministrati in un modo che tenga in considerazione che, oltre agli studenti fuori sede, esistono studenti anche in sede ma comunque pendolari, i quali – chi più chi meno – possono impiegare diverse ore per tornare a casa. Questo è legato anche al problema delle aule: serve una migliore disposizione di aule nonché una maggiore quantità. Questa mancanza è stata spesso giustificata spiegando che non si immaginava ci sarebbe stato un quantitativo tale di studenti in magistrale, il che la dice lunga su quanto si presti attenzione a noi. Chi di competenza dovrebbe sapere quanti siamo, sulla base del numero di iscrizioni e di chi sta pagando le tasse. Forse stare in un dipartimento distaccato comporta anche un deficit di servizi rispetto alla sede centrale: per esempio mancano proprio gli spazi adibiti agli studenti, allo studio. Questo problema l’ho riscontrato solo qui, ma dovrebbe essere di immediata risoluzione. Non è fattibile che tutti i servizi per gli studenti siano collocati in un solo luogo, anche perché la scelta del dipartimento non è a discrezione dello studente.»
Cosa fa/ ha fatto l’università di tangibile per sopperire a queste lacune? Come e quanto sono coinvolti i rappresentanti stessi del corso?
M: «Non credo che ai responsabili o alle segreterie sia stato fatto presente, perché la situazione è sempre rimasta così. Forse c’è proprio una noncuranza di base, non so; non si vuole dare una soluzione alternativa a questo punto. Dopo cinque anni, non noto cambiamenti in questo senso. Per le lezioni non è mai stato fatto nulla, per gli esami alcuni professori sono disponibili e comprensivi, e magari ci si aiuta tra colleghi, però non è giusto che a volte vada bene e altre no. Per me anche il fatto che abbiamo usufruito di strumenti come la dad per un certo periodo e siano stati del tutto abbandonati non è inclusivo… si potrebbero anche registrare le lezioni e caricarle successivamente, dato che alcuni riscontrano problemi con lo streaming. Troppe persone devono rinunciare allo status di frequentante per questi problemi. Comunque sulle dinamiche rappresentanti – coordinatori non sono aggiornata, ma in generale non sappiamo mai veramente quali siano le loro proposte e se poi si attua effettivamente di conseguenza alle richieste.»
A: «Sono coinvolti, e so che hanno fatto delle richieste. Penso che il problema rimanga l’ascolto dall’altra parte. A inizio anno c’è stato un problema di indisponibilità di aule e successivamente è stato adibito qualche spazio in più. Per esempio, un altro disagio che mi viene in mente, legato sempre alla struttura contenuta, riguarda la mancanza di spazi per mangiare. Non c’è una mensa, perciò si deve stare sulle (poche) sedie/ panchine fuori dalla facoltà, sulle scale, oppure seduti in aula mentre c’è una lezione in corso magari. Oltre a essere scomodo, non dovrebbe essere una condizione di normalità e abituarcisi. Penso che sia anche un nostro diritto in quanto studenti.»
Invece degli sportelli e dei servizi universitari cosa sa dirmi?
M: «Non ho quasi mai usufruito degli sportelli Sapienza, ma con la segreteria didattica della mia facoltà mi sono trovata bene: hanno sempre risolto i miei problemi. C’è stato un caso in cui si è verificata un’incomprensione, un errore per il quale sono stata quasi biasimata, ed è questo comportamento nei confronti dello studente a essere sbagliato, più che il servizio in sé. Non posso comunque generalizzare, avendone usufruito limitatamente.»
A: «Per la mia esperienza, posso dire che la segreteria – rispetto alla situazione della triennale quantomeno – è piuttosto disponibile, ma a volte manca di efficienza: le risposte spesso non sono celeri e si deve attendere qualche giorno. Invece ho riscontrato maggiori problemi con l’orientamento e la gestione dei tirocini: la scelta del dipartimento di dividere i tirocini in due parti, quindi obbligare a due esperienze di tirocinio da 3 cfu anziché un’unica erogazione, rende il procedimento molto confusionario. Anche perché poi molte aziende non si adattano a questo modello: ovviamente sono poche a offrire tirocini da 75 ore circa. Per me è sbagliato: non per l’efficienza dell’ufficio tirocini che è buona, così come la piattaforma di ricerca a nostra disposizione, ma proprio l’erogazione non è corretta né per gli studenti né per l’azienda. Devo anche menzionare che gli strumenti propri dell’università come la piattaforma di Infostud arrecano disagi, in più l’app è inesistente. In triennale mi sono trovata bene con l’app perché consente un controllo immediato e veloce; ora sono in magistrale senza l’app dell’università e costretta a usare le piattaforme, sempre in manutenzione. Anche il poco tempo in cui ho avuto a disposizione l’applicazione, non l’ho trovata funzionale. In ogni caso, trovo sia una grave mancanza non solo perché la digitalizzazione è in ogni ambito oramai, ma soprattutto dato il prestigio di cui gode un’università come questa. Un update tecnologico è necessario, in vista anche della dichiarazione dei rappresentanti di voler rendere più digitalizzato e competitivo l’ateneo più grande d’Europa.»
