Il fatto che Piccole Donne sia un classico senza tempo è indubbio, ma è anche un’opera che ha eccezionalmente precorso i tempi, un manifesto femminista la cui rilevanza va ben oltre il campo letterario. Il suo spessore oltrepassa i confini dell’arte e si adatta alla realtà di ogni generazione: a testimoniarlo ci sono i numerosi adattamenti che ha ispirato. La parabola delle quattro sorelle March è una fotografia della complessità e delle diverse sfaccettature femminili convogliate nei personaggi di Jo, Meg, Amy e Beth, ma anche una contestazione delle limitazioni e degli obblighi sociali che le vincolano. Le sorelle dalle personalità distinte ma forti, ognuna a suo modo, crescono negli anni della Guerra di Secessione, in una società in cui essere donna ed essere indipendente sono realtà ben lontane, incompatibili e inconciliabili. Sono personaggi che hanno mantenuto una grande valenza nel tempo, ritagliandosi uno spazio nell’immaginario collettivo di (e da) generazioni, tale da essere riconoscibili e conosciute anche da chi non avesse letto il libro, o non avesse visto il/ i film. Numerose sono infatti le trasposizioni realizzate, cinematografiche e televisive, che risalgono persino agli albori del cinema muto. Ogni versione ha le sue caratteristiche, l’ultima – forse la più nota – risalente al ’94, diretta da Gillian Armstrong.

Le ultime versioni si distinguono maggiormente dalle prime, molto probabilmente perché a  trasporre questa storia sullo schermo sono state registe donne, che hanno quindi reso possibile la narrazione cinematografica di un racconto interamente femminile che, spesso, ma in questo in particolare, necessita dello stesso punto di vista. A distanza di oltre 20 anni dall’ultima trasposizione, la regista e sceneggiatrice Greta Gerwig propone la sua visione dell’opera della Alcott, riportando le esperienze comuni alle donne americane del 19esimo secolo, ma riferendosi in egual modo alla realtà contemporanea, che critica nella sua riflessione sulla posizione della donna nella società odierna. Nel suo adattamento, la regista si concentra sul percorso artistico di Jo, illustrando al tempo stesso i contrasti di genere esistenti nella storia: i diversi background, la distinzione tra classi sociali e conseguentemente tra opportunità di carriera.

La visione della regista

Gerwig, in realtà, unisce sul grande schermo i due classici di Louisa May Alcott, Piccole donne e Piccole donne crescono; mostrando l’adolescenza, la crescita e l’età adulta delle sorelle March in un susseguirsi di scene che appartengono a due timeline differenti, distinguibili grazie anche all’utilizzo di due filtri distinti: toni caldi e dorati per infanzia e adolescenza, contrapposti al grigio e al blu prevalenti nelle scene di vita adulta. La scelta della narrazione interrotta ha anche il fine di enfatizzare il contrasto tra i sentimenti evocati dalle due sequenze temporali: la spensieratezza e, in generale, la giocosità e allegria delle giovani sorelle, in opposizione all’atmosfera più malinconica e a tratti nostalgica che preponderante nella loro maturità. Nonostante il suo esordio cinematografico fosse stato nel 2017, solo due anni prima l’uscita di Piccole donne, con il film di formazione Ladybird – candidato a cinque premi Oscar – il tocco di Greta Gerwig è già riconoscibile: non solo perché ritroviamo nel cast volti noti come Timothée Chalamet (interprete di Laurie) e Saoirse Ronan (Jo March) nei panni della protagonista, ma soprattutto perché la visione della regista conferisce  un tratto distintivo al racconto del “girlhood”, l’adolescenza femminile, che nei suoi lavori è focale e ben rappresentato nelle dinamiche con vari aspetti della società. La sua sensibilità e il suo approccio nel ritrarre storie di crescita adolescenziale sono inconfondibili e accomunano questi film – da lei scritti e diretti – che sotto molti punti di vista dipingono la stessa realtà nonostante la notevole distanza temporale. È anche per questo che sono riconducibili all’attualità e riescono a mettere in luce problematiche oggi ricorrenti nonostante non siano ambientati nel nostro presente. Dunque, la stessa tematica si ripresenta ed è sviscerata nelle sue pellicole, in modi e linguaggi filmici diversi, apparendo profondamente personale; emerge un’urgenza narrativa che non sta semplicemente nel dare spazio alla rappresentazione femminile, ma nell’eseguirla correttamente, scandagliandone più aspetti. Si capisce quanto stia a cuore alla regista non sottovalutare come le donne vengono ritratte sullo schermo, come sono scritte e interpretate, senza scadere nell’ovvio o nel superficiale. È ciò che ci si può aspettare anche dal prossimo progetto di Greta Gerwig, che è nuovamente sceneggiatrice e regista di uno dei film più attesi dell’anno: Barbie;  non un live action ma una commedia che promette di smantellare gli standard e gli stereotipi spesso associati alle bambole.

