Il caos regna sovrano nello stato del Kirghizistan, dopo che le elezioni parlamentari del 4 Ottobre, stravinte dai partiti filo-governativi, hanno portato in piazza disordini e guerriglie al grido del broglio elettorale. I palazzi del potere sono stati occupati dai manifestanti, circa 4,000 persone hanno denuciato la compravendita di voti da parte dei due partiti filo-sovietici già al potere, reclamando la mancata elezione dei rappresentanti dei partiti antagonisti. Kirghizistan: una nuova Rivoluzione d’Ottobre? Direttore responsabile: Claudio Palazzi
Per placare la piazza, la CCE (commissione centrale elettorale) ha dichiarato l’annullamento delle elezioni parlamentari, generando nel paese un vuoto di potere. Il presidente Jeenbekov ha dichiarato lo stato di emergenza, schierando i carri armati nel vano tentativo di controllare la guerriglia. Nonostante l’annullamento del voto, le proteste non si sono fermate; ad oggi il presidente Jeenbekov si è dimesso, al suo posto ha preso il potere il primo ministro, liberato durante i disordini dalla prigione, dove stava scontando una condanna per presa di ostaggi. Mosca fa sapere che continuerà a stabilire contatti in questa situazione, evidenziando gli interessi che la legano al paese per il quale auspica una repentina stabilizzazione politica.
Il Kirghizistan: un’anomalia dell’Asia Centrale
Bisogna ricordare, infatti, come il Kirghizistan annesso alla Russia nel 1864, entrò a far parte, da repubblica autonoma, dell’URSS nel 1937. Nonostante l’indipendenza acquisita nel 1991, i legami con il Cremlino sono rimasti solidi, il Kirghizistan infatti, con una residua presenza etnica russa e contingenti militari, rappresenta un valido alleato di Mosca nello scacchiere geopolitico dell’Asia centrale. Anche la Cina usufruisce della presenza militare nel paese, assicurandosi partecipazioni nei progetti inerenti al quadro della “nuova via della Seta”.
Il peso della politica russa trova la sua fonte nel braccio di ferro tra presidenti kirghizi e Putin. Il presidente russo minaccia, ad ogni tentativo di indipendenza, di non rinnovare il visto lavorativo di migliaia di lavoratori del Kirghizistan che popolano le periferie delle città russe, prospettando così un potenziale crollo dell’intera economia del paese , già di per sè precaria. L’agricoltura resta,d’altronde, il settore prevalente; il crescente debito estero e la scarsa incidenza del settore privato non invogliano gli investitori internazionali, mentre nel paese dilagano episodi di corruzione e un allarmante diffusione del terrorismo con centinaia di foreign fighter kirghizi.
La forte instabilità politica ha da sempre caratterizzato un paese fragile come il Kirghizistan, gli attuali disordini che minano la politica interna seguono la scia di altre proteste che hanno animato già in passato il popolo kirghiso. Nel 2005 la Rivoluzione dei Tulipani era scoppiata proprio a seguito delle ennesime falsificazioni elettorali, l’allora presidente Akayev fu costretto alla fuga e la carica venne coperta dall’allora già primo ministro Bakiev, che intraprese un difficile dialogo con le opposizioni nell’ambito di ulteriori garanzie democratiche. Lo scontro politico torna ad affiorare nel 2010 con quella che è passata alla cronaca come la Rivoluzione d’Aprile; un’azione dell’opposizione ha costretto il presidente Bakiev alle dimissioni e con un governo provvisorio, guidato dalla presidente Otunbayeva, è stata garantita la maggior concessione di poteri al Parlamento, sottraendoli alla carica presideziale, attraverso un referendum costituzionale.
Il parallelismo con la nazione di Lukashenko
E’ interessante,trattando di un tema simile, notare il parallelismo con un’altra situazione controversa, facciamo riferimento alla realtà politica bielorussa. Ex repubblica socialista dell’URSS, la Bielorussia è stata ,in questi ultimi mesi, protagonista di accuse di brogli elettorali rivolte al presidente Lukashenko, al potere da ormai 26 anni. Anche in questo caso i cittadini sono scesi in piazza a protestare, spingendo il governo ad effettuare un black-out totale delle comunicazioni e di internet per due giorni, con il fine di disorientare i manifestanti e oscurare ciò che stava accadendo nel paese. In Bielorussia vige la possibilità di votare nei 5 giorni precedenti al giorno delle elezioni, qualora fosse impossibile per il cittadino votare il giorno prefissato; alla luce di quanto emerge dall’art 53 della Costituzione, risulta dunque controverso il dato dichiarato dalla CCE che vede un buon 40% della popolazione aver usufruito del voto anticipato. In questo caso il Cremlino ha deciso di utilizzare una tattica neutrale, dove nonostante l’appoggio al presidente Lukashenko, il presidente Putin ha affermato di non voler intromettersi negli “affari interni bielorussi”, mentre l’intera Europa si scaglia definendo illegittime queste elezioni.
La storia politica bielorussa è costellata di accuse di brogli elettorali, così come quella kirghiza ha vissuto proteste e violenti cambi di governo; entrambi sono paesi in cui i partiti che primeggiano sono filo-sovietici e dove l’influenza russa è pragonabile ad una mano invisibile che tutto muove. Le libertà costituzionali del diritto di voto e della libertà di stampa ed espressione, che in Europa sono baluardi della democrazia, in questi paesi sembrano essere dei contenitori di parole prive di una portata precettiva. L’unico flebile barlume di speranza sono i migliaia di cittadini scesi in piazza per far sentire la loro voce contro governi corrotti e oscurantisti, il popolo reclama la democrazia vera, democrazia che purtroppo però ,ad oggi,rimane solo un’utopia.