Prima ha menzionato che non è studentessa residente. Secondo lei il pendolarismo a lungo andare comporta maggiore stress a carico degli studenti?
M: «Assolutamente. Io abito in provincia di Frosinone, dunque ho una media di circa tre ore di treno per arrivare in università. Chiaramente questo porta delle “ore perse” con la didattica in presenza, che per me rappresenta un disagio oltre che un peso ulteriore. Questo ha ripercussioni anche sulla salute mentale e l’approccio alla vita universitaria. Dalla magistrale, in particolare ricominciando in presenza, è stato molto più complesso riprendere. In questo caso, mi è stato utile non aver avuto lezioni sparse nel corso dell’intera giornata, ma concentrate al pomeriggio.»
A: «Io sono pendolare e fuori sede, fortunatamente posso permetterlo perché sostanzialmente si tratta di un’ora di treno. Dunque non è una situazione insormontabile. L’unico problema è che devo vivere in funzione dei mezzi, che spesso portano disagi per mancanza di puntualità. A rendere tutto complicato è il connubio tra l’inefficienza dei trasporti e la disorganizzazione delle lezioni. Però , appunto, non è una difficoltà invalicabile.»
Ritiene che il suo corso di laurea offra una preparazione completa?
M: «Non proprio. In triennale in particolar modo ci sono stati esami pesanti, distanti dal percorso e dal focus del corso, che di fatto non mi hanno lasciato nulla. Penso di aver svolto ¼ degli esami propriamente di indirizzo. Il piano formativo è strutturato in modo da comprendere un po’ tutto, come per incanalare conoscenze diverse, ma poi in realtà non ti resta nulla: è uno studio fine a se stesso. Anche nella specialistica, seppur in misura inferiore, ci sono degli insegnamenti che si discostano dal percorso, ma c’è comunque una netta differenza. Penso che questo stacco sia dovuto alla concezione comune di laurea triennale come un punto di partenza. Viene resa dispersiva, cosicché si debba necessariamente continuare gli studi per avere in mano qualcosa “di valore”, oltre al fatto che all’università fa comodo assicurarsi iscrizioni anche al secondo ciclo, che siano corsi di specializzazione o altro. In generale si instilla la necessità di proseguire, altrimenti la percezione è di aver lavorato per nulla. Forse è anche diretta conseguenza dell’idealtipo del laureato, di un pregiudizio diffuso per cui una laurea triennale è praticamente inutile.»
A: «Conoscendo e avendo studiato in una realtà diversa, posso dire di sì. Ci sono insegnamenti che sviano leggermente, ma sono in misura inferiore. Più di tutto ho apprezzato la preparazione pratica. I lavori di gruppo sono molto d’aiuto, soprattutto in questo corso, perché ritengo diano la base anche per approcciarsi a un team lavorativo in futuro. Ci sono esami non necessari per me, per una rimanenza personale, ma magari sono di utilità al percorso formativo: in generale prediligo gli esami che prevedono la realizzazione di project e la partecipazione, semplicemente perché sento di acquisire competenze in più rispetto a quegli esami che richiedono l’impiego di più tempo, ma che non mi lasciano nulla di significativo. La stessa relazione tra carico di studio e numero di cfu in linea di massima non è sempre distribuita adeguatamente, ma è un problema attribuibile all’intero sistema universitario. I crediti nel complesso, qualunque sia l’attività, spesso non corrispondono al lavoro effettivo; persino la compilazione del piano formativo attiene al mero raggiungimento dei cfu totali, a sfavore magari di un interesse personale.»
Qual è la sua opinione sull’approccio adottato dai docenti in merito all’erogazione e svolgimento della lezione? Si stabilisce un rapporto diretto con la classe?