Piccole donne ieri e oggi

Nel romanzo, le vicende della famiglia March sono narrate da Jo, che è appunto la protagonista: gli eventi si dispiegano dalla sua prospettiva e sono descritti dal suo punto di vista. Questo aspetto è prevalente anche nel film in cui il personaggio di Jo è dopotutto principale nonché voce narrante, ma nella sua interpretazione Gerwig riesce a non focalizzarvisi eccessivamente, mostrando anzi con una certa abilità l’animo femminile nella sua interezza, mettendo in risalto altri aspetti quali la solidarietà tra sorelle nonostante le differenze, il rapporto madre-figlia, persino la solitudine in diverse forme. In primo piano, sempre – in modo più o meno percettibile a seconda dell’intenzione della regista – la relazione tra le donne e il contesto sociale di riferimento, la voglia di rivalsa, di scegliere il proprio destino rifiutando canoni pre-imposti, i sogni, gli obiettivi e le aspirazioni che non possono non trovare terreno comune nelle battaglie femministe odierne. Louisa May Alcott anticipa nei suoi personaggi quella che sarà la natura dei movimenti femministi che hanno preso piede dalla cosiddetta “prima ondata”, in cui sono iniziate le proteste femminili che hanno dato voce alle problematiche e alle disparità, e che richiedevano diritti che oggi consideriamo sostanziali e irremovibili, come quello al voto. Dalla seconda ondata in poi, i movimenti hanno esteso il loro raggio d’azione alle altre istituzioni sociali, coprendo aspetti sempre più specifici come – tra gli altri – quello famigliare, sottolineando le ingiustizie e le imposizioni statali su questioni come i diritti di riproduzione, la sessualità, fino ad arrivare al privilegio maschile, la prevaricazione del patriarcato, la cultura dello stupro, la differenza di genere predominante e debilitante. Da quel momento, si sono susseguite diverse ondate e numerose personalità femministe hanno portato alla luce nuovi problemi che sono rimasti per troppo tempo celati, addirittura tabù: i più recenti movimenti HeforShe, Non Una Di Meno, Me too, Time’s up, hanno indirizzato l’attenzione pubblica, non per la prima volta ma certamente in modo indelebile e inevitabile, verso le caratteristiche intrinsecamente patriarcali della nostra società. Nonostante qualche piccola vittoria, le esigenze per modificare l’assetto istituzionale sono comunque incrementate nel tempo e le richieste sono cambiate radicalmente, diventando pretese, ma nonostante tutto la radice dei problemi è rimasta consistente per centinaia di anni e sembra difficile da estirpare.