M: «In generale, per molti sei un numero e basta, non si ricordano di te o del tuo gruppo di lavoro. Però alcuni docenti sono molto più interattivi, e non hanno giudizi né pregiudizi nei nostri confronti. In base a come è impostato il corso, si crea in aula anche un clima competitivo, soprattutto quando siamo in dirittura d’arrivo con le consegne, ma è comunque sana competizione che spinge a captare il meglio dai risultati degli altri.»
A: «Se l’approccio è buono e c’è disponibilità nella lezione durante le lezioni, il riscontro si ha all’esame. Però come dicevo prima c’è una mancanza proprio umana, più che di formazione: l’umanità dev’essere alla base. Se c’è intanto quella, anche nelle lezioni c’è una migliore fruizione e si percepisce un clima migliore. Per quanto riguarda gli strumenti usati durante e dopo le lezioni, per esempio Classroom che è il più comune, secondo me esistono piattaforme più comode e intuitive, ma è una preferenza personale.»
Ci sono però degli strumenti proprio ideati per valutare insegnamenti e docenti (il questionario Opis, in questo caso). Secondo lei funziona?
M: «Io l’ho sempre visto come un modo per esporre il mio parere e l’ho utilizzato di conseguenza con coerenza e onestà. Ho sempre dato giudizi buoni se rispecchiavano al vero, così come ho segnalato criticità qualora ne avessi riscontrate. Lo strumento secondo me ha potenzialità di essere utile. Non mi sembra in generale che a seguito di questa pratica ci siano stati cambiamenti effettivi, però non mi sono informata per le materie in cui avevo già sostenuto l’esame. In sé potrebbe essere d’aiuto ma solo se ci fosse considerazione minima da chi gestisce questi corsi, oltre che apertura alle critiche da parte dei docenti: se su 100 persone, 80 dicono che qualcosa non va bene, si dovrebbe cogliere un campanello d’allarme. Anche mettersi in discussione è un modo di andare incontro alle esigenze di chi studia.»
A: «Secondo me è totalmente inutile, perlomeno nell’ottica in cui viene proposto: come un obbligo per prenotarsi all’esame. Non credo poi ci sia molta veridicità da parte degli studenti nelle opinioni in quanto richieste sotto forma di obbligazione, perciò dubito della sua funzionalità per i docenti.»
Che opinione ha delle attuali situazione problematiche che affrontano studenti e studentesse? Cosa, a suo parere, richiede maggiore urgenza e attenzione (caro affitti, salute mentale…)?
M: «Mi rendo conto che il prezzo dell’affitto impatti effettivamente anche sulle scelte universitarie, e non poco. Credo anche ci sia un sovrapprezzo generale a fronte di condizioni d’abitazione non ideali. D’altra parte le agevolazioni e le borse di studio esistono, ma lo stesso calcolo dell’ISEE non dà particolari contributi né include la totalità di coloro che ne avrebbero bisogno, perché sono molti i fattori che rientrano nel reddito e che quindi vanno a tagliare fuori anche chi ha necessità; lo stesso vale per le tasse. Un aggiornamento inclusivo in questo senso potrebbe senz’altro alleviare il peso economico sugli studenti. La salute mentale è una tematica che mi colpisce in generale, ma in ambito universitario (e scolastico) è quasi nascosta. Io per esempio non so neanche se c’è uno sportello psicologico nella mia università. Per cui se ci fosse un’attività operativa, sarebbe necessario pubblicizzarla, e fornire anche uno spazio di valutazione da parte degli studenti: io usufruirei di questo servizio solo se sapessi che c’è e che funziona.»
A: «Spesso le questioni problematiche legate all’università sembra ne rimangano al di fuori, come se fossero distaccate dal contesto. Il problema degli affitti troppo cari di fatto non è competenza dell’università, però è comunque strettamente correlato. Mancano gli aiuti concreti, l’idea migliore sarebbe creare più strutture e studentati. Non so in che modo si possa agire a riguardo, forse se ne dovrebbe discutere di più. Per quanto concerne il benessere mentale degli studenti io penso che debba essere portato all’attenzione in ogni realtà, mentre non è sempre così, men che meno in quella scolastica. Forse in università servirebbe in maggior misura, ma è un tema così tabù – almeno nel sistema italiano – che anche qualora esistessero aiuti, non so se sarebbero sfruttati. Personalmente, anche se ci fossero sportelli, dubito che ne usufruirei per questa ragione.»
Riguardo le disparità di genere, trova che in questo ambito siano appiattite o amplificate?
M: «Secondo la mia esperienza, non ho mai vissuto disparità di genere – in ambito scolastico, almeno – e in questo sono stata fortunata credo. L’ho percepita al liceo, pensandoci: ho notato dall’esterno degli episodi, ma nulla che mi abbia toccata personalmente. Non significa che l’università (o in generale la scuola) faccia qualcosa di concreto per aiutare le donne nello specifico. Sono le stesse studentesse a lanciare e proporre iniziative, come quella del distributore gratis di assorbenti, presenti nei bagni del dipartimento. Piuttosto, manca la spinta a di sensibilizzare e informare su diversi temi che riguardano la condizione femminile e che dovrebbero essere proprio inclusi nella didattica, in misura maggiore in ambito universitario. Ci sono ancora troppi argomenti sconosciuti, inavvicinabili e sarebbe sicuramente utile che l’università facesse di più: c’è un’ignoranza diffusa sulle condizioni di disagio che le donne esperiscono nella vita quotidiana (di cui è parte anche la vita scolastica). Faccio l’esempio delle “malattie invisibili”: se qualcuno si rompe una gamba, il dolore è evidente e la scuola lo riconosce, mentre se non c’è un danno visibile non si agisce, banalmente lo stesso accade con il malessere psicologico. Di conseguenza siamo immerse in un contesto nel quale istituire una pratica come il congedo mestruale è ancora un traguardo lontano»
A: «Mi sembra in realtà un contesto piuttosto equo, perlomeno la mia esperienza è stata questa.»
Un argomento ultimamente molto discusso è relativo proprio all’eccessiva pressione che il sistema scolastico nel complesso addossa su studenti e studentesse. Cosa pensa a questo proposito?
M: «Per me è un tema appunto ancora sottostimato, diretta conseguenza dell’indifferenza verso la salute mentale. La pressione arriva soprattutto dalle famiglie, e dalle loro aspettative. Al contrario, in chi vive le tue stesse esperienze si trova conforto ed empatia: tra colleghi universitari c’è sostegno. Purtroppo l’istituzione familiare e quella scolastica esercitano una pressione esagerata, sebbene in modo diverso, che però colpisce lo status mentale di studenti e studentesse. Può essere dovuto anche al fatto che le generazioni precedenti alla nostra non hanno un quadro specifico di quello che è il contesto universitario. Si potrebbe trovare il modo di accompagnare in qualche modo genitori e famiglie nel percorso dei figli, tramite un aiuto psicologico e sensibilizzazione informativa. In alcuni casi, se sono a conoscenza degli sforzi che comporta l’università, non riescono a trovare un punto d’incontro per pretese personali, o perché hanno essi stessi subito pressione e quindi riportano i medesimi comportamenti disfunzionali sui figli. Tendenzialmente serve però molta elasticità mentale, perché è difficile che generazioni passate cambino mentalità. Di solito, se succede, è troppo tardi e si è già raggiunto il punto più basso. Allo stesso modo, credo sia difficile anche convincere le persone che si trovano in questa situazione buia a intraprendere un percorso psicologico e chiedere supporto: spesso non ci si rende conto di essere incastrati in un meccanismo sbagliato.»
A: «Io riscontro questa caratteristica proprio nello Stato: è tutto impostato come se fosse una gara, una corsa contro il tempo. Banalmente, c’era competizione tra licei quando facevo le superiori. Ma la stessa cosa avviene in università: io che frequento comunicazione sono vista diversamente – a livello di reputazione accademica – rispetto a chi studia in facoltà scientifiche per esempio. Questo crea una pressione anche inconsapevole sugli studenti, che poi andiamo a esercitare tra stessi colleghi e su noi stessi, chiedendoci sempre di più. Infatti si è in gara con gli altri, con se stessi e con il tempo, perché deve essere fatto tutto velocemente, dalle verifiche agli esami: questo comporta ansia e agitazione che si ripercuote sulla mente e la performance dello studente, anche perché si pensa prima di tutto a finire “in tempo” e sostenere numerosissimi esami in una sessione per stare in pari, lasciando in secondo piano quindi l’aspetto di apprendimento. Non serve più imparare, ma stare nei tempi stabiliti. Anche l’etichetta di fuoricorso, perché di questo si tratta, è un’ulteriore pressione che io sento in un certo modo, ma altre persone potrebbero soffrirci in modo amplificato, e questo può sfociare in conseguenze più gravi. Si parte proprio da definizioni sbagliate che vanno a essere debilitanti per noi»
Per concludere, come vede il futuro dopo l’università?