Jo è, come la sua autrice, una pre-femminista, dotata di perseveranza e di un carattere indomabile (in senso buono) che sono mantenuti al centro nel film, seguendo quasi il suo ritmo, e nelle sue parole si possono rivedere donne, ragazze e bambine. I dialoghi sono irreprensibili perché non sono alterati nella loro costruzione originale, tuttavia restano funzionali e facilmente paragonabili al giorno d’oggi: “Le donne hanno una mente e non solo un cuore, hanno talento e ambizione, e non solo bellezza” costituisce non solo un prezioso insegnamento, ma anche, nella performance della Ronan, una protesta che deriva altresì dalla stanchezza accumulata e da un’esasperazione espressa nel momento più buio e solo della protagonista.  Le interazioni tra le ragazze e Laurie, tra Jo e sua madre, i diverbi con il critico Friedrich Bhaer, le conversazioni con la zia March, portano a galla temi più che mai paragonabili alla società in cui viviamo, nella quale – in effetti – le donne devono lavorare molto duramente per avere un riconoscimento o raggiungere una posizione “tipicamente maschile”. Un contesto in cui il divario di genere non solo esiste ma persiste traducendosi, tra le altre cose, in una disparità salariale (a parità di lavoro svolto), e in cui il peso di aspettative inarrivabili – dal punto di vista fisico, professionale e domestico – è sempre più asfissiante. Secondo i dati forniti dall’Osservatorio Diritti in merito all’occupazione in Italia nel 2022, il divario di genere è ancora alto: la differenza è del 18%, peraltro il valore più alto dal 1977, con un tasso di occupazione femminile al 9,2% contro il 6,8% per la controparte maschile.

In aggiunta alla già compromessa questione lavorativa, un’ulteriore criticità che viene analizzata anche nel film, riguarda il divario retributivo: secondo i dati forniti dal Parlamento Europeo, le lavoratrici in Europa guadagnano mediamente oltre il 12% in meno (all’ora) rispetto agli uomini, una discrepanza che parte proprio dalle differenze occupazionali sopracitate, e che è legata in modo particolare al livello di istruzione – altro tema vagliato durante il corso del lungometraggio. La differenza di genere in ambiente scolastico, la mancanza di un’istruzione adeguata per le bambine e le ragazze, costrette di sovente a un’educazione domestica, sono infatti carenze discusse in poche ma significative scene. Ancora oggi la disparità nelle scuole è un tema poco affrontato e che emerge sporadicamente nella sfera pubblica, eppure è tutt’altro che inesistente. La disuguaglianza in ambito scolastico assume infatti diverse forme, talvolta talmente radicate da rendere difficile individuarne le problematicità: dal tipo di abbigliamento richiesto nelle scuole, spesso imposto in un certo modo a seconda del genere, alla difficoltà d’accesso a determinati corsi o funzioni scolastiche. Secondo il report UNICEF Solving the equation: helping girls and boys learn mathematics, nella maggioranza dei Paesi del mondo le studentesse acquisiscono competenze matematiche inferiori rispetto agli studenti, e ad alimentare questa tendenza contribuiscono le norme di genere e gli stereotipi sull’incapacità delle ragazze di occuparsi di materie scientifiche. Trasferendo questo dato in ambito lavorativo, infatti, uno stigma equivalente è riservato alle donne che ricoprono ruoli storicamente maschili, per cui talvolta non si riconosce lo stesso trattamento e rispetto riservato invece agli uomini. Pur essendo basilari diritti umani agli occhi della maggioranza, non sono invece altrettanto consueti nei Paesi che non solo presentano un tasso elevato di analfabetismo, ma in alcune realtà alle donne è proibito accedere all’educazione e alla sfera lavorativa.