M: «Dopo cinque anni di università impostati prettamente sulla teoria, non ho avuto modo di immergermi, ma neanche avere un’idea completa, del mondo del lavoro nella comunicazione. Non penso di aver sbagliato percorso perché sono convinta che l’ambito della comunicazione, specialmente per la direzione in cui andiamo in quanto società, sia ricco di opportunità. Nulla mi assicura, una volta finita l’università, che potrò subito andare a lavorare (in questo campo). Torno al discorso di prima: senza una base di conoscenze e capacità richieste più o meno universalmente a un laureato che esce da questo corso di studi, si è portati a proseguire con un altro ciclo – che sia un’altra specialistica o un master – nel tentativo di compensare queste carenze.»
A: «Dopo questa magistrale sento di avere più opportunità, ma sono stata fortunata ad averle potute perseguire, molti è preclusa perché non tutti gli istituti sono allo stesso livello né offrono tante possibilità. La pratica che ho svolto qui, seppur minima, ha dato una svolta a questa mia percezione. D’altronde non credo la scuola possa essere interamente pratica, quindi non mi sentirei mai completamente pronta e formata. Svolgere compiti pratici durante le lezioni è utile ma fino a un certo punto, perché poi secondo me si impara sul lavoro, partendo già dall’esperienza di tirocinio. Per chi si è appena laureato entra in gioco una delle problematicità maggiori del mercato del lavoro italiano: la richiesta di qualità, esperienza e conoscenze che di fatto lo studente – nonostante esca da un percorso di laurea completo – non ha, perché non le ricava dal suo percorso di studi. Comunque, ogni percorso accademico dovrebbe essere una scelta personale, non obbligata dall’angoscia e necessità di amplificare le proprie possibilità di accesso a una professione. Non penso sia giusto vedere l’università in quest’ottica, quindi in funzione del mondo lavorativo: sarebbe distruttivo dal principio.»
Rivedere le priorità: verso un punto d’incontro
Dalle interviste e dai dati riportati finora emergono soprattutto gli aspetti più disfunzionali della scuola e dell’Università italiana, ma non significa che sia possibile generalizzarli né che siano sovrastanti per chiunque. Il punto è che davanti a denunce di questo tipo non occorre focalizzarsi estensivamente sul lato critico che, talvolta, si traduce in eccessiva ostilità dello studente, spinta spesso dall’esasperazione. Allo stesso modo, non è utile concentrarsi esclusivamente sulle componenti valide evidenziate, perché si rischia di creare un’idea di lustro che poi non corrisponde alla realtà. La difficoltà maggiore nell’intraprendere un’azione progressiva sembra ricadere nella disposizione delle priorità: basterebbe individuare le problematicità e il loro impatto sul clima scolastico in generale, e mettere in atto accorgimenti concreti per evitare quantomeno i risvolti più drastici. E questo vuol dire in primo luogo capire quali sono le priorità, troppo spesso confuse. Le questioni che le istituzioni ritengono preminenti sono i veri fattori detonanti del cambiamento. Forse un primo passo potrebbe esser dato dal sostegno, anziché dalla (solita) opposizione alla narrativa descritta da studenti e studentesse. O forse questo non basta più. Se, per esempio, accamparsi davanti alle università come segno di protesta contro il caro affitti – altresì grido d’aiuto verso una condizione eccessivamente ignorata – non portasse ad alcun miglioramento, arriverebbe forte e chiaro un unico messaggio: non conta la voce della comunità studentesca. Gestire ogni criticità che emerge è un compito gravoso e sicuramente poco prioritario, soprattutto se inserito nell’ottica delle questioni problematiche di un’intera nazione. Di tanto in tanto però non duole ricordare che la scuola è tra le fondamenta del futuro di un Paese. Per quanto sembri impopolare, un primo passo verso una direzione propositiva può essere il semplice riconoscimento: ammettere di sbagliare, senza pensare a eventuali giustificazioni. In questo modo si può operare, anche silenziosamente, affinché questo circolo vizioso diventi virtuoso.