Questioni di genere: le ragazze e Laurie

Questo adattamento ritrae le storie di vita femminili conferendo a ognuna le sue sfumature, mentre (come nel romanzo) i personaggi maschili non sono in rilievo ma, anzi, sono spesso un tramite che – risulta evidente soprattutto nel film – viene utilizzato saggiamente seppur sottilmente per rendere ancora più marcata la disparità che esiste tra uomo e donna. Come già accennato, una delle interazioni tra Jo e Laurie – ormai cresciuti, lui prossimo alla laurea e lei pronta ad “abbandonare il nido” in seguito al matrimonio di Meg e alla partenza di Amy – raggiunge un momento cruciale quando il ragazzo decide di confessarle il proprio amore e le propone di sposarlo. Questa è senz’altro una delle scene più intense e celebri dell’intera pellicola: nonostante al pubblico sia chiaro dal principio il sentimento di Laurie, quest’ultimo viene esplicitato dopo molto tempo, e la reazione di Jo è inaspettata – specialmente per l’epoca. La rivoluzionaria protagonista, nonostante sappia che probabilmente sposarsi con il suo migliore amico potrebbe essere una delle migliori opzioni a sua disposizione per assicurare una vita più che agiata non solo per sé ma per mantenere la sua famiglia, è testardamente ma anche meravigliosamente ferma sulla suaposizione di donna libera e ambiziosa, sicura del fatto che non si sposerà mai. È, in realtà, un punto determinante per lo sviluppo di entrambi i personaggi: Jo decide di partire per New York dove intende lavorare come scrittrice, guadagnare dai suoi racconti, mentre Laurie viaggia a Parigi dove, forse per la prima volta, sarà posto davanti al reale significato del matrimonio per una donna. Anche l’evoluzione di Laurie è cruciale, perché pur essendo periferico rispetto alla tematica principale, non lo è rispetto al contributo  che apporta alle battaglie di queste donne. I movimenti femministi sopracitati non sono (e non dovrebbero essere) guidati o supportati esclusivamente da donne, ma è altrettanto rilevante che anche gli uomini aderiscano e siano informati sulla condizione femminile, sapere cosa comporta trovarsi in una situazione di disparità. Per Laurie, questa rivelazione avviene in un dialogo con Amy, anche lei a Parigi come accompagnatrice della zia March e per studiare pittura. Anche in questo caso, nonostante sia lampante dall’inizio del film che Amy sia  innamorata di Laurie e lui invece la ignori, in questa scena l’aspetto sentimentale è, per Amy in primis, relegato in secondo piano: nonostante la sua intelligenza e ricettività Laurie non concorda con la ragazza che sostiene che il matrimonio (e l’amore, di fatto) sia, per le donne, una mera questione economica. La rinnovata consapevolezza di Amy in merito al suo ruolo nella società è forse attribuibile alla sua crescita e al periodo passato con la zia March, che già da tempo le aveva confidato di essere “l’unica speranza della famiglia”: da quel momento la giovane donna ha saputo che, nonostante le fosse offerta la possibilità di coltivare la passione per la pittura in Europa, il suo destino finale sarebbe stato comunque quello di abbandonarla per “perseguire altri talenti, sposare un uomo ricco e diventare un ornamento per la società”. Anche i commenti di zia March sono spesso derisi o contraddetti dalle nipoti, specie da Meg, che si sposa (per amore) con John, professore squattrinato, e da Jo, convinta di potersi far strada nel mondo a suo modo. Tuttavia, essi rappresentano niente meno che un contatto con la verità e la durezza che la società riserva alle donne, specialmente se meno privilegiate; un monito alle ragazze che, sebbene arrivi con astio e cinismo, ha del vero.

Le donne della famiglia March sono cresciute in un ambiente domestico particolarmente emancipato ma d’una mentalità tutt’altro che condivisa, per questo distante dalla visione di molti, compresi Laurie e la zia March. Laurie sembra quindi essere la figura maschile che interagisce con tutte le sorelle, costituendo per ognuna di loro (fatta eccezione per la piccola Beth) un punto di svolta o di confronto: sebbene ci sia spesso anche un coinvolgimento dal punto di vista romantico (prima con Jo e in seguito Amy), egli rappresenta di fatto un espediente narrativo, centrale per far luce sulla disuguaglianza di genere e, in qualche modo, sull’impossibilità da parte dell’uomo di comprendere appieno la visione delle ragazze sul matrimonio, sul lavoro e sul denaro. Laurie vede infatti nelle sorelle March delle ragazze libere, istruite, cresciute in un nucleo familiare anticonformista e in cui ognuna coltiva la propria passione e mette in pratica il proprio talento, ma la realtà – che solo in seguito riuscirà appunto a cogliere – è che molto spesso le donne devono rinunciarvi, o scendere a compromessi. Su questo punto, Laurie si “scontra” anche con Meg – che ama i bei vestiti, le occasioni mondane e l’alta società – quando la giovane riesce a partecipare al ballo delle debuttanti: Laurie la trova cambiata e la guarda con disapprovazione, ma la sua risposta è decisiva affinché il ragazzo, così come l’audience, riesca ad andare oltre l’aspetto superficiale e percepire la reale motivazione della ragazza che, dopotutto, finge di appartenere a un universo che per lei è pressoché irraggiungibile.

Il patteggiamento delle lavoratrici

In una delle scene finali – prima dell’intensa commozione catturata dalla regista nel mostrare la protagonista realizzare il proprio sogno, che apre uno spiraglio di speranza e possibilità anche per le altre donne, non solo sue contemporanee – non si può sottostimare il peso della trattativa tra Jo e l’editore per quanto riguarda due questioni: le royalty che le spettano, e i diritti d’autore. Senza stupore, è Jo a dover essere accomodante e a rimetterci, ottenendo una piccolissima percentuale che, sebbene rispecchiasse probabilmente la natura di qualsiasi accordo tra editore e autore, lascia comunque aperta la possibilità che, a ruoli ribaltati, l’accordo raggiunto avrebbe potuto essere diverso.  Interessante in questa scena è la contesa sul diritto d’autore, a cui Jo – furbamente ma anche fieramente – non ha alcuna intenzione di rinunciare perché, come dichiara con fermezza, “voglio che il mio libro resti mio”. Nella costruzione di questa scena, Gerwig ha presumibilmente fatto riferimento anche a se stessa, in quanto donna che lavora nell’industria cinematografica, richiamando anche alla precarietà del mondo hollywoodiano (basti pensare allo sciopero degli sceneggiatori che sta avendo luogo in questi giorni) e alle difficoltà che esistono tuttora per le lavoratrici e le professioniste dell’industria dell’intrattenimento. La criticità non concerne solo la sottorappresentazione femminile nei film, ma anche in tutto ciò che contorna la loro realizzazione, tesi comprovata anche dalle numerose premiazioni che vedono frequentemente predominare registi, sceneggiatori, attori: grandi assenti le donne proprio agli Oscar 2020, che hanno visto come unica rappresentante (nelle categorie di “miglior sceneggiatura” e “miglior film”) la stessa Gerwig, ignorata invece nella categoria “miglior regia”.

Paradossalmente però, non è questo il compromesso maggiore che viene richiesto a Jo, quanto lo è l’obbligo di far sposare la protagonista del suo libro alla fine del racconto. È qui che entrano in gioco diversi paralleli: la scelta del matrimonio tra Jo e Bhaer non era il finale previsto dall’autrice, che a sua volta, nel volume Piccole donne crescono, dopo aver evitato quello che oggi chiameremmo fan service, e cioè il matrimonio tra Jo e Laurie, si è trovata comunque alle strette e ha dovuto scrivere un interesse amoroso per Jo (per ragioni di vendita), echeggiando quindi ciò che l’editore chiede Jo nel libro e, di conseguenza, alle sue versioni sul piccolo e grande schermo. Fatta eccezione per questo film, perché ciò che non ha potuto fare Louisa May Alcott è stato, in qualche modo, compiuto dalla regista: rispetto agli adattamenti precedenti, la scena in cui Jo capisce di essere innamorata e rincorre Bhaer in stazione per chiedergli di restare, è volutamente resa ambigua, posizionata in un limbo tra verità (nell’universo narrativo del film) e totale finzione (una semplice dimostrazione della scena scritta da Jo). È un finale che soddisfa e non soddisfa al tempo stesso, che lascia spazio all’interpretazione. In ogni caso, l’ultimo parallelo sta proprio nel rapporto autrice/regista e consumatore finale, in quanto la conclusione stessa è un modo di condiscendere al mercato e alle sue richieste: è sicuro che allora il libro non sarebbe stato mandato in stampa se l’autrice non avesse ceduto alle richieste dell’editore e alle aspettative di lettori e lettrici; allo stesso modo, oggi, il pubblico rimane più compiaciuto e appagato nel vedere anche Jo trovare l’amore, perseguendo il finale “da manuale” per una storia a lieto fine. L’aspetto romantico quindi, che è stato in gran parte posteriore nel film, rimane alla fine – forse – irrinunciabile in una storia che vede protagoniste femminili. Tuttavia, Gerwig sa convogliare il potenziale emozionale nella sua maggior espressione in una scena successiva, in cui Jo rimane a osservare la rilegatura della sua opera, con la consapevolezza di avercela fatta, nonostante gli infiniti sacrifici, le rinunce, e i compromessi che non le hanno sempre permesso di rispettare la sua visione di “farsi la sua strada nel mondo”.  In pochi secondi la scena comunica una realtà ancora presente, in cui le donne spesso devono scendere a patti per costruirsi un percorso professionale. A dimostrarlo sono i dati Istat 2022 sulla conciliazione vita (o, in più casi, famiglia) e lavoro: il mercato lavorativo italiano si posiziona sotto la media europea, mostrando che le donne godono di flessibilità inferiore e sono meno coinvolte nella gestione degli orari di lavoro, nel 76% dei casi è il datore – o datrice – a stabilirli, rispetto al 68% invece per gli uomini.

La condivisione dell’esperienza femminile

Per via di quanto descritto finora, non si può non asserire che un romanzo che ritrae e al contempo denuncia la condizione femminile dell’epoca – che spinge in qualche modo a ribellarsi a uno stato patriarcale imposto, mettendo in luce le difficoltà delle donne nel trovare un proprio spazio nella società, gli ostacoli nel seguire ambizioni che non rientrino nei dettami sociali imposti – risulti ancora attuale, a oltre 150 anni di distanza. Se questo da un lato denota una grande dote percettiva e la visione avanguardista della sua autrice, nonché la sensibilità e accuratezza della regista nella sua rappresentazione, dall’altro è contemporaneamente un riflesso preoccupante della nostra società. La costruzione e caratterizzazione dei personaggi è eseguita in modo magistrale, tale che è facile relazionarsi ad almeno una delle donne March, i cui sogni diversi hanno tutti pari dignità. Tuttavia, è difficile non notare con un certo rammarico che molte problematicità messe in evidenza allora, sono le stesse per cui ci si batte tutt’oggi. In particolare in questa trasposizione così moderna il percorso di identificazione nelle lotte delle protagoniste è pressoché immediato, e offre una versione rinnovata di un classico intramontabile disponibile per le nuove (e vecchie) generazioni. Uno degli aspetti intrinsechi nella realizzazione di questo film è anche l’affinità tra Louisa May Alcott (che ha creato Jo ispirandosi a se stessa) e Greta Gerwig, a sua volta, ha scritto Ladybird ispirandosi alla sua adolescenza, creando un manifesto generazionale che potrebbe renderla una degna erede della Alcott. Due donne di epoche lontanissime eppure così vicine, che hanno trovato il loro punto d’incontro in un personaggio: la stessa Gerwig ha affermato di aver voluto fortemente dar vita a questo soggetto proprio perché ispirata, già da bambina, dal fervore creativo di Jo, che l’ha spinta a perseguire la sua passione per la scrittura. Lo stesso incontro avviene nel processo di identificazione che accomuna spettatrici e personaggi: d’altra parte, dover sormontare comuni difficoltà nel quotidiano e in molteplici contesti, ha contribuito a costruire quel legame – non sempre scontato – di comprensione e solidarietà, di sorellanza, come quello che lega le donne della famiglia March. Uno dei pochi aspetti che ha reso migliore la società per le donne è proprio questo tipo di supporto in cui anche i sentimenti negativi come la gelosia e la sfiducia, qualora affiorino, non sono necessariamente repressi in modo nocivo, ma sbiadiscono organicamente perché accompagnati dalla consapevolezza, e in qualche modo dal conforto, di un’esperienza condivisa. Ciò ha permesso la creazione di una rete in cui trovano spazio diversi movimenti, organizzazioni, eventi dedicati all’empowerment femminile, iniziative volte al sostegno delle donne in diversi aspetti della quotidianità, dall’igiene mestruale – che già dall’infanzia può essere preclusa (un ottimo esempio in questo senso sono le tampon box nelle scuole) – fino alle app per garantire sicurezza e assistenza nel caso di spostamenti notturni o di viaggi in solitaria.Ha senso che siano proprio le donne a provvedere ai “malfunzionamenti” nella società e lottare per realizzare un cambiamento anche dal basso, non lasciando in secondo piano il reciproco aiuto; tuttavia spesso la narrativa che viene proposta tende a deviare in direzione opposta e mettere le donne l’una contro l’altra. Anche in questo caso però, le parole di Jo March, “la vita è troppo breve per litigare tra sorelle”, sono più che mai attuali.

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